Tutto quello che non si può fare in Ungheria
Come il primo ministro Viktor Orbán e il suo partito di destra, Fidesz, hanno trasformato un paese, pezzo a pezzo, costruendo un sistema illiberale e autocratico
di Luca Misculin, foto e video di Valentina Lovato
Ormai da qualche anno l’Ungheria non è più considerata una democrazia completa. Nemmeno dal suo primo ministro, Viktor Orbán, che l’ha definita più volte una «democrazia illiberale». A volte però è difficile conciliare l’immagine esterna di un paese che fa parte dell’Unione Europea, con vari ammiratori internazionali fra cui Donald Trump e Giorgia Meloni, in cui le elezioni si tengono a cadenza regolare, dove non c’è neanche un giornalista in carcere, con quella di un paese poco libero.
Ma basta grattare sotto la superficie per trovare una serie di meccanismi con cui Orbán, almeno da una dozzina d’anni, ha consolidato e accentrato il potere su di sé e su chi gli sta intorno. «C’è una macchina autocratica che è ovunque e controlla più o meno tutto», racconta Pap Szilárd István, caporedattore della rivista politica Partizán, uno degli ultimi media indipendenti rimasti nel paese.
I giornali, le principali industrie private e pubbliche, le università, i tribunali, la magistratura, gli ospedali, la scuola: dal 2010, anno in cui è iniziato il suo secondo mandato dopo una breve parentesi fra il 1998 e il 2002, Orbán ha riempito le principali istituzioni pubbliche e private del paese di suoi collaboratori, o di persone a cui ha garantito posti rilevanti in cambio di una fedeltà assoluta, con una dinamica paragonata da diversi esperti al modo in cui si costruisce una organizzazione criminale. Non è un caso che uno dei saggi più influenti dell’Ungheria di Orbán, scritto dal sociologo ed ex politico Bálint Magyar, si intitoli «Uno stato mafioso postcomunista».
Chi critica questo sistema lo fa con un notevole scoramento. Nelle settimane precedenti alle elezioni parlamentari di aprile diversi pezzi della società civile e dell’opposizione avevano la sensazione che Orbán potesse perdere, data la complicata situazione economica del paese aggravata dalla guerra in Ucraina, e il sostegno di tutti i partiti di opposizione a un unico candidato, il moderato Péter Márki-Zay. Non solo Orbán non ha perso, ma ha stravinto: e un futuro diverso, per l’Ungheria, sembra sempre più lontano e impronosticabile.
Molti temono invece che gli spazi di libertà saranno ulteriormente compressi, e la lista delle cose che non si possono fare diventerà ancora più lunga.
Già oggi è difficile sostenere che le elezioni in Ungheria siano libere. In uno dei primi provvedimenti del suo secondo mandato Orbán ridisegnò i collegi elettorali della parte maggioritaria della legge elettorale, una pratica nota fra i politologi come gerrymandering: accorpò alcuni collegi in cui l’opposizione era più forte e scorporò quelli in cui il suo partito, Fidesz, andava meglio. Oggi in Ungheria ci sono circoscrizioni enormi da 90mila elettori e altre decisamente più piccole da 6mila. Entrambe le categorie eleggono un solo parlamentare: il voto di una persona che vive in una circoscrizione da 90mila, e che tendenzialmente vota contro Orbán, conta decisamente di meno di quello di un elettore che vive in una circoscrizione più piccola e vota sistematicamente per Fidesz. Alle ultime elezioni una circoscrizione su quattro violava gli standard richiesti dall’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE) sulla sua grandezza e composizione.
Per cercare di aggirare il gerrymandering e avere più possibilità in tutte le circoscrizioni, prima delle ultime elezioni tutti i partiti di opposizione si misero d’accordo per sostenere un solo candidato o candidata anche a livello locale, oltre a quello nazionale con la candidatura di Márki-Zay. Un mese dopo che Márki-Zay aveva vinto le primarie dentro all’opposizione, Fidesz approvò una legge per permettere agli elettori ungheresi di votare in qualsiasi circoscrizione: in questo modo Fidesz poté indirizzare alcuni dei suoi più fedeli elettori e attivisti nelle circoscrizioni più combattute e dove l’opposizione aveva migliori possibilità.
