Le nuove regole sul reddito di cittadinanza
Il governo di Giorgia Meloni ha annunciato che toglierà progressivamente il sussidio alle persone “occupabili” dal 2023, ma lo strumento non sarà abolito per tutti
Nel disegno di legge di bilancio approvato dal governo di Giorgia Meloni sono previste delle modifiche al reddito di cittadinanza, ampiamente promesse durante la campagna elettorale da tutti i partiti che compongono la maggioranza. Non c’è ancora il testo ufficiale: quello che si sa è scritto nel comunicato stampa del Consiglio dei ministri che ha approvato la manovra, e che è stato spiegato più nel dettaglio in conferenza stampa da Meloni e dalla ministra del Lavoro, Marina Calderone.
In sintesi, il reddito di cittadinanza continuerà a essere previsto per le categorie in oggettiva condizione di povertà e che non possono lavorare, mentre chi è giudicato “occupabile”, ossia in grado di poter avere un lavoro, continuerà a riceverlo solo per un periodo limitato di tempo nel 2023. Dal 2024 dovrebbe essere tolto solo a quest’ultima categoria di persone, ma comunque, diversamente da quanto detto da alcuni media, non sarà abolito del tutto.
Un ripasso sul reddito di cittadinanza
Il reddito di cittadinanza è la più importante misura proposta dal Movimento 5 Stelle durante la campagna elettorale del 2018. Fu introdotto nel 2019 dal primo governo di Giuseppe Conte, guidato proprio dal Movimento 5 Stelle insieme alla Lega.
È uno strumento pensato per le famiglie e gli individui che si trovano in difficoltà economica: non è un sussidio di disoccupazione, ma una misura di sostegno al reddito che rimane disponibile una volta terminati gli strumenti ordinari, come la cassa integrazione e il sussidio di disoccupazione. Tant’è che alcune delle persone che lo ricevono hanno un lavoro, che però non consente di raggiungere una soglia di reddito tale da uscire dalla povertà. L’assegno è mensile e non ha un importo fisso: dipende dal numero di componenti della famiglia, dall’ISEE, dalle eventuali integrazioni per pagare l’affitto.
L’erogazione dell’assegno è legata a un percorso di inserimento lavorativo, obbligatorio per i percettori tra i 18 e i 65 anni. Non è invece obbligatorio per i disabili o per chi ha a carico disabili o minori di tre anni.
Al momento il sussidio è per legge temporaneo, ma di fatto non decade quasi mai: dopo 18 mesi l’erogazione viene sospesa per un mese, per poi riniziare. Invece, il beneficio decade del tutto se si rifiutano due offerte di lavoro.
Le nuove regole
Le nuove regole cambiano le cose per le persone che ricevono il reddito e sono considerate “occupabili”. Secondo la definizione che ha dato il comunicato stampa del Consiglio dei ministri, gli “occupabili” sono persone tra i 18 e i 59 anni che possono oggettivamente lavorare e che non abbiano nel nucleo disabili, minori o persone a carico con almeno 60 anni.
Con le nuove regole, nel 2023 alle persone che ricevono il reddito e definite “occupabili” sarà erogato l’assegno al massimo per 8 mensilità, invece delle attuali 18 rinnovabili. Durante questo periodo dovranno frequentare corsi obbligatori di formazione o riqualificazione professionale. Il sussidio decade se queste persone non frequentano i corsi o nel caso in cui rifiutino la prima offerta di lavoro congrua. Dal 2024 dovrebbe poi essere tolto del tutto.
Il governo aveva anche considerato l’idea di interrompere il sussidio per gli “occupabili” già da gennaio. Ci sarebbe stato così un risparmio per lo stato pari 1,8 miliardi di euro l’anno (complessivamente il reddito di cittadinanza ne costa circa 8 all’anno), ma al prezzo di lasciare centinaia di migliaia di persone improvvisamente senza un reddito. È stata così adottata una soluzione “ponte” di quasi un anno: nel 2023 i cosiddetti “occupabili” riceveranno il sussidio per 8 mesi, mentre per chi non può lavorare di fatto non cambierà niente.
I partiti che compongono la maggioranza sono sempre stati piuttosto contrari al reddito di cittadinanza, sebbene nessuno di loro durante la campagna elettorale avesse detto esplicitamente cosa avrebbe voluto farne una volta al governo e sebbene la Lega facesse parte del governo che l’aveva introdotto. La posizione di Meloni era quella più chiara: tempo fa arrivò addirittura a definirlo «metadone di stato».
Durante la conferenza stampa Meloni ha detto che questi nuovi vincoli sono solo l’inizio di un percorso di riforma dello strumento, che parte dal principio generale che debbano continuare a essere tutelate col sussidio solo le persone che sono nell’impossibilità oggettiva di avere un impiego.
Meloni ha detto: «avremmo avuto bisogno di più tempo per fare una riforma complessiva, che faremo, ma intanto stabiliamo che si continua a tutelare chi non può lavorare, disabili, anziani, famiglie prive di reddito con minori a carico, donne in gravidanza». Al momento per queste categorie non cambierà niente, ma Meloni e Calderone hanno più volte detto che nel corso del prossimo anno sarà totalmente ripensato lo strumento.
