Il “Mondiale della vergogna” del 1978
Si tenne nell'Argentina della dittatura militare, tra tentativi di boicottaggio e un atteggiamento compiacente di molti media
Nel pomeriggio del primo giugno 1978 lo stadio Monumental di Buenos Aires era pieno di gente, lì per assistere alla cerimonia di apertura dei Mondiali di calcio. L’inizio di tutto quanto fu il discorso della massima autorità argentina, Jorge Videla, presentato dall’annunciatore come «tenente generale» ed «eccellentissimo presidente della nazione». Con le mani dietro la schiena e molleggiando sulle punte per scandire ogni frase, Videla declamò: «Chiedo a Dio, nostro Signore, che questo evento sia davvero un contributo per affermare la pace, quella pace che tutti desideriamo per il mondo intero e per tutti gli uomini del mondo».
A poco più di un chilometro dal punto in cui Videla stava parlando c’era la Escuela de Mecánica de la Armada, la scuola militare usata anche come centro di detenzione e tortura. Da lì passarono centinaia o più probabilmente migliaia di dissidenti del regime: una dittatura militare che era stata instaurata nel 1976 proprio da Videla, con la collaborazione di altri due militari, Emilio Massera e Orlando Agosti. La feroce repressione di questa giunta militare, che avrebbe portato alla morte di oltre duemila persone e alla scomparsa di altre trentamila (i desaparecidos), non si fermò neanche per i Mondiali.
Quelli del 1978 furono i primi Mondiali in cui politica e sport si mischiarono in maniera così eclatante, alimentando controversie, proteste e boicottaggi. Un po’ come è avvenuto con i Mondiali di quest’anno che si stanno giocando in Qatar, un paese piccolissimo e governato da una monarchia assoluta che non tiene in gran conto i diritti delle minoranze e i diritti umani in generale. Ma mentre nel caso del Qatar i molti problemi dell’organizzazione del torneo erano noti fin dalla sua assegnazione, nel 1978 la situazione era sensibilmente diversa. Le critiche e i tentativi di boicottaggio arrivarono da organizzazioni umanitarie e da pochi governi, mentre molti media – soprattutto in Italia – raccontarono l’evento concentrandosi molto sul lato sportivo e poco sul contesto politico.
La giunta militare aveva preso il potere nel 1976, approfittando della precarietà del sistema democratico argentino. Al potere c’era Isabelita Perón, ultima moglie di Juan Perón, che era morto nel 1974. Isabelita non si dimostrò capace di governare le gravi turbolenze sociali in corso nel paese, e cedette sempre più potere al ministro della Sicurezza sociale, Juan López Rega, già segretario personale di Juan Perón. López Rega era anche il capo dell’Alleanza Anticomunista Argentina, nota con il nome di Tripla A, un’organizzazione di estrema destra paramilitare che uccise decine di manifestanti e militanti di sinistra.
Nel 1976 fu chiaro che il crescendo di tumulti e rivendicazioni politiche non sarebbe diminuito e nell’esercito maturò la convinzione che fosse necessaria una svolta autoritaria, per restringere gli spazi del dissenso e ridare stabilità al paese. Il 24 marzo Isabelita Perón venne deposta. Nei giorni successivi si instaurò la giunta militare che sospese la Costituzione, chiuse il parlamento e mise fuori legge tutti i partiti politici e i sindacati.
Il colpo di stato militare avvenne nella piena consapevolezza del governo degli Stati Uniti. Alcuni documenti del National Security Archive mostrano come i più alti funzionari statunitensi avessero «discretamente» fatto sapere ai militari argentini che Washington avrebbe riconosciuto un eventuale nuovo regime senza troppi problemi. All’epoca il direttore della CIA era George Bush padre, che informò il presidente Gerald Ford del colpo di stato quasi due settimane prima che Isabelita Perón venisse deposta.
Gli Stati Uniti erano a conoscenza anche del fatto che il colpo di stato avrebbe comportato una conseguente ed estesa violazione dei diritti umani. Cosa che in effetti avvenne. La giunta militare avviò il cosiddetto Proceso de Reorganización Nacional, scegliendo questo nome proprio per dare l’idea di un riassetto totale della società. Ben presto si capì che questo riassetto sarebbe passato attraverso torture, violenze sistematiche, l’abolizione delle libertà individuali e l’eliminazione fisica degli oppositori politici, veri e presunti. Insomma, più che un “processo” di riorganizzazione fu una guerra contro la popolazione, e infatti così passò alla storia: Guerra Sucia, cioè guerra sporca.