In tutto si stima che si siano registrati per votare in una circoscrizione diversa da quella in cui vivono 157.551 elettori, circa uno su trenta.
«Il caso ungherese dimostra come gli autocrati possano condizionare le elezioni legalmente, usando la maggioranza parlamentare per cambiare le leggi e neutralizzare qualsiasi strategia l’opposizione decida di adottare», ha scritto di recente Kim Lane Scheppele, una sociologa dell’università di Princeton esperta di processi elettorali.
Ma in Ungheria gli ostacoli alla vita democratica iniziano ancora prima del giorno del voto: è infatti difficile farsi un’idea di cosa succeda nella politica del paese perché la stragrande maggioranza di giornali, radio e tv è controllata dal governo, direttamente o indirettamente. La tv pubblica è la più sfacciata nel suo sostegno a Orbán – nell’ultima campagna elettorale ha dato spazio a Márki-Zay per cinque minuti esatti, un mercoledì mattina – ma non l’unica.
Fra il 2014 e il 2018 il governo di Orbán fece pressioni sulle principali aziende private ungheresi per sospendere le inserzioni pubblicitarie sui giornali considerati ostili al governo. Molti giornali furono sul punto di chiudere. In ognuno di questi casi a un certo punto arrivava una persona vicina a Orbán che si offriva di comprare il giornale, al ribasso. «Poi licenziavano il direttore e nel giro di un giorno il giornale diventava completamente diverso», racconta Peter Erdelyi, direttore di 444, il principale sito di news indipendente in Ungheria. La situazione è ulteriormente peggiorata quando nel settembre del 2018 i nuovi proprietari «decisero simultaneamente di donare tutti i propri giornali a una fondazione chiamata KESMA», racconta Erdelyi. KESMA è guidata da tre ex collaboratori di Orbán e oggi controlla circa 500 fra giornali, tv e radio nazionali e locali.
I pochi media liberi come 444 o Klubrádió, una storica e popolare radio di opposizione a cui il governo ha tolto le frequenze pubbliche pochi mesi fa, sopravvivono grazie a donazioni private dei lettori. Il loro lavoro è reso difficile da mille altri ostacoli, piccoli o grandi. Fra le altre cose il governo Orbán ha cancellato le norme sulla trasparenza che consentono ai giornali di chiedere l’accesso a documenti pubblici, e ridotto a una sola stanza l’area in cui i giornalisti possono girare in parlamento.
A volte i provvedimenti sono più personali. «Se scrivi o dici qualcosa di critico la tua faccia comparirà nei telegiornali, diranno che sei un agente della CIA, cose così. È successo praticamente a tutti quelli che lavorano qui», racconta Erdelyi.
L’ostilità del governo si estende più in generale a tutti quelli che lo criticano pubblicamente. Nelle ultime settimane in Ungheria c’è stata una estesa protesta degli insegnanti delle scuole pubbliche, fra i meno pagati in Europa: il loro stipendio di partenza è inferiore ai 500 euro. Le manifestazioni hanno raccolto consensi sia a Budapest sia nelle città più periferiche, e la notizia è stata ripresa da diversi giornali internazionali. Il governo ha reagito offrendo alcune piccole concessioni ma soprattutto colpendo le persone coinvolte nelle proteste. Ai manifestanti è stato trattenuto un giorno di paga per ogni manifestazione a cui hanno partecipato, una pratica antisindacale vietata dalle norme europee.
Sono stati direttamente licenziati invece cinque insegnanti di un noto liceo di Budapest che avevano guidato uno dei cortei più grossi, all’inizio di ottobre. Fra di loro c’è anche Katalin Torley, che per 23 anni ha insegnato francese nello stesso liceo, il Kölcsey Ferenc.
