Il saluto fascista è reato o no?
La risposta è "dipende": dal motivo e dalla circostanza in cui viene fatto
La settimana scorsa otto persone sono state condannate dalla Corte d’appello di Milano per aver fatto il saluto fascista il 29 aprile 2016 nel corso della commemorazione di Sergio Ramelli, militante del Fronte della Gioventù ucciso nel 1975 da esponenti di un’organizzazione di estrema sinistra. Nel corso di quella commemorazione era stato scandito per tre volte il nome di Sergio Ramelli e per tre volte i militanti, che si erano dati appuntamento nella via dove avvenne l’omicidio, avevano risposto urlando “presente” e facendo il saluto romano, cioè il saluto fascista con il braccio destro alzato in avanti. Tra i condannati ci sono alcuni esponenti piuttosto noti del fascismo milanese degli ultimi anni come Stefano Miglio, leader di Lealtà e Azione, e Duilio Canu, ex di Forza Nuova e ora presidente del Movimento Nazionale-La Rete dei Patrioti.
Nel processo di primo grado gli otto imputati erano stati assolti, mentre in secondo grado il giudice ha stabilito una pena di due mesi di reclusione e 200 euro di multa ciascuno. Il diverso giudizio tra primo e secondo grado non è certo dato dalla presentazione di nuove prove: l’ipotesi di reato si basa su fotografie, filmati e relazioni delle forze di polizia. Il fatto quindi è quello, ed è acclarato: tra tante persone presenti che hanno fatto il saluto romano (meglio però chiamarlo solo saluto fascista visto che secondo gli storici gli antichi romani non utilizzavano quel saluto) ne sono state individuate otto. Ciò che cambia è l’interpretazione di quell’azione e cioè stabilire se fare quel tipo di saluto costituisca reato oppure no.
Un altro caso risale a una settimana fa a Verona e riguarda l’assoluzione di Andrea Bacciga, consigliere comunale eletto in una lista di sostegno all’ex sindaco di centrodestra Federico Sboarina. Il 26 luglio 2018 Bacciga aveva fatto il saluto fascista rivolgendosi a un gruppo di militanti femministe presenti nel loggione del consiglio comunale. Quel giorno venivano discusse due mozioni proposte dalla Lega in sostegno di associazioni cattoliche che si battono contro l’aborto. Per i giudici di Verona che hanno assolto Bacciga, “il fatto non sussiste”. Quel saluto fascista quindi non costituiva un reato.
A gennaio, a Vicenza, cinque persone sono state condannate a un mese di reclusione perché, il 28 aprile 2018, fecero il saluto fascista durante una commemorazione di Benito Mussolini nel giorno dell’anniversario della sua morte. Non solo, i cinque condannati dovranno anche risarcire l’Anpi, Associazione nazionale partigiani d’Italia, che si era costituita parte civile al processo. Sempre a Vicenza, a maggio, 17 persone sono state invece assolte per aver fatto, nel luglio 2019, il saluto fascista durante la commemorazione dell’eccidio di Schio, in provincia di Vicenza, dove nel 1945 vennero uccise da esponenti della polizia partigiana 54 persone, alcune accusate di aver collaborato con i nazisti, altre semplici appartenenti al partito fascista o parenti di fascisti.
Perché le cronache sono piene di sentenze diverse per lo stesso gesto? A cambiare è il contesto nel quale il saluto fascista viene fatto. Non esiste infatti un reato specifico per cui quell’atto possa essere giudicato e sanzionato. Esistono però due leggi che riguardano quel saluto e la cerimonia del “presente” (cioè quella in cui si risponde in coro «presente» a una chiamata): la legge Scelba e la legge Mancino.
La legge Scelba, del 1952, è quella che introdusse in Italia il reato di riorganizzazione del partito fascista e di apologia di fascismo. L’articolo 1 della legge dice:
Ai fini della XII disposizione transitoria e finale (comma primo) della Costituzione, si ha riorganizzazione del disciolto partito fascista quando una associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista.
