In Europa dovremmo pagare di più il cioccolato?
Con i prezzi attuali i coltivatori delle fave di cacao in Africa devono fare affidamento sulla deforestazione e sul lavoro minorile
I paesi in cui il consumo di cioccolato pro capite è più alto sono tutti in Europa. E sono in Europa anche gli impianti di produzione di sei delle sette aziende multinazionali che si dividono il mercato dei prodotti finali a base di cioccolato. Le fave di cacao, la materia prima da cui si ottiene il cioccolato, provengono invece da una serie di paesi in via di sviluppo in Africa occidentale e in America Latina: quelle usate in Europa principalmente dalla Costa d’Avorio (40 per cento) e dal Ghana (11 per cento).
Attualmente entrambe le parti, cioè Unione Europea da un lato e Costa d’Avorio e Ghana dall’altro, vorrebbero rendere il settore del cioccolato più sostenibile ed equo, riducendo il ricorso al lavoro minorile e alla deforestazione da parte dei coltivatori di cacao. Tuttavia non è detto che ci riescano a causa degli interessi delle grosse aziende produttrici di cioccolato: i paesi dei coltivatori di cacao chiedono che la materia prima sia pagata di più, per poterla coltivare in condizioni migliori, ma le multinazionali non vorrebbero spendere di più per la loro materia prima.
Un lungo articolo di Politico spiega come mai l’Unione Europea potrebbe far fatica a risolvere il problema con gli strumenti a sua disposizione, ovvero con uno dei suoi regolamenti.
Nei paesi dell’Africa occidentale la deforestazione e lo sfruttamento del lavoro minorile per raccogliere le fave di cacao vanno di pari passo. Le scarse risorse economiche degli agricoltori infatti li spingono sia a disboscare la foresta per ottenere più terra per coltivare il cacao, sia a impiegare i bambini, che vengono pagati meno dei braccianti adulti.
Secondo uno studio del 2020 finanziato dal dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti, in Costa d’Avorio ci sono 790mila bambini che lavorano per raccogliere il cacao, e 770mila in Ghana. Per quanto riguarda la deforestazione, tra il 2000 e il 2019 gli agricoltori impiegati nella produzione di fave di cacao hanno distrutto 24mila chilometri quadrati di foresta.
Per la Costa d’Avorio e il Ghana i due problemi si possono risolvere solo aumentando il prezzo delle fave di cacao. Nel 2019 i due paesi si sono uniti per formare un cartello ispirato all’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (OPEC) e hanno stabilito che per ogni tonnellata di cacao venduta a partire dalla stagione 2020/2021 le aziende compratrici dovessero pagare 400 euro in più come «differenziale di reddito di sussistenza», pensato per coprire in modo adeguato i costi di produzione.
Pubblicamente le grandi aziende del settore del cioccolato – Ferrero, Hershey, Lindt & Sprüngli, Mars, Mondelez e Nestlé per i prodotti finiti che si comprano nei supermercati, Barry Callebaut e Cargill come intermediari industriali – hanno avuto una reazione positiva all’istituzione del cartello, ma secondo le organizzazioni che rappresentano i produttori di cacao ivoriani e ghanesi hanno in realtà cercato in tutti i modi di ridurre nuovamente il prezzo della materia prima. Per farlo hanno chiesto grosse riduzioni del “differenziale d’origine”, un altro sovrapprezzo che era stato istituito dai paesi produttori.
Per questo a ottobre sia la Costa d’Avorio che il Ghana non hanno partecipato a un evento internazionale che riunisce tutti i partecipanti al mercato del cioccolato, il World Cocoa Foundation Partnership Meeting, organizzato a Bruxelles, in Belgio. I due paesi hanno detto alle grandi aziende del cioccolato che se non si fossero adeguate a rispettare davvero il “differenziale di reddito di sussistenza” entro il 20 novembre avrebbero vietato ai loro compratori di visitare le piantagioni di cacao. Hanno anche detto che avrebbero sospeso tutti i programmi di “responsabilità sociale d’impresa” (RSI), le iniziative volontarie che le grandi aziende organizzano per poter dire ai propri clienti che si impegnano perché i loro prodotti siano realizzati in modo etico.
Negli ultimi decenni i programmi di RSI sono stati la proposta per risolvere i problemi legati alla produzione del cacao promossa dalle grandi multinazionali, che ci hanno investito decine di milioni di dollari. Tali iniziative hanno però costi molto limitati rispetto ai profitti delle aziende che le portano avanti e risultati discutibili: nella maggior parte dei casi consistono in corsi di aggiornamento per aumentare la produttività, che però servono a poco se gli agricoltori non hanno risorse per pagare di più i braccianti o per comprare i fertilizzanti. Queste sono le conclusioni di una ricerca dell’ong Oxfam citata da Politico che è stata fatta intervistando 400 agricoltori ghanesi.
In tutto ciò il cacao è uno di quei prodotti il cui commercio l’Unione Europea vorrebbe regolamentare di più per ridurre la deforestazione di cui si rende responsabile attraverso i propri consumi. Inoltre il suo utilizzo da parte delle aziende produttrici di cioccolato potrebbe essere influenzato da una direttiva attualmente in discussione pensata per imporre alle aziende il rispetto dei diritti umani e certi criteri di tutela dell’ambiente. Il rischio è che le nuove regole possano essere aggirate ricorrendo a intermediari apparentemente rispettosi di diritti umani e ambiente che però si riforniscono da produttori che invece non lo sono, e che risultino irrintracciabili per gli enti di controllo.