Cinquant’anni fa si iniziò a parlare di Tommaso Buscetta
Divenne poi uno dei più importanti collaboratori di giustizia e grazie a lui si scoprì come funzionava la mafia siciliana
Cinquant’anni fa, il 3 dicembre del 1972, nelle prime ore del mattino, all’aeroporto romano di Fiumicino un uomo scortato da due poliziotti brasiliani scese dalle scalette di un aereo dell’Alitalia. Il volo arrivava da Rio de Janeiro. In fondo alla scaletta, ad attenderlo, c’era un’auto della polizia: l’uomo fu fatto salire a bordo e venne portato nel carcere romano di Regina Coeli. Da lì, il giorno seguente, venne scortato fino a Palermo, destinazione carcere dell’Ucciardone, in mezzo alla città, vicino al porto. I giornali scrissero che all’arrivo aveva con sé una sola valigia: dentro c’era uno smoking.
L’uomo si chiamava Tommaso Buscetta. Il suo era un nome noto tra le cosche mafiose palermitane e tra chi si occupava di mafia. Lo chiamavano “don Masino” o “faccia d’Indio”. Poi i giornali iniziarono a definirlo “il boss dei due mondi” perché aveva svolto la sua attività criminale sia in Europa che in America. Dodici anni più tardi avrebbe sceso nuovamente la scaletta di un aereo, estradato una seconda volta, e per la mafia sarebbe diventato “il traditore”, o meglio “l’infame”.
Insieme a Patrizio Peci, ex militante delle Brigate Rosse, Tommaso Buscetta fu il più importante collaboratore di giustizia della storia d’Italia. Grazie a lui si scoprì come funzionava a livello decisionale la mafia siciliana, com’era strutturata, chi comandava e come. Parlò dei collegamenti di Cosa Nostra con la politica siciliana e nazionale, dei collegamenti internazionali, rivelò i nomi degli uomini delle cosche all’interno delle amministrazioni locali. E parlò degli omicidi: i motivi, chi li aveva decisi, chi erano stati gli esecutori materiali. Raccontò anche che cosa avvenne nel corso delle due guerre di mafia, quella del 1962 e quella tra il 1981 e il 1984, quando i corleonesi guidati da Totò Riina, non riuscendo a colpire lui, uccisero due suoi figli (scomparsi e mai più ritrovati), un fratello, un genero, un cognato, quattro nipoti e altri due parenti più lontani. In tutto vennero uccisi undici suoi familiari.
Quella di Tommaso Buscetta è una storia atipica nel mondo di Cosa Nostra. Non apparteneva infatti a una famiglia di mafiosi: a Palermo, suo padre era un artigiano e produceva specchi ornamentali. Tommaso era l’ultimo di 17 figli. Durante la Seconda guerra mondiale cominciò a fare piccoli furtarelli, ai soldati tedeschi prima e a quelli americani dopo, di cibo e altri generi di prima necessità da rivendere al mercato nero. Entrò a far parte della cosca mafiosa di Porta Nuova: a 17 anni ebbe la punciuta, cioè gli punsero il dito per fargli uscire il sangue e fargli giurare fedeltà alla sua famiglia mafiosa. Un anno prima, a 16 anni, si era sposato. Per la cosca gestì negli anni Cinquanta e Sessanta il contrabbando internazionale di sigarette e il traffico di stupefacenti, viaggiando in tutto il mondo con passaporti falsi. Alla fine della sua carriera criminale aveva utilizzato 200 identità fittizie.
In quegli anni, nel primo dopoguerra, venne arrestato due volte, la prima mentre era a bordo di un camion con un carico di sigarette, un’altra, sempre con l’accusa di contrabbando, mentre era in un albergo di Roma in compagnia di una donna che non era sua moglie. Nelle famiglie di Cosa Nostra l’adulterio veniva mal tollerato e per questo subì una sorta di processo mafioso da parte della sua cosca.
