Da dove viene il gran momento del tennis italiano
Come nel giro di vent'anni il movimento maschile è passato dal punto più basso della sua storia all'essere il più promettente al mondo
di Riccardo Congiu
Il tennis è uno sport elitario per definizione: è praticato saltuariamente da centinaia di milioni di persone nel mondo, con regolarità da decine di milioni e a livello professionistico da poche migliaia. Tra questi, solo le prime duecento donne e i primi duecento uomini delle classifiche mondiali riescono a farne un lavoro più o meno remunerativo. In questo momento, alla fine di una stagione, 19 dei primi 200 uomini sono italiani. È un dato decisamente impressionante per la storia del tennis in Italia, un paese che non ha mai prodotto un tennista numero 1 al mondo e che a livello maschile non vince uno Slam – la categoria che comprende i quattro tornei più importanti e prestigiosi – da 46 anni.
Ma è un dato notevole anche in assoluto: sono pochissimi i paesi che attualmente possono vantare un numero simile di tennisti tra i primi duecento, e in generale è una circostanza piuttosto rara. Gli altri sono Stati Uniti, Francia e Argentina, ma nessuno di loro ha una qualità media alta come quella italiana, e soprattutto un’età media così bassa: dei 19 italiani in top 200, infatti, in dieci non hanno più di 21 anni. Alcuni giorni fa a Milano si sono concluse le NextGen ATP Finals, il torneo di fine anno fra gli otto migliori giovani della stagione: l’Italia era l’unico paese a essere rappresentato da più di un giocatore, con Lorenzo Musetti, Francesco Passaro e Matteo Arnaldi.
I tre alla fine non sono andati benissimo, per la verità, ma il discorso sul tennis italiano è assai più ampio dei singoli risultati, e riguarda una crescita generale di tutto il movimento, con grandi prospettive per il futuro. Durante il Roland Garros del 2021 (uno dei quattro Slam), Matthew Futterman commentò sul New York Times le vittorie di Matteo Berrettini, Jannik Sinner e Musetti scrivendo: «Questo torneo, e forse persino il futuro del tennis maschile, all’improvviso sembrano molto italiani». Interrogandosi sui motivi che avevano prodotto questa eccezionalità, Futterman arrivò però alla conclusione che l’Italia non avesse «alcuna idea» di cosa stesse funzionando particolarmente bene, lasciando credere che dietro ci fosse più che altro una coincidenza: quella per cui tre o quattro giocatori di altissimo livello erano nati in Italia più o meno nello stesso periodo.
A indagare un po’ sembra proprio il contrario: cioè che l’Italia abbia creato le condizioni per produrre tennisti di livello anche senza dover aspettare la nascita di talenti generazionali. Non è semplice stabilire rapporti di causa ed effetto diretti, ma si possono individuare molte delle ragioni che hanno portato al successo attuale. Alcune sembrano avere a che fare soprattutto con un’estesa riforma del tennis nazionale, cominciata dalla Federazione italiana tra i 10 e i 15 anni fa; altre, meno concrete, con un generale cambio di mentalità a tutti i livelli.
Chi si è appassionato al tennis solo in tempi recenti forse non riesce bene a percepire l’eccezionalità di questo momento storico: dopo gli anni Settanta — quelli della generazione di Adriano Panatta, Corrado Barazzutti e Paolo Bertolucci — il tennis maschile italiano non ha più avuto per diversi decenni giocatori né in grado di entrare tra i primi dieci del mondo, né di avvicinarcisi. Nel 2000 toccò quello che fu definito il punto più basso della sua storia, retrocedendo nell’equivalente della “Serie B” di Coppa Davis, la competizione a squadre per nazionali, che all’epoca era organizzata con un gruppo principale di cui facevano parte le nazionali più forti (il “gruppo mondiale”, una specie di “Serie A”) e varie altre categorie inferiori (oggi non funziona più così).
Per quanto abbia avuto storicamente pochissimi tennisti di primo livello, fino a quel momento l’Italia aveva sempre fatto parte del “gruppo mondiale”, potendo contare soprattutto su ottimi giocatori di doppio, specialità che all’epoca aveva un certo peso in Coppa Davis. La retrocessione fu uno smacco enorme, e gli anni trascorsi nelle categorie inferiori contribuirono a convincere la federazione che fosse necessario riformare l’intero sistema.
