Ci sono brutte prospettive per gli alberi di Natale
Nel Casentino, in Toscana, la siccità ne ha seccati migliaia compromettendo la produzione nazionale dei prossimi anni
Nel Casentino, una zona collinare in provincia di Arezzo, in Toscana, molti agricoltori che coltivano abeti destinati a diventare alberi di Natale dicono che la siccità e il gran caldo dell’estate hanno compromesso la produzione dei prossimi anni. Dall’inverno dell’anno prossimo ci saranno molti meno abeti coltivati in Italia perché negli ultimi mesi ne sono seccati a migliaia. «Si sono proprio bruciati», dice Gabriele Bani, titolare di un’azienda agricola nel comune di Castel San Niccolò. Questa è una delle zone dove se ne coltivano di più in Italia, almeno per ora.
La produzione di alberi di Natale sulle colline di Montemignaio, Castel San Niccolò, Pratovecchio e Stia esiste da almeno 70 anni. Non c’è una particolare ragione climatica o legata alla qualità del terreno a spiegare la predisposizione di questo territorio: semplicemente tra gli anni Cinquanta e Sessanta un gruppo di agricoltori iniziò a sfruttare in questo modo terreni non più utilizzati per le coltivazioni di cereali e foraggi e non più remunerative.
In Italia nel 90 per cento dei casi gli abeti derivano da coltivazioni vivaistiche specializzate, mentre il restante 10 per cento è ricavato dai cimali, ovvero le punte degli alberi tagliate durante le potature fatte in operazioni di diradamento o per tagli di piante lungo le strade e le ferrovie. L’albero di Natale più diffuso è prodotto quasi esclusivamente con abete rosso (Picea abies) e solo in minima parte con abete bianco (Abies alba), abete del Caucaso (Abies nordmanniana) e abete Colorado (Picea pungens).
La coltivazione degli abeti si sviluppò nel Casentino fino a raggiungere, alla metà degli anni Novanta, una superficie di 800 ettari, 8 chilometri quadrati. Da allora la produzione iniziò a diminuire perché sempre più persone cominciarono a preferire gli alberi di plastica, più semplici da gestire e riutilizzabili per diversi anni.
La scelta di comprare alberi di plastica fu influenzata anche dall’errata convinzione che la coltivazione degli alberi di Natale potesse comportare la distruzione di foreste: in realtà il taglio o lo sradicamento degli abeti non incide sulla salute delle foreste perché questi alberi sono piantati e coltivati appositamente per essere venduti. Inoltre gli abeti vengono coltivati in particolare in zone montane e collinari, dove contribuiscono a migliorare l’assetto idrogeologico delle colline e allo stesso tempo aiutano a combattere il pericolo di frane e incendi. Quasi sempre, tra l’altro, quando il vivaio vende un albero ne ripianta altri: spesso quattro o cinque, per essere sicuri che almeno uno cresca solido e bello.
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Nel Casentino la produzione di alberi di Natale si è molto ridotta rispetto a trent’anni fa: ora occupa circa 300 ettari, tre chilometri quadrati, un’area pari a poco più di 420 campi da calcio. Ogni anno qui vengono vendute circa 500mila piante. Le aziende che fanno parte del CANC, il Consorzio per la valorizzazione dell’albero di Natale del Casentino, un’organizzazione che punta a rispettare tecniche di coltivazione attente all’ambiente, sono rimaste una decina e danno lavoro a un centinaio di persone, un numero rilevante in comuni da poche centinaia di abitanti e in un settore piuttosto marginale.
I problemi di quest’anno sono considerati particolarmente gravi per il futuro del settore. Marco Agnoloni, che gestisce un’azienda agricola insieme alla moglie Monica Tognaccini, ha detto che in passato la siccità arrivava ogni tre o quattro anni ed era gestibile. Negli ultimi anni la scarsità di acqua e il caldo torrido sono stati sempre più frequenti e i livelli eccezionali raggiunti durante la scorsa estate hanno fatto morire migliaia di alberi appena piantati, compromettendo la produzione dei prossimi anni e la sopravvivenza economica delle aziende. «Noi adesso piantiamo tra i 12mila e i 13mila abeti l’anno», ha detto Agnoloni. «Nella parte in pianura sono riuscito ad annaffiarli un po’, più su in collina è stato più complicato e quindi molti sono seccati. Ne ho persi a migliaia: in un’area dove ne avevo messi a dimora 3.000 sono tutti morti».
La coltivazione degli abeti è relativamente semplice: i semi vengono piantati e lasciati nel terreno per circa due anni. Successivamente si trapiantano le piantine, distanziate l’una dall’altra. Crescono ancora per due anni e al quarto anno vengono trapiantate di nuovo. Nei cinque anni successivi, quindi dieci anni dopo aver piantato il seme, raggiungono un’altezza di circa 180 centimetri. Ovviamente il tempo è ridotto per gli esemplari più piccoli: solitamente il ciclo di produzione si conclude al sesto anno.
Gli alberi in vendita per il Natale imminente non hanno avuto grossi problemi, perché essendo piante già cresciute hanno sofferto meno: la siccità ha messo però a rischio la produzione dei prossimi dieci anni. Marco Roselli di Coldiretti Arezzo ha detto che le piante chiamate di “nuovo trapianto”, cioè piantate tra l’autunno del 2021 e marzo 2022 si sono disseccate quasi totalmente, così come quelle giovani, piantate due o tre anni fa. «Si tratta di almeno 100mila piante», ha detto. Per gli abeti più grandi è difficile fare una stima dei danni perché hanno continuato a seccarsi anche durante l’autunno, particolarmente caldo. Secondo Roselli, il danno complessivo potrebbe essere di un milione di euro.
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Gli agricoltori hanno già chiesto un sostegno economico alle istituzioni per far fronte a quella che definiscono una calamità naturale. Ma più di ogni altra cosa servirebbero interventi per limitare le conseguenze della siccità più frequente. Per esempio, potrebbe essere utile la costruzione di bacini artificiali per raccogliere l’acqua nei momenti di abbondanza da sfruttare nei periodi di siccità.
Da anni in Italia si discute della possibilità di costruire questi bacini: il cosiddetto “piano laghetti” studiato dall’ANBI, l’associazione nazionale bonifiche e irrigazioni, è stato riproposto durante tutte le ultime crisi idriche senza che poi se ne facesse niente. Prevede la costruzione di 10.000 bacini entro il 2030: 6.000 aziendali e 4.000 consortili. In molte regioni, però, la costruzione degli invasi già commissionata negli anni scorsi è stata rallentata dalle procedure molto lente e dalla difficoltà di trovare aree idonee.