La dittatura andò avanti fino al 1983, quando si dissolse in seguito ad avvicendamenti interni alla giunta militare e alla disfatta nella guerra delle Falkland/Malvinas, contro il Regno Unito. Nei decenni successivi Videla fu condannato per due volte all’ergastolo. Si tenne un processo anche in Italia, a Roma, per via del fatto che tra le persone sequestrate o scomparse c’erano migliaia di italiani, emigrati in Argentina.
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Al processo testimoniò Norma Victoria Berti, argentina di origine italiana che oggi vive in Italia e che ha anche scritto un libro sulla dittatura argentina, Donne ai tempi dell’oscurità. Disse Berti: «Mi strapparono i vestiti e mi misero nuda su una specie di brandina metallica. Lì iniziarono a torturarmi con la corrente elettrica». Altre testimoni hanno raccontato come venissero «spogliate dell’identità» tramite l’assegnazione di un numero. Altre ancora raccontarono delle minacce di morte che ricevevano con armi cariche, puntate contro testa, bocca e organi genitali.
Nello stesso periodo in cui avvenivano queste torture, la giunta militare investì molto del suo capitale politico nell’organizzazione dei Mondiali di calcio, sapendo che un evento globale di quel tipo sarebbe stato funzionale alla sopravvivenza del regime e al suo riconoscimento internazionale. L’assegnazione da parte della FIFA, l’organo che governa il calcio mondiale, era avvenuta negli anni Sessanta, quando il clima politico in Argentina era diverso. Ma anche dopo la presa del potere dei militari la FIFA non ebbe mai un ripensamento sull’opportunità di disputare i Mondiali in uno stato violento e autoritario, in virtù della convinzione secondo cui sport e politica stessero su due piani ben distinti.
In Europa ci furono significativi movimenti per boicottare i Mondiali, che fallirono il loro obiettivo principale ma ebbero il merito di diffondere informazioni sulla situazione in Argentina. In particolare in Francia si costituì il COBA, Comité pour le boycott de l’organisation par l’Argentine de la Coupe du monde de Football, e la campagna venne raccontata anche dal quotidiano francese Le Monde. In Italia invece le trasmissioni sportive e una parte della stampa ignorarono gli aspetti politici e raccontarono i Mondiali come un semplice evento sportivo: tra i motivi di questa linea c’era la posizione del governo, allora guidato da Giulio Andreotti, che mantenne i rapporti diplomatici con la giunta militare.
Ma l’indifferenza dei media italiani si spiega anche con la presenza capillare in certe redazioni, specialmente quella del Corriere della Sera, di iscritti alla loggia massonica P2 di Licio Gelli. In Italia la P2 aveva l’obiettivo di trasformare il sistema politico in senso autoritario, ma c’erano affiliati anche all’estero. Tra questi, ce n’erano alcuni nell’esercito argentino, anche ai piani alti. Emilio Massera, membro della giunta di Videla, era iscritto alla P2, e anche López Rega, il capo della Tripla A. Per via di questo legame, il Corriere ebbe in quegli anni una posizione morbida nei confronti del regime militare, arrivando addirittura ad allontanare da Buenos Aires l’inviato Giangiacomo Foà perché scriveva articoli troppo critici e incentrati sulle torture e le sparizioni.
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Tutto questo nonostante la Federazione Nazionale della Stampa Italiana, il maggiore sindacato del settore, avesse diffuso un appello affinché i giornalisti non si limitassero a raccontare i Mondiali come un semplice evento sportivo. A raccogliere con più efficacia l’invito furono gli inviati in Argentina di Repubblica, Saverio Tutino e Franco Recanatesi.
Per ironia della sorte, il “Mondiale della vergogna”, come venne poi soprannominato quel torneo, fu vinto proprio dagli argentini. In finale giocarono contro l’Olanda, portandosi in vantaggio nel primo tempo con il numero dieci, Mario Kempes. All’82° però pareggiò Dick Nanninga portando la partita ai supplementari. A risolvere la situazione fu nuovamente Kempes, quando al 105° saltò due difensori olandesi con un tocco di sinistro che lo mise davanti al portiere: lo saltò fortunosamente e riuscì a segnare anticipando gli altri difensori che stavano arrivando.
Si racconta che durante le partite dell’Argentina, finale compresa, le torture e gli interrogatori nei centri di detenzione venissero sospesi per novanta minuti. Persino i cosiddetti “voli della morte”, con cui il regime faceva sparire gli oppositori gettandoli da aerei o elicotteri in mezzo al mare, si fermavano.
Alcuni giocatori di quella nazionale in seguito commentarono l’intreccio tra politica e sport che ci fu in quelle settimane. L’attaccante Leopoldo Luque disse: «Col senno di poi non posso dire di essere orgoglioso di quella vittoria. Ma all’epoca non capii, nessuno di noi capì. Giocavamo a calcio, e basta».