Cosa ci dice la legge di bilancio sul governo Meloni
Cinque questioni notevoli, che mostrano come il governo sia stato cauto ma abbia voluto mandare alcuni segnali molto forti ai suoi elettori
Il governo di Giorgia Meloni ha presentato in parlamento il testo finale del disegno di legge di bilancio, che contiene tutte le misure economiche aggiuntive che il governo vuole introdurre nel prossimo anno: saranno discusse da Camera e Senato e il disegno di legge dovrà essere approvato entro il 31 dicembre. Ci potrebbero quindi essere modifiche anche sostanziali da parte del parlamento, anche se l’impianto generale della misura sembra piuttosto definito.
La legge di bilancio vale circa 35 miliardi di euro e la maggior parte delle risorse servirà a prolungare molte misure attualmente in vigore che servono a contenere gli effetti dei rincari dell’energia. Solo un terzo di questi soldi è servito per finanziare alcune misure più identitarie e programmatiche della maggioranza, come la flat tax e una nuova quota per le pensioni. Con poche risorse si sono volute finanziare varie cose, senza quindi un intervento deciso su nessuna.
Nonostante questo, la legge di bilancio approvata dal governo Meloni ci dice moltissimo su come la maggioranza vuole apparire: al tempo stesso fiscalmente responsabile, per rassicurare gli investitori internazionali, e vicina alle istanze del suo elettorato di riferimento, sia sulle questioni economiche che sociali. Anche se le due cose, ossia responsabilità sui conti e rispetto delle promesse elettorali, rischiano di essere difficili da conciliare.
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La scelta della prudenza sui conti pubblici
Due terzi della legge di bilancio sono finanziati in deficit, ossia aumentando il debito pubblico, mentre la restante parte è finanziata riducendo altre spese e aumentando qualche tassa. La priorità è stata data alle misure a sostegno di famiglie e imprese che devono affrontare consistenti rincari dell’energia: rifinanziare solo fino a marzo tutti gli aiuti attualmente in vigore, come i crediti d’imposta per le imprese e il taglio delle accise sui carburanti, costa circa 21 miliardi dei 35 totali della manovra. La restante parte è servita per le poche misure veramente identitarie della nuova maggioranza. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni, scrivono i giornali, ha voluto fortemente questo impianto: prima si affrontano i problemi dei rincari e per il resto ci sarà spazio nelle prossime leggi di bilancio.
È un segnale di prudenza sui conti pubblici, che risponde a varie esigenze: tenere sotto controllo il giudizio degli investitori sui mercati finanziari, non creare tensioni nel dialogo con la Commissione Europea, e facilitare la discussione e l’approvazione del testo finale in parlamento, evitando tensioni con l’opposizione. Quest’ultima è un’esigenza particolarmente importante quest’anno perché la legge di bilancio arriva con molto ritardo rispetto alle scadenze tradizionali. Il disegno di legge solitamente dovrebbe arrivare in parlamento per la discussione intorno al 20 ottobre e deve essere approvato senza possibilità di proroga entro il 31 dicembre, pena l’esercizio provvisorio. Ma il governo di Meloni si è insediato da poco e deve fare i conti quindi con tempi molto stretti.
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Nonostante la scelta di continuità rispetto alle misure sui rincari dell’energia, la manovra ha una chiara impronta conservatrice e di destra. Il governo è riuscito a inserire piccoli interventi che richiamassero le promesse della campagna elettorale, in modo da accontentare il proprio elettorato.
Le misure sul fisco e sui contanti
La legge di bilancio del governo Meloni estende la platea che beneficia della tassazione agevolata sui redditi dei lavoratori autonomi: potranno beneficiare dell’aliquota agevolata del 15 per cento (quella che il governo chiama flat tax) i lavoratori autonomi con redditi fino a 85 mila euro (dai 65 mila attuali). Notoriamente, i lavoratori autonomi sono quelli che evadono più IRPEF, ossia l’imposta sui redditi personali: circa il 70 per cento dell’imposta dovuta da questa categoria nel 2020 non è stata pagata, contro circa il 3 per cento di quella dei lavoratori dipendenti (per cui la versa il datore di lavoro). Il governo ha quindi scelto di agevolare con tasse più basse quei lavoratori che sono da sempre la categoria che evade di più.
Inoltre, il governo Meloni ha preso due importanti decisioni sull’uso del contante: ha inserito nella legge di bilancio un aumento del tetto all’uso del denaro contante, ossia la soglia oltre la quale sono proibite le transazioni in contanti, da 2 mila a 5 mila euro; e ha inserito anche la fine dell’obbligo per gli esercenti di accettare pagamenti elettronici (cioè con carta, bancomat o app) per importi sotto i 60 euro, rimuovendo le relative sanzioni.
Entrambe queste misure favoriscono i pagamenti in contanti, ossia quelli non tracciabili. Sebbene sia evidente che non tutti usano i contanti per evadere il fisco o per attività illecite, è però conclamato che tutti quelli che evadono il fisco e conducono attività illecite usano il denaro contante.