La nazionale tornò nel “gruppo mondiale” solo nel 2011, in concomitanza con l’ascesa nel circuito di Fabio Fognini, che oggi ha 35 anni, è ancora in attività ed è considerato uno dei tennisti italiani più forti di sempre. I buoni risultati ottenuti da Fognini negli ultimi dodici anni, però, sono sempre rimasti un’eccezione all’interno di un panorama piuttosto deludente: Filippo Volandri, Andreas Seppi e prima di loro anche altri, come Omar Camporese e Andrea Gaudenzi, sono stati ottimi tennisti, ma con picchi veramente rari e pochissimi tornei vinti.
Oggi oltre a Sinner, Berrettini e Musetti, persino un tennista di un livello un po’ inferiore come Lorenzo Sonego, che attualmente è 45esimo al mondo, ha vinto in singolare tre tornei ATP – il circuito più alto del tennis professionistico – negli ultimi due anni.
Secondo Laura Golarsa, ex tennista italiana e commentatrice televisiva per Sky Sport, «i ragazzi che giocano bene in Italia noi li abbiamo sempre avuti», solo che «prima non c’era un percorso: c’erano i circoli e poi direttamente la federazione, che aveva molta selezione. Investiva su due ragazzi per volta e quando avevano 16 anni, ma se sono forti a quell’età poi non è detto che esplodano». Grazie alla conoscenza degli errori commessi in passato, dice Golarsa, «molti tennisti che smettevano si sono rimessi in gioco più come coach che non come maestri di circolo, per aiutare i nuovi giovani a fare il pezzo di percorso che mancava». Golarsa stessa è fondatrice di un importante centro giovanile di tennis in Italia che prende il suo nome.
Uno dei primi aspetti su cui la federazione decise di intervenire fu quello mediatico: c’era la convinzione che il tennis italiano fosse poco seguito anche perché era poco e mal raccontato, e alla fine del 2008 fu lanciato il canale televisivo della federazione, SuperTennis, che si vede tuttora in chiaro. Molti appassionati ricordano gli inizi di SuperTennis con una certa ilarità: trasmetteva quasi solo repliche e aveva i diritti per pochissime partite in diretta, commentate da telecronisti all’epoca piuttosto inesperti. Molti giudicavano l’investimento inutile e azzardato.
Tra i maggiori critici dell’operazione ci fu Ubaldo Scanagatta, giornalista fondatore del sito specializzato Ubitennis, che all’inizio di quest’anno ha detto all’Équipe che aprire SuperTennis era stato «un modo per fare pubbliche relazioni, mostrando in tv i circoli amici di Angelo Binaghi», cioè del presidente della federazione.
A distanza di 14 anni, però, SuperTennis è cresciuto parecchio e ha cominciato ad acquistare i diritti televisivi di tornei anche molto importanti: di fatto, oggi il tennis in Italia è l’unico sport che si può vedere gratuitamente e in chiaro anche ad altissimo livello. Il ruolo di SuperTennis è decisivo soprattutto perché trasmette tutte le partite degli italiani e delle italiane che non si trovano altrove, e questo ha permesso al pubblico di affezionarsi ai giocatori, di tifarli e di seguirli più assiduamente. È anche l’unico posto in cui è possibile vedere molti tornei femminili durante l’anno, di cui spesso le televisioni maggiori non acquistano i diritti, se non sono venduti insieme a quelli dei tornei maschili.
Intorno al 2010 la federazione avviò una serie di riforme che avevano l’obiettivo di modificare profondamente soprattutto il settore giovanile, e SuperTennis fu lo strumento usato per pubblicizzarle e diffondere la nuova mentalità. Molti dirigenti della federazione ed esperti del settore concordano sul fatto che una delle riforme più importanti fu quella che venne chiamata “progetto campi veloci”: nel tennis sono “veloci” i campi in cemento, così definiti in contrapposizione a quelli in terra rossa, dove la pallina viaggia più lenta.
In Italia storicamente la grandissima parte dei campi da tennis è stata, almeno fino al 2010, in terra rossa: dai circoli più piccoli a quelli dove si allenavano i professionisti. Era una tradizione, così come lo era avere giocatori specializzati e competitivi proprio su quella superficie: d’altra parte il più importante torneo italiano, gli Internazionali di Roma, si gioca sulla terra rossa. Secondo Laura Golarsa c’entra anche una certa mentalità “da circolo”, per la quale i gestori sono sempre stati inclini ad avere campi in terra rossa anche per venire incontro alle richieste dei soci più anziani, «che tipicamente vogliono giocare sul morbido» perché convinti che faccia meno male alla schiena (un falso mito).
