La stele di Rosetta dovrebbe tornare in Egitto?
Due petizioni con migliaia di firme sostengono di sì perché fu portata a Londra illegalmente nell'Ottocento, ma la questione è complicata
La stele di Rosetta viene considerata il blocco di pietra più famoso della storia per un motivo: è la chiave con cui riuscimmo a decifrare i geroglifici egizi, iniziando così un filone di studi che ci ha permesso di conoscere e interpretare una delle civiltà antiche più misteriose al mondo. Quest’anno è il duecentesimo anniversario dalla decifrazione della sua iscrizione, e mentre il British Museum, che la custodisce, ha organizzato una grande mostra dedicata, in Egitto stanno acquisendo sempre più popolarità due petizioni che vorrebbero far tornare la stele nel paese da cui proviene: ossia proprio l’Egitto.
Una prima petizione, organizzata dall’archeologa Monica Hanna, ha ottenuto quasi cinquemila firme, mentre un’altra, dell’ex ministro delle Antichità Zahi Hawass, ne ha oltre 110mila. Entrambe le petizioni esprimono la stessa tesi: all’inizio dell’Ottocento la stele fu presa e portata via illegalmente, la sua presenza a Londra è frutto di un bottino di guerra e pertanto dovrebbe essere restituita. «Il fatto che il British Museum si tenga la stele è un simbolo della violenza culturale dell’Occidente contro l’Egitto» ha detto Hanna, che insegna all’Accademia araba di scienze, tecnologia e trasporto marittimo.
La stele fu scoperta nel 1799 durante la campagna d’Egitto di Napoleone Bonaparte, nella città egiziana di Rashid, allora conosciuta dai francesi con il nome di Rosetta. All’epoca l’Egitto non era uno stato indipendente e Napoleone voleva insidiare il dominio commerciale inglese in quell’area del Mediterraneo, obiettivo che sarebbe poi fallito. Dopo la sconfitta militare, nel 1801, i rispettivi generali si accordarono per una resa che comprendeva la consegna agli inglesi di una serie di reperti antichi, inclusa la stele.
Secondo Zahi Hawass, uno degli archeologi egiziani più noti ed eminenti, l’Egitto non fu parte in causa di quell’accordo e fu sostanzialmente ignorato. Ma il British Museum questa settimana ha diffuso un comunicato, citato dall’agenzia di stampa Associated Press, in cui sostiene invece il contrario: il trattato del 1801 porta anche la firma di un ammiraglio rappresentante dell’Impero Ottomano, che era alleato con gli inglesi contro Napoleone. Gli ottomani a inizio Ottocento controllavano l’odierno Egitto, perciò secondo il museo è come se l’Egitto avesse avallato l’accordo.
Il museo rifiuta il contenuto delle petizioni anche perché il governo egiziano non ha mai presentato una formale richiesta di restituzione, oltre al fatto che la stele di Rosetta non è l’unica lastra su cui è presente quell’iscrizione. Ne esistono altre 28, 21 delle quali si trovano in Egitto (ma nessuna ha la stessa importanza dal punto di vista storico).
L’iscrizione della stele, che nel suo punto più alto supera di poco i 110 centimetri e pesa 760 chili, riporta un decreto emanato a Menfi nel 196 avanti Cristo. Il decreto è trascritto in tre lingue, geroglifico, demotico e greco, e proprio il fatto che lo stesso testo sia presente in tre lingue diverse, di cui una nota agli studiosi dell’epoca, permise la decifrazione e il conseguente studio sui geroglifici. L’importanza della decifrazione era chiara fin da subito: si racconta che quando l’egittologo francese Jean-François Champollion trovò per la prima volta la chiave per leggere e tradurre i geroglifici, ne fu talmente estasiato che svenne.
La questione della restituzione dei reperti antichi è molto dibattuta in ambito accademico, e non solo. L’UNESCO nel 1978 creò una commissione intergovernativa per incentivare i paesi e le istituzioni culturali a restituire beni acquisiti illegalmente in seguito a furti sui luoghi degli scavi archeologici. Ma se in questi casi è più facile dirimere la questione, in molti altri non lo è affatto: se per esempio i beni furono acquisiti legalmente da un paese politicamente dominante su un altro, come si fa a stabilire chi ha il diritto di tenersi quel bene?
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Al British Museum, oltre alla stele di Rosetta, c’è un’enorme quantità di arte antica egizia e sudanese, portata a Londra durante le dominazioni coloniali tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Tecnicamente non furono acquisizioni illegali, o almeno non tutte, tuttavia secondo molti furono anche la conseguenza di una dominazione forzata e di un’appropriazione culturale indebita. È un po’ lo stesso argomento usato dai greci che vorrebbero indietro i marmi del Partenone, custoditi sempre dal British Museum.
La gran parte delle restituzioni, comunque, avviene su base volontaria, oppure dopo un lungo lavoro diplomatico da parte del paese richiedente. Anche per questo è difficile che le petizioni per far tornare la stele in Egitto diano qualche risultato. Secondo Nicholas Donnell, avvocato statunitense specializzato in casi relativi a beni storico-artistici, non esiste alcun quadro normativo che faccia da riferimento a questo genere di controversie legali. A meno che non ci siano indizi chiari sull’illegalità dell’acquisizione, la restituzione è a discrezione del museo coinvolto. «Stando al trattato del 1801 e all’epoca in cui fu stilato, sarà complicato vincere un’eventuale battaglia legale per la restituzione della stele di Rosetta», ha spiegato Donnell.
Forse anche per questo il governo egiziano non ha sostenuto ufficialmente le petizioni, pur essendosi adoperato molto in altre occasioni, facendosi restituire migliaia di reperti e opere d’arte che erano state chiaramente acquisite in modo illegale. Sia Monica Hanna che Zahi Hawass ritengono che il governo non appoggerà la loro iniziativa. «La stele di Rosetta è un’icona dell’identità egiziana» ha detto Hawass. «Attraverso i media e con l’aiuto degli intellettuali cercherò di convincere il British Museum che non hanno il diritto di tenersela».
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