In Cina le proteste contro le restrizioni si stanno allargando
Sono ancora contenute ma comunque rilevanti per un paese come la Cina, e dimostrano l’insofferenza per la strategia “zero COVID”
A inizio novembre le autorità cinesi avevano detto che avrebbero allentato le restrizioni imposte contro il coronavirus, sia per limitare i disagi per le persone sia per ridurre il grave impatto sull’economia causato dalla pandemia. Nelle ultime settimane, però, i contagi hanno ripreso a salire rapidamente e il governo ha cambiato idea: ha cominciato a mettere in lockdown interi quartieri o città, ha imposto nuove restrizioni e obbligato milioni di persone a rimanere chiuse in casa per giorni. Le misure, assai rigide, hanno provocato violente e inusuali proteste, che nella prima fase della pandemia non si erano viste e che in generale sono rare in un paese che reprime sistematicamente il dissenso sul nascere.
Una delle proteste di cui si è parlato di più fuori dalla Cina è avvenuta nella notte tra martedì e mercoledì, quando centinaia di dipendenti di un enorme stabilimento industriale di proprietà di Foxconn, l’azienda che assembla gli iPhone e moltissimi altri prodotti tecnologici, hanno protestato violentemente contro le condizioni di lavoro e per il timore di essere contagiati da altri lavoratori positivi al coronavirus. La sede coinvolta dalle proteste si trova a Zhengzhou, nella Cina centrale, dove tra le altre cose sono in lockdown circa 6,6 milioni di persone (su circa 10 milioni di abitanti totali).
La settimana scorsa a Guangzhou (o Canton), importante porto a nord-ovest di Hong Kong, c’erano stati violenti scontri tra polizia e manifestanti che stavano partecipando a una protesta contro l’introduzione di un lockdown nel quartiere di Haizhu, dove vivono circa 1,8 milioni di persone.
Le restrizioni contro il coronavirus erano state introdotte nell’ambito della cosiddetta strategia “zero COVID” adottata dalle autorità cinesi, che prevede l’introduzione di lockdown durissimi e test di massa per eliminare ogni focolaio che si presenti. È stato imposto un lockdown anche nella capitale Pechino, dove da martedì i circa 7 milioni di abitanti dei quartieri centrali di Haidian e Chaoyang sono confinati nelle proprie abitazioni.
Il problema è che i casi continuano ad aumentare, con il risultato che scarseggiano le risorse per la prevenzione della pandemia, tra cui cibo, posti letto negli ospedali e luoghi destinati alla quarantena.
Le restrizioni stanno provocando problemi anche alle attività di soccorso, cosa che sta creando ulteriore malcontento tra la gente.
Sui social network molti utenti hanno protestato contro la morte di un bambino di tre anni che non era riuscito a essere portato in tempo in ospedale nella città di Lanzhou per intoppi legati ai protocolli introdotti contro il coronavirus. In questi giorni ci sono state proteste simili contro le autorità per la morte di una bambina di quattro mesi che aveva bisogno di cure mediche: il padre ha scritto sul social network Weibo che inizialmente per via delle restrizioni un centro di assistenza medica si era rifiutato di mandare un’ambulanza a prenderla, e poi i soccorritori si erano rifiutati di portarla in ospedale.
Mercoledì in Cina sono stati accertati 31mila contagi in un giorno, il numero più alto da quando si è cominciato a fare test, alla fine del 2019, e giovedì i casi riscontrati sono stati più di 32mila. Con l’aumento dei contagi stanno di conseguenza aumentando anche i lockdown e il malcontento della popolazione in varie parti del paese, cosa che potrebbe mettere in difficoltà il potente presidente Xi Jinping, che a fine ottobre è stato riconfermato per un inedito terzo mandato come Segretario generale del Partito Comunista, presidente della Repubblica Popolare e capo delle Forze Armate.
Secondo Li Qiang, fondatore e direttore esecutivo dell’organizzazione per i diritti dei lavoratori China Labor Watch (con sede a New York), se la Cina proseguirà con la strategia “zero COVID” il rischio è che proteste come quella dei lavoratori di Foxconn «siano solo l’inizio».
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