Torley racconta di essere diventata un’attivista nel 2016, quando era diventato evidente che la scuola pubblica non fosse una priorità del governo Orbán. L’Ungheria è uno dei paesi dell’Unione Europea che spende meno nell’istruzione, specialmente quella primaria. Il governo sembra interessato soprattutto a controllare ciò di cui si discute in classe, per evitare che agli studenti vengano messe strane idee in testa: da qualche anno i libri di testo vengono prodotti da un’agenzia governativa controllata da Fidesz. Gran parte delle competenze del ministero dell’Istruzione sono state assorbite dal ministero dell’Interno, come se l’educazione fosse percepita come una questione di ordine pubblico.
Per certe iniziative, invece, i soldi si trovano sempre: due anni fa il Mathias Corvinus Collegium, una scuola superiore di eccellenza fondata da un amico di Orbán e considerata diretta espressione di Fidesz, ha ricevuto una donazione di beni dallo stato per circa 1,2 miliardi di euro, che ha usato per espandere le proprie operazioni (fra le altre cose sta per aprire un distaccamento a Bruxelles, in Belgio). Le Monde Diplomatique ha calcolato che la donazione statale al Mathias Corvinus Collegium supera il budget riservato nel 2019 alle 27 università pubbliche attive in Ungheria.
Fino a qualche tempo fa alle sporadiche proteste per le condizioni della scuola pubblica partecipavano solo gli insegnanti, ma Torley racconta che da qualche tempo anche gli studenti si sono accorti che il sistema ha lacune strutturali. «I ragazzi iniziano a chiedersi se sia normale non avere un insegnante di chimica da due anni, se sia normale che coli l’acqua dal soffitto delle aule, se sia normale che un insegnante si addormenta in classe perché fa altri due o tre lavori per riuscire a sopravvivere». Le proteste hanno smosso qualcosa, ma al contempo stanno anche provocando reazioni molto dure da parte del governo. «L’estremo accentramento di questa struttura autoritaria, l’assenza di ogni autonomia, caratterizzano tutto il regime. Quando si attacca il sistema scolastico, si critica il sistema del governo di Orbán», dice Torley.
Il cosiddetto sistema prevede diversi meccanismi di consolidamento e autoconservazione – la propaganda dei giornali, il gerrymandering, la formazione della prossima classe dirigente di Fidesz attraverso il Mathias Corvinus Collegium – ma non potrebbe sopravvivere senza un esteso consenso popolare. Orbán è tuttora apprezzato e rispettato in gran parte del paese. La percezione degli esperti è che molti ungheresi preferiscano vivere in un paese gestito da un governo molto presente e in cui le condizioni economiche sono scarse ma in miglioramento – il PIL ungherese è più che raddoppiato dall’ingresso nell’Unione Europea, avvenuto nel 2004 – rispetto alla situazione confusa e incerta che si creò dopo la caduta del regime comunista, nel 1989. Anche per questo sembrano disposti a tollerare soprusi piccoli e grandi contro gli avversari di Orbán.
Uno piuttosto grande lo ha subito Éva Ácsné, agronoma e cofondatrice di Kishantos, che prima di essere sostanzialmente chiusa dal governo era la più importante azienda che praticava l’agricoltura biologica in Ungheria. I suoi terreni si trovano non lontano dal lago Balaton, nella parte occidentale del paese, in una zona nota per la coltivazione e l’esportazione di semi e cereali.
Ácsné aveva fondato Kishantos nel 1998, dopo avere ottenuto la gestione di più di 400 ettari di terreni pubblici. Nel giro di quindici anni Kishantos era diventata un’azienda di successo con decine di dipendenti e un’affollata scuola per aspiranti agricoltori. Nel 2010 Ácsné decise di sostenere un agronomo che conosceva bene, Jozsef Angyan, e che si era candidato al parlamento con Fidesz. Orbán lo aveva convinto di volere riformare il sistema di concessione dei terreni agricoli per favorire i piccoli e medi agricoltori, di cui Angyan era considerato un portavoce. «Anche io allora ero una sostenitrice di Orbán», racconta Ácsné.
