«Quale gobba?»
Marty Feldman, l’attore che più di chiunque altro rese indimenticabile “Frankenstein junior”, morì 40 anni fa e fu anche molto altro
La maggior parte delle persone che sanno chi è stato Marty Feldman, morto il 2 dicembre di 40 anni fa, lo vide per la prima volta in una scena in cui prima lo si sente arrivare, mentre si trascina nella nebbia. Poi un primissimo piano inquadra il suo volto, inconfondibile. Il film era Frankenstein junior di Mel Brooks, uscito nel 1974 e considerato un capolavoro di comicità. E Feldman interpretava Igor («Àigor!»), aiutante del dottor Frankenstein («Frankenstin!»), il ruolo che più di tutti rese memorabile quel film. Che fu anche, proprio per il tipo di testi comici che utilizzava, un lavoro di doppiaggio tra i più complessi di sempre, oltre che tra i più citati in Italia per trovate come «lupo ululà e castello ululì» (per rendere l’equivoco tra le parole werewolves e where wolves).
Nel testo originale la pronuncia di “Igor” era “eye-gor”, un intraducibile gioco di parole che faceva riferimento alla caratteristica più evidente del volto di Feldman: gli occhi (eye) sporgenti e divergenti, una patologia oculare cronica dovuta all’ipertiroidismo di cui soffriva e, come lui raccontò, a un incidente avuto da bambino.
«Sono la sola persona mai apparsa in un film horror che non ha bisogno del trucco», diceva di sé Feldman, che all’epoca del film aveva 40 anni. E che già da prima di quel successo internazionale era noto in Inghilterra come uno dei comici e autori radiofonici e televisivi più divertenti della sua generazione, insieme al suo collega e amico Barry Took, che conobbe quando aveva vent’anni, e ad alcuni dei comici che avrebbero poi fatto parte del gruppo Monty Python.
Nato l’8 luglio 1934 nell’East End di Londra, in una famiglia ebrea emigrata da Kiev che aveva cambiato cognome, Feldman descrisse la sua infanzia come un periodo molto solitario della sua vita: specialmente gli anni della Seconda guerra mondiale, trascorsi con la famiglia in campagna. In adolescenza fu poi un tipo piuttosto ribelle, cosa che gli costò l’espulsione da diverse scuole e lo portò a lasciare casa molto presto.
Come raccontato dallo scrittore inglese Robert Ross nella biografia del 2011 Marty Feldman. Vita di una leggenda, Feldman ebbe anche esperienze relativamente precoci con le droghe e la microcriminalità, e disse di aver «scelto consapevolmente di essere un disadattato per tutta la vita perché è molto più interessante».
Era vegetariano e suonava la tromba, tra le altre cose: prima dei vent’anni sognava di diventare un musicista jazz (suonò anche nel primo gruppo del sassofonista inglese Tubby Hayes). Ma era un tipo ambizioso in generale, e la scrittura era una delle altre cose che lo attiravano molto. Cominciò a farlo regolarmente dalla seconda metà degli anni Cinquanta in poi, scrivendo insieme a Took, che era un po’ più grande di lui, alcuni testi e sketch di apprezzati spettacoli comici sia per la tv che per la radio.
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Dello stesso giro di scrittori e attori comici frequentato da Feldman facevano parte anche Graham Chapman, John Cleese e gli altri che avrebbero poi formato i Monty Python: alcuni degli sketch scritti da Feldman furono poi utilizzati e resi celebri dal gruppo. E in quel giro Feldman lavorò intensamente fino ai primi anni Settanta, quando la sua popolarità crescente come comico televisivo, attore protagonista di due serie (Marty e It’s Marty), lo portò a trasferirsi negli Stati Uniti.
È lì che si fece notare e apprezzare in alcuni programmi televisivi, sia per i lineamenti del volto che per i suoi sketch, dall’attore e scrittore comico Gene Wilder, autore della sceneggiatura di Frankenstein junior insieme al regista Mel Brooks. Wilder raccontò di aver scritto la parte di Igor pensando soltanto a Feldman, e che nessun altro avrebbe potuto interpretare quel ruolo.
Fu un successo memorabile, uno dei più ammirati e citati di Brooks come regista e di Wilder come attore e sceneggiatore. E lo fu anche per merito di Feldman, che ci mise molto del suo. Come riportato da Ross nella biografia del 2011, molte battute finite nel film – tra cui alcune sulla gobba di Igor – furono improvvisate sul set e poi mantenute.
Nei primi giorni delle riprese, per esempio, Feldman si divertiva a spostare la gobba di Igor da una spalla all’altra, e non tutti ci facevano caso. A un certo punto, rivedendo il girato, Wilder si accorse che la gobba era su una spalla diversa rispetto ad altre scene, e disse a Feldman: «Ma non ce l’avevi da questa parte?». In molti altri casi sarebbe stato un problema di coerenza della sceneggiatura, una scena da rifare: non in quel caso. Wilder trascrisse le sue stesse parole nella sceneggiatura, e ne uscì un’altra scena memorabile.
Feldman lavorò ancora sia con Wilder che con Brooks nei film Il fratello più furbo di Sherlock Holmes del 1975 e L’ultima follia di Mel Brooks del 1976. Era ormai una celebrità mondiale, scrive Ross, ma non si abituò mai del tutto a vivere in California, un posto di cui detestava la ricchezza e lo sfarzo. Era più a suo agio quando giocava a calcetto una volta a settimana con un gruppo di camerieri e insegnanti di liceo italiani con cui aveva stretto amicizia, lui che era un appassionato di calcio e gran tifoso del Chelsea.
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Feldman aveva 48 anni quando morì, il 2 dicembre 1982, a Città del Messico, dove stava lavorando per le riprese del film Barbagialla, il terrore dei sette mari e mezzo, scritto dal suo amico Chapman, dei Monty Python, e diretto da Mel Damski. Morì per un infarto, ma circolarono a lungo altre ipotesi mai confermate (un’intossicazione alimentare, una caduta sul set, un abuso di sostanze).
Rimase sposato dal 1959 e fino alla morte con Lauretta Sullivan, ma diceva – un po’ scherzando e un po’ no – di essersi innamorato «circa 500 volte» nella sua vita: «anche 300 volte nello stesso giorno». Lo scrittore inglese Ian La Frenais raccontò di averlo visto entrare una volta in un locale con una donna bellissima, che non era sua moglie. «Il successo mi ha dato all’inguine», gli disse.
Fu sepolto a Los Angeles vicino a Buster Keaton, uno dei suoi comici preferiti in assoluto. Al suo funerale un gruppo jazz suonò la canzone I Can’t Give You Anything but Love, un classico americano degli anni Venti. Il jazz, scrive Ross, era rimasto per tutta la vita l’altra sua più grande passione insieme alla scrittura. A un certo punto aveva anche conosciuto il sassofonista Charlie Parker, a Parigi nel 1952, ma era rimasto deluso da quell’incontro: «Non fece altro che parlare di biliardo, ero così incazzato», raccontò poi.