I meme sono protetti dal diritto d’autore?
In teoria sì, ma nella pratica raramente viene fatto valere: a meno che a sfruttarli non sia un'azienda, o un politico razzista
Nel gennaio del 2020, i social media manager che gestivano la campagna elettorale del deputato Repubblicano Steve King – che ha rappresentato lo stato dell’Iowa nel Congresso statunitense dal 2003 al 2021 – pubblicarono un meme sulla sua pagina Facebook ufficiale. Il soggetto era “Success Kid”, ovvero l’ormai famoso bambino con la maglietta verde e bianca che stringe il pugno con fare compiaciuto, diventata uno dei primi meme già all’inizio degli anni Dieci.
Il volto del bambino è apparso in migliaia di post nel corso dell’ultimo decennio, ma questo non vuol dire che quella foto non sia protetta da copyright: la madre del bambino, Laney Griner, lo aveva registrato nel 2012. Storicamente, Griner non si era opposta al fatto che la foto del figlio fosse riprodotta e rielaborata da migliaia di sconosciuti online. Ma il caso di King era diverso, perché il politico è noto per aver assunto da anni posizioni sempre più razziste e vicine al suprematismo bianco. Sia Griner che il figlio, che oggi è un adolescente, rimasero «inorriditi nell’apprendere che [King] avesse usato la foto di Sam per farsi propaganda».
Griner inizialmente mandò al comitato di King una lettera di diffida, chiedendo che il post fosse rimosso. Dopo mesi di mancata risposta, nel dicembre 2020 decise di fargli causa per violazione del copyright. Pochi giorni fa, un tribunale di Sioux City ha decretato che la donna ha ragione, e ha condannato il comitato elettorale di King a pagare una cifra simbolica di 750 dollari di risarcimento. Non è la prima volta che la persona che detiene il copyright di un meme decide di far valere il proprio diritto d’autore, anche perché vendendo la licenza d’uso di un meme si possono fare un sacco di soldi.
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I meme (che al plurale si può dire anche i memi) sono da oltre un decennio una parte fondamentale della cultura di internet. Con l’ascesa di TikTok cominciano ad essercene sempre di più che non si basano primariamente su un’immagine, ma piuttosto su un gesto, uno spezzone di canzone, un video, una battuta, o un insieme di più cose. Ma storicamente sono intrinsecamente legati alla possibilità di riprodurre e reimmaginare un file originario all’infinito, aggiungendovi livelli di significato che una nicchia più o meno ampia di persone comprende e trova divertenti. È facile allora scordarsi che, in moltissimi casi, l’immagine (o la canzone, o il video, o la gif) da cui origina un meme è in molti casi protetta da copyright. Ovvero: ha un autore noto, che volendo potrebbe chiedere soldi in cambio della ripubblicazione e dell’utilizzo della sua creazione.
Secondo la legge statunitense, per qualificarsi per la protezione del copyright un’opera dev’essere originale, dimostrare un livello minimo di creatività, ed essere “fissata in una forma tangibile di espressione”, ovvero poter essere comunicata agli altri attraverso un mezzo audiovisivo. Da anni gli studiosi del tema si interrogano su come fare a conciliare la dottrina giuridica relativa al copyright e la cultura dei meme, che da molti punti di vista sembrano incompatibili: la legge sul copyright è tendenzialmente progettata per impedire a tutti i costi che un’opera venga copiata senza il consenso dell’autore, mentre i meme si basano proprio sulla possibilità di riprodurre un file potenzialmente all’infinito.
«I meme sono come organismi: nascono, poi proliferano su internet con estrema velocità. Hanno bisogno di replicarsi su larga scala per sopravvivere», ha spiegato alla newsletter a tema tecnologico The Hustle Don Caldwell, fondatore di Know Your Meme, il sito che dal 2007 archivia, studia e spiega i meme che nascono e si diffondono su internet.
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Per cercare di ovviare a questa apparente insanabile contraddizione, molti giuristi sono giunti alla conclusione che la pubblicazione di un meme sui social media senza finalità di lucro dev’essere fatta ricadere sotto il “fair use”, ovvero nell’eccezione alla legge sul copyright che permette alle persone di usare un contenuto protetto da copyright a scopo “trasformativo”, ovvero per produrre commenti, critiche o parodie di un’opera, anche senza l’autorizzazione del proprietario del copyright.