È difficile dire ora se il governo arriverà mai a togliere del tutto il reddito di cittadinanza alle persone più in difficoltà, soprattutto perché sarebbe una decisione piuttosto impopolare. È plausibile però ipotizzare che verrà riformato il meccanismo alla base del reddito, e magari lo stesso nome dello strumento, in modo da dare al governo l’opportunità politica di sostenere di averlo abolito.
Il problema di sempre: il percorso di inserimento lavorativo
Nella conferenza stampa, Meloni ha detto: «abbiamo scelto di tenere un periodo transitorio per accompagnare quella che sarà la fine del reddito di cittadinanza per chi è in condizioni di lavorare».
Uno dei presupposti principali dell’introduzione del reddito di cittadinanza, quando fu votato, era che fosse vincolato alla partecipazione delle persone che lo ricevono a un percorso di inserimento lavorativo. Questo tuttavia è sempre stato l’aspetto più controverso e probabilmente fallimentare della misura.
Molti economisti ed esperti hanno fatto notare fin dalla sua approvazione che la responsabilità presa dal governo di voler trovare un lavoro a chi riceve il reddito era probabilmente troppo grande.
Al momento dell’applicazione della norma, il potenziamento delle politiche attive del lavoro fu fatto di fretta e in maniera raffazzonata e portò a noti problemi sia dentro l’ANPAL, l’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro, sia nella gestione dei cosiddetti navigator, cioè le persone che avrebbero dovuto trovare lavoro a chi ottiene il reddito. A rendere tutto più complicato c’era il fatto che i beneficiari del reddito di cittadinanza sono spesso persone poco istruite e senza formazione professionale, talvolta anche ai margini della società, che è difficile collocare senza prima un serio lavoro di reinserimento sociale. Le persone giudicate “occupabili” per legge spesso di fatto non sono appetibili per i datori di lavoro.
Secondo gli ultimi dati dell’ANPAL, su 2,3 milioni di percettori del reddito di cittadinanza sarebbero circa 660 mila quelli in grado di lavorare. L’INPS fa una stima più cauta: sarebbero 372 mila gli effettivamente occupabili, considerando le loro qualifiche e le storie lavorative pregresse.
I risultati delle politiche attive del lavoro in questi anni
Da quando è entrata in vigore questa misura, è sempre stato piuttosto difficile stabilire il reale numero di beneficiari che hanno trovato un lavoro grazie alle politiche attive. Il motivo principale è che queste persone passano attraverso le procedure di vari soggetti, l’INPS, l’ANPAL e i Centri per l’impiego, e che queste strutture non condividono i dati tra di loro.
I dati più aggiornati sono quelli dell’ANPAL e sono relativi a settembre 2021. Dall’introduzione della misura fino ad allora, erano passati per le politiche attive quasi 1,9 milioni di percettori del sussidio. Di questi, quasi il 20 per cento aveva già un lavoro quando ha iniziato a incassare l’assegno, a testimonianza del fatto che non sempre avere un lavoro è sufficiente a uscire dalla povertà. Circa il 30 per cento ha trovato un lavoro dopo aver ottenuto il sussidio, anche se non sempre come esito della presa in carico da parte di un Centro per l’impiego.
Ma quasi il 70 per cento di questi lavori non ha superato i 3 mesi di durata e solo lo 0,8 per cento è durato più di un anno, anche perché si trattava nella maggior parte dei casi di lavori che richiedevano basse competenze. Infatti, quasi due terzi di questi beneficiari ha al massimo il titolo di scuola secondaria di primo grado e solo il 2,6 per cento è laureato.
Non ci sono ancora studi sufficientemente ampi da stabilire se il reddito di cittadinanza sia di per sé un disincentivo alla ricerca del lavoro.
Chi è a favore della misura fa notare come l’importo medio dell’assegno sia talmente basso (a settembre era pari a 581 euro) da rendere attraente un lavoro a tempo pieno remunerato con un salario legale, anche minimo.
Dall’altro lato però il meccanismo del reddito di cittadinanza prevede che venga detratto dall’assegno l’80 per cento del reddito che si ottiene da un’occupazione regolare. Questo può effettivamente scoraggiare chi deve decidere se accettare un’occupazione regolare che offra un reddito paragonabile. Il Comitato scientifico di valutazione del reddito di cittadinanza istituito presso il ministero del Lavoro e guidato dalla sociologa Chiara Saraceno ha suggerito di ridurre la percentuale di detrazione al 50 per cento, in modo da rendere più conveniente iniziare un percorso lavorativo.
In ogni caso, alla quasi totale inefficacia dello strumento nel trovare un lavoro a chi riceve il reddito si contrappongono buoni risultati nella lotta alla povertà. Nel suo ultimo rapporto annuale, l’Istat ha spiegato che l’intervento pubblico ha avuto un ruolo «non trascurabile» nel proteggere le famiglie dalla povertà: nel 2020 il reddito di cittadinanza e il reddito di emergenza (un sussidio straordinario erogato proprio a causa della pandemia) hanno evitato che circa un milione di cittadini arrivasse sotto la soglia della povertà assoluta.