Si avvicinò a un’altra famiglia vicina a quella di Porta Nuova, i Greco di Ciaculli, guidata da Michele Greco: allora era la famiglia mafiosa dominante a Palermo. Conobbe Totò Riina e Bernardo Provenzano, i cosiddetti Corleonesi. Partecipò alla prima guerra di mafia, nel 1962, durante la quale si scontrarono le cosche palermitane. Buscetta si schierò dalla parte dei Greco e contro i La Barbera. In quell’occasione riuscì a sfuggire a un agguato nel centro di Palermo investendo i due sicari che stavano per sparargli.
Fu poi accusato di aver partecipato alla strage di Ciaculli del 30 giugno 1963: un’autobomba doveva colpire Salvatore Greco, che nonostante il cognome apparteneva alla famiglia dei La Barbera, ma qualcuno avvertì le forze dell’ordine. Quando avvenne l’esplosione, attorno all’auto c’erano poliziotti, carabinieri e soldati. Morirono in sette: quattro carabinieri, due militari dell’esercito e un sottufficiale di polizia. Buscetta negò sempre di aver partecipato alla strage, ma venne sospettato. Per questo decise di lasciare l’Italia, fuggendo prima in Svizzera, poi in Messico, quindi in Canada e poi negli Stati Uniti. A New York, con i soldi che gli furono prestati dalla famiglia italoamericana dei Gambino, aprì una pizzeria.
Negli Stati Uniti Buscetta era arrivato con la sua fidanzata, Vera, da cui aveva avuto una figlia. Chiese però anche alla moglie, Melchiorra, di raggiungerlo con gli altri quattro figli, tre maschi e una femmina. A New York Buscetta aveva quindi due famiglie, ognuna ignara dell’esistenza dell’altra. Aprì altre due pizzerie.
Intanto, in un processo contro vari mafiosi che si tenne a Catanzaro, venne condannato a dieci anni di carcere per associazione a delinquere. Durante gli anni vissuti negli Stati Uniti, fece comunque più volte ritorno in Italia per partecipare a riunioni per la ricostruzione della “cupola”, cioè del gruppo dirigente di Cosa Nostra, dopo la guerra di mafia.
Nel 1970 venne arrestato negli Stati Uniti e rilasciato dopo il pagamento di una cauzione di 75 mila dollari. Andò in Brasile, lasciando sia la moglie sia la fidanzata. Nel paese sudamericano si fidanzò con una ragazza di vent’anni, Maria Cristina de Almeida Guimaraes, figlia di un avvocato molto famoso a Rio de Janeiro. Iniziò a lavorare nel suo studio ma contemporaneamente organizzò un poderoso traffico di eroina e cocaina verso gli Stati Uniti. Lo arrestarono nel 1972 assieme a una banda di trafficanti italoamericani, italobrasiliani e corsi: in un deposito trovarono che il gruppo conservava eroina per 25 miliardi di lire (più di 200 milioni di euro di oggi).
Per molti giorni venne torturato dalla polizia brasiliana che voleva estorcergli una confessione e avere i nomi di tutti i suoi complici. Il giudice Giovanni Falcone disse di lui: «Non bisogna dimenticare che quando la polizia brasiliana, torturandolo, gli staccò le unghie dei piedi si limitò a ribadire: “mi chiamo Tommaso Buscetta”. Lo portarono in aereo sopra San Paolo. Aprirono il portellone, minacciarono di lanciarlo nel vuoto. Nulla. Né gli fecero cambiare parere le scosse elettriche o il fatto di essere stato legato ad un palo mani e piedi: non svelò mai i reati commessi, né quello che sapeva».
Il 3 dicembre 1972 venne estradato in Italia. Scontò la pena prima a Palermo e poi a Torino. In quegli anni, raccontò dopo aver iniziato a collaborare con la giustizia, fu avvicinato da un uomo di Francis Turatello, boss della malavita milanese, che gli chiese l’aiuto delle cosche palermitane per individuare la prigione di Aldo Moro, rapito dalle Brigate Rosse il 16 marzo 1978. Buscetta disse che furono poi i corleonesi a bloccare l’iniziativa.
Nel 1980, dopo che gli fu concessa la semilibertà, divenne nuovamente latitante e tornò in Brasile dove si sottopose a un intervento di plastica al volto per rendersi irriconoscibile.