Nell’articolo 4 si specifica:
Chiunque fa propaganda per la costituzione di una associazione, di un movimento o di un gruppo avente le caratteristiche e perseguente le finalità indicate nell’articolo 1 è punito con la reclusione da sei mesi a due anni.
Quell’articolo rese quindi perseguibile il reato che è diventato sinonimo di quella legge: l’apologia del fascismo (cioè letteralmente la difesa o l’esaltazione). In astratto, quindi, urlare frasi come «Evviva le camicie nere» oppure «Evviva Mussolini» può costituire reato. La Corte Costituzionale però è intervenuta spesso, nel corso degli anni, con sentenze che hanno posto confini alla legge Scelba: i divieti contenuti in quelle norme possono infatti entrare in contrasto, secondo la Corte, con libertà sancite dalla Costituzione come quella di libertà di pensiero e di associazione.
Già nel 1958 una sentenza spesso citata della Corte Costituzionale stabilì che non sempre fare il saluto fascista o urlare slogan e intonare canti possono essere considerati atti idonei a provocare «la diffusione di concezioni favorevoli alla ricostruzione del fascismo». Nello specifico, quella sentenza stabilì che una commemorazione funebre non costituiva un atto favorevole alla ricostruzione del fascismo.
La legge Mancino del 1993, che più volte esponenti di destra hanno detto di voler abrogare (nel 2014 la Lega promosse anche la raccolta di firme per un referendum abrogativo ma non raggiunse il numero di sottoscrizioni necessario) ha modificato il Codice prevedendo la «reclusione fino a un anno e sei mesi o la multa fino a 6.000 euro per chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi; e la reclusione da sei mesi a quattro anni di chi, in qualsiasi modo, incita a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi».
È in base alle modifiche introdotte dalla legge Mancino che furono condannate le sette persone che, nel 2017, insieme a decine di altre, misero in atto la cerimonia del “presente” al campo 10 del cimitero Monumentale di Milano per ricordare quelli che vennero definiti “martiri della rivoluzione fascista”. Nelle motivazioni della conferma della condanna la Corte di Cassazione scrisse che in quel caso erano presenti tutti gli elementi che la giurisprudenza richiede «per fondare il concreto pericolo che gli usi fascisti ostentati nel corso della commemorazione (saluto a braccio teso e risposta presente) assumano l’idoneità a favorire la diffusione dell’ideologia fascista e nazista o comunque fondata sulla superiorità o l’odio razziale o etnico».
Uno dei condannati, parlando con il Giornale, disse: «Mi accusano di aver propagandato idee fondate sull’odio razziale e di istigazione a commettere atti a sfondo razzista. Non vedo nessun tipo di collegamento con quanto avvenuto al cimitero di Milano. Non siamo andati a fare saluti romani davanti a una moschea o a una sinagoga, ma sulle lapidi di chi quel gesto lo avrebbe sicuramente apprezzato. La verità è che il saluto romano è solo un pretesto per scoraggiare chi ricorda le vittime della liberazione».
Tre anni dopo, sempre la Corte di Cassazione, scrisse, motivando l’assoluzione di quattro militanti di destra che avevano fatto il saluto fascista durante una commemorazione al cimitero Maggiore: «lì dove la dimensione fattuale descritta nella contestazione risulti incentrata esclusivamente sulla manifestazione esteriore del disciolto partito fascista – in un contesto commemorativo – (…), l’unica disposizione incriminatrice applicabile è proprio quella dell’art. 5 I. n. 645 del 1952». E cioè la legge Scelba che già più volte era stata limitata dalla Corte Costituzionale.
