La gran finzione dei bis nei concerti
Tutti sanno che la band tornerà sul palco, ma alcuni si stanno stufando: il Washington Post ha intervistato musicisti e appassionati
di Travis M. Andrews - The Washington Post
«Fuori! Fuori! Fuori!». Li sentite? Centinaia, migliaia di fan che chiedono un bis, hanno bisogno di un altro pezzo, il coro che attraversa la stanza come elettricità, la voglia di far durare la notte ancora un po’, di rimandare il silenzio di qualche altro minuto…
Ormai è raro che vada così. Ultimamente se una band lascia il palco, è possibile che non ci torni. Certi gruppi si sono stancati, non dell’amore dietro alla richiesta di un bis, ma della farsa che da un po’ è diventato. E col bis sta scomparendo anche quel tempo morto in cui il pubblico si chiede se prendere l’ultima birra o andare in bagno o, se sazio in tutti i sensi, uscire nel traffico e andarsene. Il bis se n’è già andato da un po’ e ce ne sono diverse prove.
«Mi imbarazzano. Sono forzati» dice Stefan Babcock, frontman dei PUP, una ruvida band power punk canadese. «Siamo gente piuttosto autoironica, una band autoironica, e faceva strano lasciare il palco aspettandosi una lusinga per l’ego».
Probabilmente i bis «sono nati con la giusta intenzione, con la band che suonava quello che voleva suonare» dice Babcock. «Poi magari era stato un concerto spettacolare o la gente si entusiasmava a tal punto da chiedere di più alla band, ed è una gran bella cosa, ma quando un bis inizi a inserirlo nello spettacolo perché la gente se lo aspetta, sa di ipocrita. Adesso se sei una band che fa i bis e non li fai, i fan lo prendono come un affronto».
Quando a maggio hanno messo in piedi un concerto di 19 canzoni al Fillmore di Silver Spring, i PUP hanno tenuto fede alla loro posizione anti-bis. Verso la fine Babcock ha spiegato brevemente al pubblico, come fa da anni, che non si sarebbero solo presi una pausa, avevano proprio finito. I fan eccitati non hanno avuto niente da ridire. «Penso che il pubblico ora sia più comprensivo» dice Babcock. Secondo lui è anche una forma di rispetto «non far sprecare tempo alla gente che è venuta per il concerto, ma a un certo punto vuole tornare a casa dai figli o a fare i compiti o a dormire, per potersi alzare presto la mattina e fare quello che deve fare».
Un piccolo ma sempre più folto contingente di artisti sembra seguire l’esempio. Lo scorso settembre al 9:30 Club, gli Afghan Whigs, un tempo noti per i loro eccentrici bis, hanno bombardato il pubblico di chitarre e percussioni per una ventina di pezzi. E poi concerto finito.
Idem i Broken Social Scene, che a ottobre hanno suonato senza bis al Lincoln Theatre di Washington e, la sera seguente, al 9:30 Club. La cantautrice Maggie Rogers di solito torna sul palco per suonare «Different Kind of World», una versione acustica di «Alaska» o un altro dei suoi successi, ma di recente si è chiesta se i fan apprezzassero davvero quel teatrino e tramite le storie di Instagram ha chiesto ai suoi fan se ne sentissero il bisogno (spoiler: fa ancora i bis). Le Chicks, un tempo amanti del bis, nel loro ultimo tour l’hanno saltato e hanno invece chiuso il concerto con il loro classico «Goodbye Earl».
Lo scorso ottobre i Gaslight Anthem hanno fatto tremare il locale suonando alla fine due dei loro brani più celebri, «45» e «The ’59 Sound». In un tweet il frontman della band, Brian Fallon, ha detto che tecnicamente i bis li fa, «salto solo la parte in cui esco dal palco e poi torno perché in quel tempo tanto vale che faccia un altro pezzo. Preferisco dare una canzone in più a chi paga per vederci». E, come la maggior parte delle band anti-bis, l’anno scorso su Twitter si è premurato di avvertire il pubblico di non aspettarsi la parte dell’uscita dal palco: «Solo per essere chiari, sul palco parlerò, parlerò, poi suonerò una canzone e riparlerò, non farò il bis e parlerò. E sarò contento di vedervi. E parlerò. Oh e niente bis. Parlerò».
Altri musicisti, come i Foo Fighters e gli Strokes, non hanno mai fatto molti bis. «Non facciamo bis» dice spesso il frontman dei Foo Fighters Dave Grohl alla folla che ha davanti. «Andiamo dritti fino alla fine e vaf—». Per la pop star Grimes il bis interrompe solo il flusso del concerto, quindi preferisce semplicemente fare concerti più lunghi. Lo stesso vale per i Bleachers di Jack Antonoff. All’artista country Jason Aldean non piacciono. «Preferisco suonarvi tutto quello che abbiamo e quando lo spettacolo è finito, è finito» ha detto a un concerto.
«Mi sembra più onesto e diretto offrire al pubblico il migliore degli spettacoli senza tante cerimonie in fondo» dice Jay Siegan, esperto gestore e promotore di club che ha lavorato con artisti come Celine Dion, Weezer e Imagine Dragons. «Perché non lasciarli con la voglia? Per me è rigenerante quando un artista dà l’anima sul palco, e poi scappa. Questo è rock & roll».