Il problema però era che nel tennis professionistico la maggior parte dei tornei si gioca sul cemento: è su quella superficie che si assegnano quasi tutti i punti che determinano le classifiche mondiali, perciò è fondamentale che i tennisti vengano formati a giocarci fin da bambini. In Italia invece la maggior parte dei tornei giovanili si giocava sulla terra rossa. L’ex dirigente della federazione Roberto Commentucci, che fu tra i principali promotori dell’iniziativa, raccontò: «Osservando i dati relativi alla distribuzione dei tornei organizzati per superficie in ciascun paese, venne fuori che un giovane spagnolo nel suo percorso di crescita gareggiava sul veloce tre volte più spesso di un italiano». Nei primi cinque anni del progetto furono costruiti circa 450 campi veloci, grazie agli incentivi che la federazione erogava ai circoli in tutta Italia.
Cambiarono così anche i corsi federali dei maestri di tennis, che iniziarono a concentrarsi su aspetti del gioco che prima erano considerati meno importanti. «Prima in Italia si giocava quasi solo su terra battuta e molto spesso all’aperto: in queste condizioni il servizio era importante ma non determinante, si guardavano il dritto e il rovescio», dice l’ex tennista italiano e commentatore di Sky Sport Paolo Bertolucci. Oggi tutti i tennisti italiani della nuova generazione sono molto versatili e hanno un servizio molto solido, un colpo su cui gli italiani sono stati storicamente carenti, ma fondamentale per essere competitivi sul cemento. Matteo Berrettini, per esempio, ha uno dei migliori servizi del circuito.
Berrettini’s serve 🤌🏽 pic.twitter.com/5cyU9mS6KA
— ً (@tsimiks) July 11, 2021
Insieme al “progetto campi veloci” fu portata avanti una riforma del settore tecnico, con la rifondazione nel 2010 dell’istituto di formazione federale per gli aspiranti maestri di tennis. Tra le altre cose, furono inseriti corsi più specifici per tutte le figure professionali che seguono i giocatori nel tennis moderno: oltre ai maestri, preparatori fisici e mentali, fisioterapisti e altri ancora.
L’altra grossa parte della riforma della federazione iniziò nel 2015, quando si cominciò a mettere in dubbio l’abituale percorso giovanile che facevano i ragazzi destinati al professionismo. Fino ad allora la federazione selezionava uno o due giovani ritenuti più promettenti per ogni annata, che venivano invitati a trasferirsi e allenarsi nel centro di preparazione olimpica di Tirrenia, in Toscana, gestito dal CONI (il Comitato olimpico italiano). Lì i ragazzi arrivavano spesso anche molto giovani, prima dei 16 anni, allontanandosi dalle famiglie e cominciando a dedicarsi al tennis in maniera quasi esclusiva. È il percorso che hanno fatto anche alcuni giocatori attualmente in attività, come Fabio Fognini e Camila Giorgi.
In Italia c’era l’idea che quella fosse una sorta di “ricetta” unica per produrre campioni, perché la generazione di Panatta, Barazzutti e Bertolucci – l’unica vincente del tennis italiano maschile fino a quel momento – si era formata in modo simile nel Centro olimpico di Formia, nel Lazio. Il metodo che aveva funzionato negli anni Sessanta, però, aveva mostrato moltissimi difetti in tutti i decenni successivi.
Si capì infatti che un passaggio così brusco aveva un impatto troppo duro sulla vita dei ragazzi, e in molti casi li esponeva a pressioni eccessive per l’età che avevano, con il risultato che solo pochissimi riuscivano poi ad arrivare stabilmente al professionismo e avere una carriera di livello, mentre molti altri finivano per rinunciare. Nel frattempo, venivano esclusi dai percorsi privilegiati diversi giovani che magari sarebbero emersi più tardi. La pensa così anche Bertolucci: «Abbiamo campioni di Wimbledon Under 18 mai visti nel circuito, figuriamoci a 13 o a 14 anni: a quell’età come faccio a capire se un ragazzo ha davvero l’ambizione di diventare un personaggio pubblico, di girare il mondo, se il fisico reggerà, se avrà questa fame di vittoria».