C’è una sentenza che aiuta a capire quale debba essere il discrimine, secondo la giurisprudenza, nell’interpretare il saluto fascista e la cerimonia del “presente”. L’ha emessa nel luglio 2021 il giudice Sergio De Luca del tribunale di Sassari. A essere giudicate sono state 22 persone che in occasione del funerale di un docente universitario, Giampiero Todini, sul sagrato della parrocchia di San Giuseppe fecero il saluto a braccio teso rispondendo con il “presente” al grido “Camerata Giampiero Todini”. Tra gli imputati c’era anche il figlio del docente, Luigi Todini. Il pubblico ministero aveva chiesto per tutti la condanna a due mesi di reclusione e 200 euro di multa, ma il giudice aveva deciso di assolvere i 22 imputati.
Il giudice in quell’occasione spiegò che non c’era nessun dubbio che gli imputati avessero fatto il saluto fascista e avessero risposto al “presente” e che quindi, astrattamente, i comportamenti rientrassero “nella fattispecie incriminatrice dell’articolo 5 della legge Scelba”. Però quelle manifestazioni non furono idonee, sempre secondo il giudice, «a provocare adesioni e consensi e a concorrere alla diffusione di concezioni favorevoli alla ricostituzione di organizzazioni fasciste». In pratica, «non furono tali, per le loro modalità e per il momento e l’ambiente nei quali furono poste in essere, da costituire in concreto un pericolo rispetto alla ricostituzione del disciolto partito fascista e, conseguentemente, per il bene giuridico della sicurezza dell’ordinamento costituzionale e della tenuta dell’ordine democratico tutelato dalla fattispecie incriminatrice di cui all’art. 5 legge Scelba».
Secondo il giudice il saluto in quell’occasione fu fatto come ultimo omaggio al docente, così come lui stesso avrebbe desiderato, durante il funerale celebrato il giorno dopo la sua morte: «non fu quindi di un evento commemorativo celebratosi a distanza di tempo dalla morte dell’interessato per esaltarne le gesta o per rinnovarne la memoria». Inoltre, «il soggetto commemorato non era qualcuno che avesse perso la vita per ragioni politiche o che comunque avesse dedicato la vita alle proprie idee politiche, non era cioè un soggetto il cui ultimo saluto effettuato mediante manifestazioni esteriori riconducibili al disciolto partito fascista potesse impressionare le folle o suggestionare gli astanti».
Sempre secondo il giudice di Sassari, quella commemorazione non violò nemmeno la legge Mancino perché quelle azioni non avevano lo scopo di diffondere idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale, etnico, nazionale o religioso e a costituire un pericolo per la pacifica convivenza tra concittadini.
La discriminante quindi è il contesto in cui il saluto viene fatto. Per esempio il saluto fascista fatto da Romano La Russa durante il funerale del cognato Alberto Stabilini non dovrebbe, secondo questo principio, essere considerato reato. Tuttavia è certamente un gesto politicamente rilevante visto che Romano La Russa è un assessore della Regione Lombardia. Il consiglio regionale ha respinto a larga maggioranza (46 no contro 24 sì) una mozione di censura presentata dall’opposizione, non ritenendo di fatto il saluto fascista da parte di un esponente del governo di una regione un gesto sconveniente.
Bisognerà aspettare invece per capire come saranno giudicate le otto persone individuate tra le 2 mila circa che lo scorso 30 ottobre a Predappio hanno sfilato per ricordare i 100 anni della marcia su Roma. In quel caso, secondo la procura di Forlì, ci furono saluti e simboli fascisti ostentati in piazza. A una sfilata fascista a Predappio è legato anche un processo che si sta svolgendo in questi giorni. L’imputata è Selene Ticchi, ex candidata a sindaco di Budrio (Bologna), che nel 2018 sfilò davanti alla tomba di Benito Mussolini con una maglietta su cui era stampata la scritta «Auschwitzland». Fu denunciata in base alla legge Mancino.
Non furono denunciati invece i 30 dirigenti e candidati di Fratelli d’Italia che nel dicembre del 2021 si fecero fotografare mentre facevano il saluto fascista. I dirigenti del partito di Giorgia Meloni dissero che si era trattato solo di una rimpatriata e che non c’era nessun richiamo al fascismo.