Altri modi di vedere le nazionali di calcio
Sono sempre di più quelle che riflettono i cambiamenti demografici dei loro paesi, ma si fa ancora fatica ad accettare le doppie nazionalità
di Pietro Cabrio
Ai Mondiali di calcio in Qatar oltre 130 giocatori sono nati in un paese diverso da quello per cui giocano. Tre di questi, per esempio, sono nati in Italia: Marcus Thuram, figlio di Lilian ex difensore francese di Parma e Juventus, Nicola Zalewski, nato e cresciuto a Tivoli da genitori polacchi, e il marocchino Walid Cheddira, che gioca con il Bari in Serie B. I giocatori nati in Francia che giocano per altre nazionali sono i più numerosi, 36, mentre nel Galles quasi metà selezione è nata in Inghilterra (ma in questo caso è un po’ diverso, perché Galles e Inghilterra sono nazioni del Regno Unito).
I luoghi di nascita dicono qualcosa, ma non tutto, perché come criterio per stabilire le nazionalità di una persona generalmente conta anche la discendenza. Lo sport però non si attiene rigidamente alle leggi di ciascun paese e fa valere anche requisiti specifici, come i legami di un atleta con il movimento sportivo di cui fa parte. Nel calcio le regole specifiche della FIFA stabiliscono che un giocatore può essere convocato da una determinata nazionale se è nato in quel paese, se ha almeno un genitore o un nonno originario di quel paese, o se ha vissuto ininterrottamente nel paese per almeno cinque anni dopo il raggiungimento della maggiore età (e in tutti e tre i casi non deve avere giocato più di tre partite con un’altra nazionale prima di aver compiuto 21 anni).
Così come le migrazioni hanno caratterizzato la storia dell’uomo e degli stati moderni, la questione della doppia nazionalità non è certo una novità per il calcio, che in quanto sport più diffuso al mondo rappresenta molto bene epoche e società correnti. Già a metà Novecento, per esempio, in Italia fu il periodo degli “oriundi”, cioè i calciatori stranieri che acquisivano la nazionalità grazie ai propri antenati o al tempo passato giocando in Italia, anche dopo aver fatto parte integrante di un’altra nazionale. I più famosi in questo senso furono José Altafini, Omar Sivori e Antonio Valentin Angelillo, ma ce ne furono molti — e con ruoli decisivi — prima e dopo: anche nelle nazionali che vinsero i due Mondiali consecutivi durante il ventennio fascista.
Queste tendenze hanno assunto nuove forme e volumi diversi col passare del tempo, e sono arrivate fino a questi Mondiali in Qatar, probabilmente l’edizione più fluida in materia di nazionalità ed eleggibilità.
Fra le 32 squadre partecipanti, per esempio, 14 hanno almeno un giocatore di origine africana tra i loro convocati. Il Ghana in particolare potrebbe farsi quasi un’altra formazione titolare di soli calciatori con origini ghanesi che giocano altrove: ce ne sono otto — tra cui Memphis Depay del Barcellona e Ethan Ampadu dello Spezia — distribuiti tra Canada, Belgio, Spagna, Stati Uniti, Galles, Olanda e Qatar. Uno di loro è Nico Williams, che è tra i convocati della Spagna essendo nato e cresciuto in territorio spagnolo da genitori rifugiati. Ma il fratello maggiore, Iñaki, ha scelto di giocare con il Ghana, peraltro a poche settimane dai Mondiali, anche se nel 2016 aveva debuttato con la Spagna. E non è finita qui, perché durante l’anno entrambi giocano con l’Atletico Bilbao, una squadra che si distingue dalle altre in Spagna perché formata da soli giocatori baschi o cresciuti in un settore giovanile basco.
Quello che sembra sia cambiato di più rispetto al passato è che non sono soltanto le nazionali di grandi paesi con una lunga storia coloniale ad avere una folta rappresentanza di giocatori con doppia nazionalità: viene in mente per esempio la Francia, che fra 26 convocati ne ha 14 di origini africane. A queste nel tempo si sono aggiunti i paesi diventati mete di consistenti flussi migratori più di recente.
Il caso dello Svizzera è esemplare, dato che ha esordito ai Mondiali con una formazione composta da 7 titolari su 11 con doppia nazionalità, gran parte dei quali seconde generazioni di famiglie provenienti dall’ex Jugoslavia, dall’Albania e dall’attuale Kosovo (ma anche africane e sudamericane). Anche l’Australia è costituita grossomodo da due gruppi: uno è nato e cresciuto in Australia e gioca prevalentemente nel campionato locale, l’altro è composto invece da giocatori che riuniscono almeno diciassette nazionalità diverse, compresi italiani, maltesi, giapponesi, sud-sudanesi e greci. Uno di questi è l’esterno d’attacco Awer Mabil, sud-sudanese nato in un campo profughi in Kenya e accolto come rifugiato in Australia sedici anni fa. Mesi fa Mabil segnò uno dei rigori decisivi per la qualificazione ai Mondiali, dopo il quale disse: «Solo così potevo ringraziare l’Australia a nome di tutta la mia famiglia».