«Non mi faccio una ragione che i bis siano sopravvissuti agli anni ’90 con band che comunque erano critiche con la vecchia politica dello showbiz, e il bis è proprio un vecchio concetto. Alla fine è tutto fumo negli occhi, ma per il pubblico il bis non ha più segreti» dice Max Collins, frontman degli Eve 6 e nuovo opinionista di BuzzFeed, aggiungendo però che nelle giuste circostanze un bis può essere uno scambio di affetto tra artisti e fan.
Gli Eve 6 si trovano davanti una sfida interessante. Collins sa che il pubblico vuole sentire “Inside out”, un loro successo del 1998, che affettuosamente chiama «il pezzo del cuore nel frullatore», per via del ritornello. Il punto è, quando sarebbe meglio farla?
«Dopo aver suonato il pezzo del cuore nel frullatore, sappiamo che la gente inizierà a guardare l’orologio, perciò a volte li avverto che non li annoieremo con un bis» spiega Collins. «Adesso suoniamo altri due pezzi bomba, dico, e basta. In realtà sto dicendo: “Restate anche se abbiamo appena suonato il pezzo del cuore nel frullatore”».
Se però l’atmosfera e la situazione lo richiedono, aggiunge Collins, fanno il bis, ma raramente è “Inside out”. Più spesso verso la fine del concerto introducono un ospite a sorpresa per “ricaricare” il pubblico, come a New York quando a tre canzoni dalla fine Patrick Stickles dei Titus Andronicus si è unito a loro sul palco per suonare in “Promise”.
Per molti questa sembra essere la chiave: non fateci perdere tempo con il bis che ci aspettiamo, metteteci un po’ di impegno. Dimostrateci che ne è valsa la pena. Create qualcosa di speciale.
Josh Gondelman, comico e sceneggiatore di Last week tonight su HBO e di Desus & Mero su Showtime, dice di essere un grande fan della musica e dei bis, se fatti bene. «Alla fine ci sto, perché ho voglia di sentire altre canzoni» dice. «Ma penso che il bis de rigueur, pro forma che ormai è diventato un must del concerto» faccia l’effetto di «una messa in scena a cui nessuno crede».
Gondelman paragona i bis alla «scena che tutti si aspettano in un film Marvel dopo i titoli di coda», che un tempo era una «cosa unica e divertente», mentre adesso la aspettiamo «perché altrimenti l’esperienza non sarebbe completa». O forse, dice, il bis è un kayfabe, riferendosi alla rappresentazione posticcia degli eventi nel wrestling professionistico. T’immagini, riflette scherzando, la fine di un concerto con il pubblico silenzioso e la band che rinuncia al bis? Come sarebbe?
Per Gondelman il bis deve essere speciale. Esempio emblematico: uno dei bis più cool cui ha assistito fu circa 15 anni fa alla fine di un concerto dei Beastie Boys a Worcester, in Massachusetts, quando la band suonò un pezzo strumentale dalla galleria, non sul palco: «Si capiva che era una cosa che non rientrava nel concerto vero e proprio. Era una chicca per chi si era fermato».
Lo scopo del bis, dice Gondelman, è dare ai fan qualcosa di memorabile, un piccolo omaggio che intensifichi l’esperienza. Ma lui per primo, da accanito frequentatore di concerti, ne conta pochi che abbiano fatto davvero la differenza. «La maggior parte non me la ricordo mentre mi ricordo quella volta che Beyoncé ha starnutito e l’intera platea ha urlato: “Salute!”. È stato un momento molto spontaneo».
Il bis che ha colpito di più il cantautore folk-rock Matt Nathanson è stato quello al Forum di Los Angeles durante il tour dei Metallica per il disco omonimo del 1991 noto ai fan come The Black Album. La band consegnò due ore di hard rock filate, poi lasciò il palco, tornò per il bis e se ne andò di nuovo. Le luci si accesero, il classico segnale che lo spettacolo era finito e circa metà della folla si diresse verso l’uscita, ricorda Nathanson, ma i suoi due amici si rifiutavano di andare. «“Dai, hanno suonato tipo due ore, più il bis” facevo io. “Sarà finito, dai”». Ma gli amici erano convinti che si sbagliasse. «E infatti, circa 15, 20 minuti dopo, le luci si sono riabbassate e i Metallica sono usciti e hanno suonato un altro paio di canzoni. È stata la cosa più incredibile che abbia mai visto in vita mia» dice ammirato da quell’uso del bis come vero regalo per i fan rimasti ad aspettare. «Ricordo di aver pensato, “così si fa”».
Sono anni che Nathanson non fa il bis a ogni concerto e le prime volte ha avvisato i fan dicendo, “ormai siamo oltre, nella nostra relazione… gliela mettevo così… ordini gli spaghetti al decimo appuntamento o quando inizi a sentirti a tuo agio… noi abbiamo superato il terzo o il quarto appuntamento, e ormai me la sento di mangiare gli spaghetti davanti a voi… Ci conosciamo bene, non mi vergogno più”. E ai fan è piaciuto!».
Ogni tanto la platea lo incita a tornare sul palco e lui deve pensare su due piedi a che canzone suonare. Ma così gli piace. Così aggiunge qualcosa. Sa di vero, di guadagnato. E non è questo il vero senso di un bis?
«Non è forse autenticità quella che tutti desideriamo?» chiede.
© 2022, The Washington Post
Subscribe to The Washington Post
(traduzione di Sara Reggiani)