Angyan divenne sottosegretario al ministero dell’Agricoltura ma si accorse molto presto che la riforma promessa da Orbán era soltanto un modo per distribuire migliaia di ettari di terreni pubblici a suoi amici, familiari e alleati politici, per ricompensarli della propria fedeltà. Angyan e i suoi alleati fra gli agricoltori, fra cui Ácsné, criticarono pubblicamente Orbán. Angyan fu costretto a dimettersi da sottosegretario, mentre nel 2013 a Kishantos non venne rinnovata la concessione di tutti i 452 ettari che gestiva. In teoria per irregolarità amministrative e burocratiche. In pratica, perché Ácsné aveva sostenuto Angyan contro Orbán.
Oggi Kishantos gestisce solo due ettari di terreno che era riuscita a comprare dallo stato prima dell’arrivo di Orbán. Non coltiva più terreni ma continua a organizzare corsi di agricoltura sostenibile e affitta la tenuta per matrimoni e ricevimenti. «Conoscendo il sistema di governo di Orbán e dei suoi alleati era ovvio che Kishantos dovesse fallire. Era un simbolo molto forte di tutto quello che non vogliono in questo paese: non vogliono la libertà, non vogliono la democrazia, non vogliono che le piccole comunità siano forti. Non vogliono niente che non possano controllare», racconta Ácsné.
In Ungheria è complicato informarsi, ricevere un’istruzione pubblica, scioperare, gestire un’azienda, perché in qualche modo si mette di traverso il governo. Se poi si fa parte di una minoranza o di una categoria di persone potenzialmente più vulnerabile la vita diventa ancora più complicata e faticosa, e fatta di mille ostacoli quotidiani.
In Ungheria una donna su cinque ha una relazione sentimentale violenta, secondo una stima del 2018 della ong Women for Women. Nel 2020 il governo Orbán ha deciso di non ratificare la Convenzione di Istanbul, il testo più avanzato e il primo strumento internazionale per la prevenzione e il contrasto della violenza contro le donne. Ad oggi non esiste un centralino nazionale a cui le donne che subiscono violenza possano rivolgersi, e molte non vogliono parlare con le autorità perché non si fidano (diverse associazioni per i diritti delle donne sconsigliano, in caso di violenza domestica, di rivolgersi alla polizia). A settembre con un apposito decreto il governo ha ulteriormente ristretto l’accesso all’aborto, già molto complicato da anni.
La comunità LGBT+ viene sistematicamente osteggiata dal governo Orbán, che negli anni ha modificato la Costituzione per stabilire che il matrimonio può esistere soltanto fra un uomo e una donna e per impedire che le persone ufficialmente single (quindi anche le persone omosessuali) possano adottare dei figli.
I diritti delle persone non bianche vengono violati su base quotidiana. La comunità rom, molto ampia nel paese, vive confinata in quartieri degradati e i più piccoli frequentano scuole che di fatto sono segregate, a cui i bambini bianchi non vengono assegnati. I richiedenti asilo che cercano di entrare nel territorio ungherese dalla Serbia vengono regolarmente respinti con la violenza: un recente rapporto di Medici Senza Frontiere parla di pestaggi e «varie forme di umiliazione» da parte delle autorità di frontiera ungheresi.
La difesa del governo ungherese da queste accuse, ma in realtà da praticamente tutte le accuse che gli vengono rivolte, è la variazione sul tema di una risposta che Orbán ha dato più volte, la più nota delle quali è un discorso al Parlamento Europeo nel settembre del 2018. In quell’occasione sostenne che la vittoria alle elezioni legittimava lui e il suo partito a fare quello che volevano: «Le decisioni dell’Ungheria sono prese dai cittadini nelle elezioni nazionali. State insinuando che gli ungheresi non siano sufficientemente capaci di giudicare cosa gli convenga. Pensate di conoscere i bisogni degli ungheresi meglio degli ungheresi stessi: i nostri avversari socialisti e liberali sono comprensibilmente infelici del nostro successo, ma prendersela con gli ungheresi è ingiusto e anti-europeo».