Ma ci sono anche casi considerati al limite perché contraddistinti da un tipo di immigrazione “forzata”, come quello del Qatar, le cui pratiche in vista dei primi Mondiali ospitati in casa allarmarono la FIFA a tal punto da farle cambiare i regolamenti (quelli attuali, più stringenti di un tempo). Dei suoi 26 convocati, soltanto quattro sono nati e cresciuti in Qatar da almeno un genitore qatariota. Altri dieci sono nati all’estero (principalmente tra Egitto, Francia, Portogallo, Algeria e Ghana), mentre i restanti sono nati in Qatar ma da genitori stranieri, perlopiù mediorientali e nordafricani.
Questa composizione riflette da un lato la demografia del paese, abitato da appena 2,9 milioni di persone, molti dei quali stranieri trasferitisi soltanto di recente, dall’altro una precisa strategia di “arricchimento calcistico” che poco c’entra con i veri fenomeni migratori. In seguito all’assegnazione di questi Mondiali, dodici anni fa, il Qatar iniziò infatti a costruire un suo movimento calcistico — fin lì pressoché inesistente — partendo da accademie giovanili che offrivano a minorenni stranieri la possibilità di trasferirsi nel paese, ed eventualmente rappresentarlo in futuro.
Qualcosa di simile sta succedendo in Cina, un paese che non c’è a questi Mondiali ma che da tempo sta cercando di diventare competitivo anche nel calcio, fra diverse difficoltà (per ultima la pandemia, che ha allontanato dal paese molti calciatori stranieri). Proprio queste difficoltà hanno convinto negli ultimi anni le autorità cinesi ad ammorbidire le loro posizioni ammettendo decine di richieste di cittadinanza provenienti da calciatori stranieri (perlopiù brasiliani) residenti nel paese da almeno cinque anni. Alcuni sono già stati convocati in nazionale, altri giocano soltanto nel campionato locale, dove però non vengono più considerati come stranieri, liberando così spazio ad altri stranieri nelle liste di registrazione.
Queste tendenze si dividono quindi tra casi fisiologici, cioè le nazionali che riflettono in qualche modo i mutamenti demografici dei loro paesi, e casi forzati in cui si opera ai limiti dei regolamenti solo per costruire squadre più competitive. La seconda categoria riguarda per lo più paesi autoritari o dittatoriali, dove dissensi e dibattiti hanno poco peso, se ci sono. I dibattiti maggiori si hanno invece nei paesi democratici interessati da veri mutamenti demografici, come la Francia, dove nonostante il lungo passato coloniale, la presenza di tanti giocatori di origine africana è ancora oggetto di varie polemiche.
In seguito a una delle tante polemiche che hanno riguardato negli anni Karim Benzema, attaccante francese di origine algerine, non molto tempo fa lo storico francese Pascal Blanchard disse: «Nella società francese l’idea di trovarsi tra due paesi non si è ancora integrata culturalmente. Ma bisogna capire che non è facile, non lo è per tutte le persone con doppia cittadinanza. Avere due paesi significa averne uno, che è quello dei propri genitori, e un altro in cui si è cresciuti e in cui si è andati a scuola. A un certo punto, in certi ambiti, bisogna scegliere o uno o l’altro».
In Italia invece i fenomeni migratori sono più recenti rispetto a paesi come Francia, Regno Unito e Belgio. Le seconde generazioni nate da genitori stranieri formano una parte piuttosto consistente all’interno della nostra società ma devono ancora essere rappresentate continuativamente in Nazionale, dove oggi c’è solo un giocatore nato in Italia da genitori immigrati, Wilfried Gnonto.
Con il passare del tempo, inoltre, questa fluidità demografica sta creando contrarietà e dissensi anche nei paesi africani più interessati. Se alcuni, come il Marocco, riescono ancora a far tornare in patria gran parte dei giocatori nati altrove (nel 2018 erano 17 su 23) monitorando costantemente i campionati esteri, altri come Algeria, Ghana e Nigeria hanno visto nazionali vincere i Mondiali con tanti grandi giocatori che avrebbero potuto giocare per loro. Nel frattempo nessuna nazionale africana ha mai superato i quarti di finale (raggiunti dal Camerun nel 1990, dal Senegal nel 2002 e dal Ghana nel 2010).
In Qatar c’è stato un episodio che ha ben riassunto queste controversie. Durante Camerun-Svizzera il gol che ha dato la vittoria alla Svizzera e che ha messo nei guai il Camerun è stato segnato da Breel Embolo, nato in Camerun, emigrato in Svizzera con la famiglia nel 2003, cittadino svizzero dal 2014 e dall’anno successivo membro fisso della Nazionale locale. Prima dei tifosi camerunensi, tuttavia, chi si è trovato più in difficoltà in questa situazione è stato con ogni probabilità lo stesso Embolo, che dopo il gol — il primo in carriera in un Mondiale — ha alzato le mani, come se facesse un segno di resa (e come fanno i giocatori che segnano alle loro ex squadre di club). La casa della sua famiglia a Yaoundé, la capitale del Camerun, è stata inoltre presa di mira da decine di tifosi locali.
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