Come detto, il tennis è uno sport per pochissimi, non più di duecento ad alti livelli: chi non fa parte dell’élite mondiale non si mantiene, e per arrivarci serve un talento mentale grande almeno quanto le doti tecniche, fisiche e atletiche che nell’immaginario si associano a un campione. Per questo Bertolucci dice che l’ambizione dev’essere quella di scovare più giocatori “medi” possibili a livello giovanile: «A 12-14 anni io non voglio uno buono, ne voglio sei discreti: lì in mezzo è più probabile che ce ne sia uno con più voglia degli altri che mi diventa un giocatore».
Lo sforzo della federazione dal 2015 fu quello di aumentare in modo capillare la sua presenza sul territorio nazionale, introducendo decine di centri intermedi che i ragazzi potevano cominciare a frequentare fin da bambini: i centri di aggregazione provinciale (CAP) dagli 8 ai 10 anni, poi i centri periferici di allenamento (CPA) dagli 11 ai 15 e infine i centri tecnici periferici (CTP) per gli over 16, dove chi viene convocato può cominciare a risiedere stabilmente e a essere affiancato dai tecnici federali. Oggi si arriva a Tirrenia almeno a 17 anni, ma non è più nemmeno un passaggio fondamentale.
Il sistema più o meno funziona così: la federazione ha osservatori in ogni provincia, che girano per i circoli e segnalano i migliori giovani da convocare a raduni periodici che si tengono in questi centri intermedi. A questi raduni i ragazzi vanno solitamente con i loro allenatori, inserendosi gradualmente nell’ambiente federale senza forzature, conoscendosi e facendo amicizia tra loro. La federazione nel frattempo li segue da vicino, chiede ai loro allenatori di cosa hanno bisogno, e quando crescono mette a loro disposizione figure professionali che altrimenti non potrebbero permettersi. «I passaggi intermedi sono un grosso aiuto, perché alla fine viene fuori una selezione naturale», dice Bertolucci.
Tutte queste iniziative hanno avuto come esito molto tangibile un importante allargamento della base di ragazzi tra i 16 e i 18 anni tesserati dalla federazione: si stima che oggi siano almeno il triplo di quelli che erano nel 2005-2006, e quindi la probabilità che ne venga fuori uno promettente è aumentata.
Poco più tardi fu inaugurato il “progetto over 18”, per sostenere i ragazzi più grandi nel delicato passaggio tra il tennis giovanile e quello professionistico: prima a 18 anni i ragazzi venivano considerati tennisti pronti, e lasciati ai loro team per provare a entrare nel circuito. Ma diventare professionisti è molto complesso: bisogna spendere un sacco di soldi per le trasferte, fare i conti con tante sconfitte, rinunciare a molti svaghi della vita da adolescenti. Così oggi la federazione segue da vicino i ragazzi e i loro team, finanzia le trasferte più impegnative, aiuta a fare la programmazione.
Non sembra un caso che i primi due giovani inseriti in questo programma siano stati Sonego e Berrettini: due tennisti cresciuti insieme ed entrati nei primi cento al mondo senza troppa fretta, rispettivamente a 24 e a 22 anni. Golarsa ricorda il percorso di Berrettini come uno dei più emblematici: «Più o meno dieci anni fa, al secondo anno di under 16, era un 2.8», cioè di una categoria di cui solitamente fanno parte i semiprofessionisti, e piuttosto bassa per un giovane che aspiri nel circuito.
Non c’è la controprova, ma certamente con il vecchio sistema per uno come Berrettini sarebbe stato più difficile emergere: invece è diventato uno degli italiani più forti di sempre, è attualmente uno dei due o tre giocatori migliori del circuito sull’erba ed è stato il primo italiano di sempre a giocare una finale a Wimbledon, il torneo più prestigioso del tennis. «C’è anche l’esempio della classe 2001-2002 — dice Golarsa — in cui stanno venendo fuori quelle che prima erano considerate le seconde linee».
Sulla crescita di Sonego e Berrettini, in un’intervista al canale Telegrammi di Tennis Roberto Commentucci ha raccontato: «Una volta li mandammo a fare una tournée di Challenger in Asia, sul cemento, in Cina: spendemmo un sacco di quattrini, loro vinsero poche partite e fecero pochi punti, però fecero esperienze importanti». I Challenger sono la categoria di tornei per professionisti immediatamente inferiori a quelli della ATP, il circuito principale: sono molto importanti per avere un approccio graduale al professionismo, affrontare avversari internazionali e iniziare a guadagnare i primi punti in classifica.