La discussione politica sul tema dei contanti e dei pagamenti elettronici è molto polarizzata e ideologica. Gli esponenti di centrosinistra sono fortemente contrari a favorire l’uso del contante perché diventerebbe più facile evadere e si rischierebbe di fatto di rendere più facili le attività criminali, che per non essere tracciabili richiedono l’uso dei contanti. Secondo Meloni, e la destra in generale, non ostacolare l’uso del contante è invece una misura di libertà con un impatto positivo: innanzitutto, non è dimostrato un legame con l’evasione fiscale, che quindi non è detto che aumenterebbe; poi consentirebbe all’Italia di restare competitiva verso quei paesi che hanno un limite più alto del nostro; infine andrebbe a favore delle fasce più povere.
Detto questo, nei fatti si tratta di misure più simboliche che pratiche: le opinioni dei partiti su questo tema servono principalmente a dare al proprio elettorato di riferimento un segnale forte sul posizionamento che intendono prendere. La destra, con questa legge di bilancio, sembra lanciare un segnale alle persone con partita IVA, alle piccole imprese e agli esercenti, a cui intendono assicurare la massima libertà di operare, anche con i contanti.
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Opzione donna più conveniente per le madri
Un altro provvedimento piuttosto identitario riguarda le modifiche che il governo ha proposto su Opzione donna, garantendo un trattamento migliore alle donne con figli, cosa che ha suscitato molte perplessità. Opzione donna è una misura introdotta in origine nel 2004 dal governo Berlusconi e prevede la possibilità per le lavoratrici dipendenti di andare in pensione a partire dai 58 anni di età con 35 anni di versamenti contributivi, a patto che la quota di pensione che andrebbe calcolata con il sistema retributivo (basato sulla retribuzione e non sull’ammontare di contributi versati) venga ricalcolata con il metodo contributivo. Significa che le donne possono smettere di lavorare qualche anno prima accettando una pensione di poco inferiore.
La nuova Opzione donna, per come è stata riscritta la norma, riguarderà solo le dipendenti di aziende in crisi, le donne invalide e le cosiddette caregiver, ossia donne che si occupano di familiari con disabilità. Potrà essere richiesta solo dopo aver maturato 35 anni di contributi e al compimento del 60° anno di età. Ma se la donna che fa richiesta ha avuto figli avrà un’agevolazione: potrà fare richiesta a 59 anni se ha avuto un solo figlio e a 58 se ha avuto due o più figli.
Nonostante la decisione di limitare la platea delle beneficiarie di Opzione donna, che rende di fatto la misura meno costosa per lo stato, l’idea di agevolare le lavoratrici madri era apparsa a molti incostituzionale e punitiva nei confronti delle donne che non hanno avuto figli per scelta o non hanno potuto averne.
Cosa non c’è nella legge di bilancio
Sono stati due in particolare i settori su cui il governo è stato accusato di aver fatto troppo poco: la sanità e la scuola.
Per la sanità è previsto per il 2023 un incremento di poco più di 2,2 miliardi di euro, di cui 1,4 saranno destinati a far fronte al rincaro dell’energia, 600 milioni per gli acquisti di vaccini contro il coronavirus; 150 milioni in favore delle farmacie per il rimborso dei farmaci mutuabili e 50 milioni per un piano di ricerca contro la resistenza dagli antibiotici. Si tratta principalmente di finanziamenti per spese che si sarebbero comunque dovute sostenere: non ci sono quindi investimenti aggiuntivi, né a sostegno delle strutture né a sostegno del personale sanitario.
Per quanto riguarda la scuola, secondo il sito specializzato Orizzonte scuola, nel testo del disegno di legge di bilancio le Regioni, sulla base di parametri individuati da un futuro decreto, dovranno provvedere ogni anno al cosiddetto “dimensionamento” della rete scolastica. Si tratta di un piano per l’aggregazione, la fusione e la soppressione di scuole per rendere gli istituti rimanenti più efficienti e al passo con il calo demografico dei bambini. Secondo le prime stime questo “dimensionamento” comporterebbe una perdita di almeno 700 istituti, soprattutto nelle Regioni dove già ci sono poche scuole come Sardegna, Calabria e Basilicata, e di 400 presidi l’anno da qui al 2032.
La difficoltà di tenere tutto insieme
La legge di bilancio per il prossimo anno non porterà quindi grandi sconvolgimenti. Le misure sull’energia sono essenzialmente in continuità rispetto a quelle approvate dal governo di Mario Draghi. E, al netto delle importanti modifiche al funzionamento del reddito di cittadinanza, per mancanza di tempo e di risorse il governo Meloni si è dovuto limitare a inserire giusto qualche limitato provvedimento (seppur dalla chiara impronta conservatrice e di destra) per accontentare in parte il suo elettorato.
Dal prossimo anno però la maggioranza potrebbe dover fare i conti con le costosissime misure che ha promesso in campagna elettorale, come una vera e propria flat tax e il superamento della legge Fornero per andare in pensione.