Quando iniziò la seconda guerra di mafia nel 1981 lui era lontano dall’Italia. I corleonesi uccisero i loro principali avversari, Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo. Buscetta era legato ai due boss uccisi e le cosche rivali dei corleonesi, indebolite, gli avevano chiesto di rientrare in Sicilia per guidarle nella riscossa contro Totò Riina, che per questo lo mise nella lista dei suoi principali obiettivi.
Il 23 ottobre 1983, Tommaso Buscetta venne arrestato dalla polizia brasiliana assieme alla moglie Cristina e ad alcuni suoi complici. Il mandato d’arresto era legato ad alcuni omicidi compiuti in Brasile nell’ambito del traffico di stupefacenti. Sia l’Italia sia gli Stati Uniti chiesero l’estradizione. Nel 1984, a luglio, i giudici Giovanni Falcone e Vincenzo Geraci andarono a Brasilia per convincerlo a diventare collaboratore di giustizia. Buscetta non rispose, disse che avrebbe preso in considerazione l’ipotesi. Quando, una volta decisa l’estradizione verso l’Italia, Buscetta fu caricato su un furgone che l’avrebbe condotto all’aeroporto, ingerì della stricnina che aveva nascosto sotto le unghie. La quantità non era tale da provocare la sua morte, ma l’estradizione venne sospesa per qualche giorno.
Buscetta arrivò alla fine in Italia scortato da Gianni De Gennaro, allora capo del Nucleo centrale anticrimine della polizia. Scese nuovamente ammanettato la scaletta dell’aereo, esattamente come 12 anni prima. Era malfermo sulle gambe, per via dell’assunzione della stricnina, e teneva una coperta a righe per coprire i polsi con le manette.
Il 17 luglio 1984 incontrò, nella sede della Criminalpol di Roma, i giudici Falcone e Geraci. Era presente anche De Gennaro. Iniziò così la sua collaborazione:
Sono stato un mafioso e ho commesso degli errori per i quali sono pronto a pagare integralmente il mio debito con la Giustizia, senza pretendere sconti o abbuoni di qualsiasi tipo. Invece, nell’interesse della società, dei miei figli e dei giovani, intendo rivelare tutto quanto è a mia conoscenza su quel cancro che è la mafia, affinché le nuove generazioni possano vivere in modo più degno e umano.
Buscetta rivelò l’organigramma di Cosa Nostra spiegando che la mafia era un’organizzazione unitaria retta da una commissione, la cosiddetta “cupola”. Era ciò che Falcone sosteneva da tempo: la descrizione della mafia come organizzazione unitaria passò alla storia come “teorema Buscetta”. Spiegò che a capo dei corleonesi, vincitori della seconda guerra di mafia, c’era Luciano Liggio, detenuto in carcere, e che i suoi due vice erano Bernardo Provenzano e Totò Riina, questo secondo molto più intelligente e determinato.
I colloqui con Giovanni Falcone furono molti e lunghi. Disse Falcone: «Perché parla Buscetta? È animato da un fortissimo spirito di rivincita; sa di trovarsi con le spalle al muro. Ma c’è un’altra componente che riguarda la sua biografia. Ha girato il mondo. Gli hanno raccontato del secondo matrimonio del capo di una delle cinque famiglie di Cosa Nostra americana al quale assistette il figlio della sua prima moglie, mentre lui era stato aspramente criticato perché “aveva l’amante”. Ha rotto da tempo, è questo che voglio dire, con una subcultura tipicamente siciliana».