Anche su questo la federazione ha cominciato a investire stabilmente, e oggi l’Italia organizza più tornei Challenger di qualsiasi altro paese al mondo: nel 2022 sono stati 28, contro i 21 degli Stati Uniti, o i 18 della Francia e i 12 della Spagna. Organizzare tanti Challenger fa una certa differenza, perché i giocatori possono giocare tornei di livello internazionale senza dover affrontare trasferte onerose, spostandosi poco da casa e dalle famiglie.
Inoltre, in questo modo gli viene garantita la partecipazione fin da giovanissimi, grazie al meccanismo delle wild card: cioè gli speciali accessi ai tabelloni principali dei tornei che vengono dati a tennisti che non hanno i punti necessari a iscriversi, senza che debbano passare dalle qualificazioni. Ogni torneo ne ha almeno un paio: si danno solitamente ai giovani talentuosi o ai veterani che non hanno una posizione in classifica sufficiente a partecipare, ed è consuetudine che il paese che ospita il torneo riservi diverse wild card per i suoi tennisti.
Se i Challenger servono a far crescere i giovani, ma hanno un pubblico perlopiù di impallinati e addetti ai lavori, sono i grandi eventi a far avvicinare molti tifosi e ad incentivare indirettamente l’ampliamento della base dei praticanti: negli ultimi anni l’Italia si è aggiudicata importanti bandi per ospitare tornei prestigiosi come le Next Gen ATP Finals e le ATP Finals, il torneo di fine anno in cui si affrontano i migliori otto tennisti della stagione che si terrà a Torino fino al 2025.
L’ultima edizione delle ATP Finals si è giocata a Torino a metà novembre, e dopo le recenti partecipazioni di Matteo Berrettini (2019 e 2021) e Jannik Sinner (2021), non c’era nessun italiano. A leggere i titoli sembrava una grossa notizia, nonostante prima di Berrettini l’Italia non partecipasse dal 1978, ma è un segno di come siano cresciute le aspettative nei confronti dei tennisti italiani, e di come sarà sempre più difficile rispettarle. «Oggi la gente si stupisce se non ci sono italiani alle Finals, ai miei tempi se giocavi un primo turno a Wimbledon era già una notizia» dice Golarsa (che a Wimbledon fece i quarti di finale nel 1989).
Secondo diversi pareri, una parte di questa mentalità ambiziosa il tennis italiano maschile la deve al femminile, che nel decennio scorso ottenne due vittorie negli Slam in singolare con Francesca Schiavone (2010) e Flavia Pennetta (2015), arrivando più volte nelle finali dei tornei più importanti anche con altre tenniste. Riccardo Piatti, allenatore veterano del circuito che ha seguito Sinner e in passato campioni come Novak Djokovic e Maria Sharapova, nel 2019 disse che il successo del tennis femminile italiano ha cambiato la mentalità della federazione, dei tennisti uomini e dei loro allenatori.
Quello che molti chiamano “effetto traino” non è da sottovalutare in questo processo di crescita del tennis: «Se arriva un Berrettini che va in finale a Wimbledon, quello che a tutti sembrava impensabile diventa all’improvviso possibile» dice Golarsa. E se nello stesso periodo si aggiunge l’esplosione di Sinner, uno dei migliori talenti della sua generazione, è abbastanza naturale che i giovani rendano più ambiziose le proprie aspirazioni. Sinner in ogni caso fa storia a sé: si è allenato da solo nell’accademia di Piatti a Bordighera, in Liguria, da quando aveva 13 anni. A 17 ha chiesto una wild card per un Challenger a Bergamo, lo ha vinto, e da lì si è costruito da solo la sua classifica, senza il bisogno di particolari aiuti.
Per tutti gli altri giocatori che sostiene, invece, la federazione considera gli investimenti a fondo perduto, cioè non vuole che le venga restituito niente: a patto però che una volta cresciuti i tennisti non rifiutino le convocazioni in Coppa Davis. Se lo fanno senza valide ragioni, allora gli si chiede nel tempo un risarcimento di quello che era stato investito. La Coppa Davis — che l’Italia ha vinto una sola volta nella sua storia nel 1976 — è una competizione a cui la federazione ha mostrato di tenere tantissimo: una decina di giorni fa in un’intervista alla Stampa il presidente Angelo Binaghi ha detto di aspettarsi una vittoria entro «4-5 anni».
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