Al di là di ciò che dice la legge, anche i detentori del copyright di alcuni meme particolarmente famosi tendenzialmente hanno rinunciato a cercare di farlo valere, anche perché spesso sarebbero più i soldi spesi per pagare un avvocato per affrontare le cause che quelli guadagnati con le cause stesse. Per esempio Antonio Guillem, il fotografo che ha scattato la foto stock che è diventata il meme “Distracted boyfried” – quello in cui un ragazzo che cammina per strada con la fidanzata si gira per guardare un’altra ragazza che passa – ha detto di non aver mai pensato di intraprendere azioni legali contro chi usa la sua foto per fare dei meme: «Ognuna delle persone che usa quell’immagine senza licenza lo fa illegalmente, ma non è una cosa che mi preoccupa davvero, perché sono solo un gruppo di persone in buona fede».
La storia è diversa se si usano meme protetti da copyright per vendere prodotti: in questo caso, le corti statunitensi da anni si esprimono a favore dei detentori di copyright. Anni prima della battaglia legale con Steve King, Laney Griner aveva già fatto causa a un’azienda di fuochi d’artificio che stava usando “Success Kid” sulla scatola dei propri prodotti, chiedendo che distruggesse quelli invenduti che lo ritraevano. Nel 2012, l’agenzia fotografica Getty Images aveva ottenuto circa 900 dollari da un blog tedesco che aveva pubblicato il meme noto come “Socially Awkward Penguin”, una foto di un pinguino (scattata, appunto, da un fotografo di Getty) sovrapposta a didascalie riguardanti situazioni spiacevoli. E nel 2018, il proprietario di Grumpy Cat – il gatto diventato famoso per la sua espressione particolarmente contrariata – aveva ricevuto 500 mila dollari dall’azienda americana di caffé Grenade, che aveva usato l’immagine del gatto per vendere vari prodotti, pur avendo comprato la licenza soltanto per produrre una bevanda di nome “Grumpuccino”.
La storia più celebre è forse però quella di Matt Furie, il fumettista che creò Pepe the Frog, la rana antropomorfa poi utilizzata come simbolo dall’estrema destra statunitense. Nel 2019, una corte californiana ordinò al controverso conduttore radiofonico e teorico del complotto Alex Jones di pagare 15 mila dollari di risarcimento a Furie per aver usato senza permesso un meme di Pepe the Frog per un poster promozionale in cui comparivano anche Jones e Donald Trump.
«Quando il pubblico in senso ampio utilizza un meme come modalità di espressione è un conto, e va bene. Quando a farlo è un’entità commerciale che vuole pubblicizzare un servizio è un’altra questione: lì li inseguiamo senza battere ciglio», ha detto Kiam Kamran, avvocato che nel tempo ha rappresentato diversi creatori di meme. «Ma i veri soldi non si fanno con le querele. Si fanno con le licenze».
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Così, da anni negli Stati Uniti esistono persone che di lavoro fanno i “talent manager di meme”, che aiutano cioè i creatori di contenuti virali a proteggere e monetizzare le proprie opere, che si tratti di foto e video di gatti buffi, del gorilla Harambe o di una bambina che sorride guardando una casa in fiamme. Grazie a questi servizi, un uomo che aveva fatto dei piccoli video del suo gatto che suonava la tastiera ha guadagnato oltre 150 mila dollari in accordi di licenza con aziende come la compagnia aerea Delta o il servizio di slot machine Starbust. La proprietaria di Grumpy Cat ne ha fatti quasi 100 milioni grazie a collaborazioni con marchi come Cheerios, McDonald’s e Friskies. E Laney Griner ha stretto accordi con Coca-Cola, Microsoft e gli hotel Marriott per l’uso dell’immagine di suo figlio.
Il periodo in cui era facile monetizzare il successo di un proprio meme, però, sembra essere già in declino, dato che il ciclo di vita dei meme è sempre più breve e, anzi, nell’attuale cultura di internet un meme viene considerato “morto”, e quindi obsoleto, proprio nel momento in cui smette di circolare tra i normali utenti e viene utilizzato da un’azienda.