L’ultimo colloquio avvenne il 19 novembre 1984. Buscetta chiese che venisse messa a verbale questa dichiarazione:
Sono stato ispirato solo dalla mia coscienza e non già da desiderio di rivincita o di vendetta: quest’ultima, infatti, non ha mai restituito quello che si è perduto per sempre. La mia scelta, quindi, maturata nel tempo, non è condizionata da rancori personali e tanto meno dall’aspirazione ad eventuali norme di favore per i cosiddetti pentiti. Mi sono reso conto da tempo che l’epoca in cui viviamo è incompatibile coi principi tradizionali di Cosa Nostra e che quest’ultima si è trasformata in una banda di feroci assassini. Non temo la morte, né vivo col terrore di essere ucciso dai miei nemici, quando verrà il mio turno, affronterò la morte, senza paura. Ho scelto questa strada in via definitiva ed irreversibile e lotterò con tutte le mie forze affinché Cosa Nostra venga distrutta. So bene quali umiliazioni e quali sospetti sul mio conto sarò costretto a subire e quanta gente male informata o in mala fede ironizzerà su questa mia scelta di vita; ma, anche se sarò deriso, o peggio, chiamato bugiardo, non indietreggerò di un millimetro e cercherò di indurre tutti quelli che ancora sono indecisi a seguire il mio esempio per finirla una volta per tutte con un’organizzazione criminale che ha arrecato solo lutti.
In seguito alle dichiarazioni di Tommaso Buscetta vennero emessi 366 mandati di cattura nel corso di un’operazione denominata “San Michele”. Nel 1986 testimoniò al processo contro Cosa Nostra, il “Maxiprocesso”. Un anno prima era stato trasferito negli Stati Uniti dove aveva ricevuto la cittadinanza, una nuova identità ed era stato messo sotto protezione in cambio di rivelazioni sulla mafia americana. Testimoniò nel processo americano chiamato “Pizza connection”.
Dopo gli attentati in cui furono uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, nel 1992, Buscetta accettò di parlare dei rapporti tra mafia e politica. Prima di incontrare i magistrati venne sentito dalla Commissione parlamentare antimafia. In precedenza si era sempre rifiutato di farlo. Disse al presidente della commissione, Luciano Violante:
Che cosa è cambiato dopo la morte del giudice Falcone e Borsellino? È cambiata una predisposizione nuova, un interessamento maggiore, una volontà a fare meglio di come si è fatto fino a pochi mesi fa; quindi mi trovo pronto alla collaborazione. Oggi in questa sede non ho nessuna intenzione di fare nomi di politici, non ho nessuna intenzione di sollevare polveroni; ho intenzione di farli e li farò ai giudici i quali non solleveranno polveroni, faranno indagini ed il nome del politico verrà fuori quando sarà opportuno che ciò accada. È assurdo che si debba sentire che Buscetta Tommaso parla a ruota libera con la trasmissione seguita, per poi domani sentirmi denunciare per calunnia. Non voglio essere calunniato e non calunnio. Le mie sono verità, ma quelle mie; se poi posso provarle o no, sarà competenza della giustizia appurare se le mie dichiarazioni siano vere o no. È mia convinzione che con le opportune inchieste giudiziarie, con il mio apporto – perché sono totalmente a disposizione – si potrà scoprire effettivamente questo rapporto.
Buscetta raccontò che Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti gli avevano rivelato che Giulio Andreotti aveva chiesto a Cosa Nostra di uccidere il generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Disse anche che il giornalista Mino Pecorelli, assassinato il 20 marzo 1979 a Roma, era stato ucciso sempre per volere di Andreotti:
Secondo quanto ho dedotto dalle mie conversazioni con Bontate, l’omicidio Pecorelli era stato un delitto “fatto” da Cosa Nostra, e più precisamente da lui stesso e da Badalamenti, su richiesta dei cugini Salvo “richiesti” a loro volta dall’onorevole Andreotti. Due anni dopo, nel 1982, Badalamenti mi ripeté in termini assolutamente identici la versione di Bontate. Pecorelli era stato assassinato perché stava appurando “cose politiche” segretissime collegate al caso Moro. Giulio Andreotti era estremamente preoccupato che potessero trapelare questi segreti di cui era a conoscenza anche il generale dalla Chiesa. “Lo hanno mandato a Palermo per sbarazzarsi di lui”, commentò Badalamenti, “non aveva fatto ancora niente in Sicilia che potesse giustificare questo grande odio nei suoi confronti”. In effetti, dalla Chiesa non aveva avuto tempo di minacciare seriamente Cosa Nostra.
Tommaso Buscetta è morto di cancro a Miami, negli Stati Uniti, il 2 aprile 2000. Sulla sua lapide, per ragioni di sicurezza, è stato inciso un nome falso.