Come funzionano le stelle Michelin
La guida che valuta i ristoranti è diventata un marchio del settore del lusso, ma resta un'ossessione per gli chef
di Valerio Clari
La notizia più ripresa dell’ultima serata di gala della Guida Michelin, che presentava la 68ª edizione italiana, è stata la promozione nella categoria “3 stelle” del ristorante Villa Crespi e quindi del suo chef Antonino Cannavacciuolo. Il premiato è molto noto anche ai non addetti ai lavori per le partecipazioni a numerosi programmi televisivi e l’ingresso del suo ristorante nel gruppo d’élite della guida francese ha attirato parecchie attenzioni, anche superiori a quelle abituali.
Le presentazioni delle nuove edizioni con cadenza annuale, in 25 diversi paesi, sono diventate parte importante del business della guida. Sono serate in stile “cerimonia degli Oscar” in cui trovano visibilità i numerosi partner commerciali della guida, globali e locali: orologi, strumenti per cucina, produttori di vini e superalcolici, app e siti per prenotazioni online. A oltre 130 anni dalla sua nascita, la Guida Michelin è diventata il centro di un mondo del marketing del lusso, della ristorazione, del mondo alberghiero e del turismo di fascia alta. La rilevanza dei suoi giudizi e delle sue categorie stellate apparentemente non è stata compromessa da queste aperture e commistioni: le stelle restano l’obiettivo dichiarato di moltissimi chef e la certificazione dell’eccellenza per ampie fette di pubblico.
Nonostante periodiche polemiche sui metodi di valutazione e una concorrenza crescente da parte di una moltitudine di guide gastronomiche e programmi televisivi sulla ristorazione, la “rossa” – come viene definita la guida per il colore immutato da oltre un secolo della sua copertina – resta la massima autorità nel campo: guadagnare o perdere una stella continua a essere un evento molto celebrato o accettato a fatica dalla maggior parte dei cuochi. Parlare di ristoranti “stellati” o di chef “stellati” è diventato di uso comune, una categorizzazione molto riconosciuta che ha pochi corrispettivi in altri campi di attività commerciali di alto livello, ma anche dell’arte, a cui il lavoro degli chef più ambiziosi aspira.
La guida Michelin nacque nel 1889 in Francia, per motivi meramente commerciali: la Michelin, produttrice di pneumatici, cercava modi per incentivare il turismo e i viaggi su strada (e quindi su gomma) e quindi propose una guida da 570 pagine sulla Francia, con mappe, stazioni di servizio, istruzioni su come cambiare uno pneumatico e recensioni di hotel e ristoranti. Fece un salto di qualità nel 1926, introducendo le stelle (inizialmente una sola, poi tre) per segnalare i ristoranti migliori. Dagli anni Sessanta in poi diventò giudice di qualità e punto di riferimento della gastronomia mondiale, ampliando la sua sfera d’azione dalla Francia all’Europa e poi a una buona fetta del mondo occidentale e asiatico, mantenendo il suo status fino ad oggi.
Negli anni si è imposta su guide rivali e critici gastronomici grazie ai potenti mezzi economici della casa madre Michelin, che le hanno permesso di avvalersi di dipendenti a tempo pieno, chiamati ispettori, nel ruolo di recensori e di essere rimasta a lungo indipendente dalla ricerca di sponsorizzazioni e di rapporti commerciali riguardanti il settore diventato centrale per il suo business, i ristoranti.
Oggi il marchio Guida Michelin è coinvolto in frequenti operazioni di marketing e accordi con enti di promozione turistica, soprattutto per le aperture di edizioni focalizzate su città extraeuropee (le ultime a Singapore, Seul e Shanghai, la prossima a Toronto), ma continua a professare un’assoluta rigidità nei rapporti con il mondo della ristorazione e a ricercare la segretezza nel lavoro di recensione. Segretezza imposta in particolare sull’identità degli ispettori giudicanti e sulle prove dei ristoranti: ma queste scelte, considerate necessarie, hanno fatto emergere anche alcune criticità.
Per gli chef e i ristoranti avere una, due o – nei casi migliori e più rari – tre stelle resta ancora un traguardo assai importante. A fronte di pochi casi di rifiuto totale del sistema, la maggioranza degli chef non nasconde l’ambizione a un riconoscimento da parte della guida. Nelle cerimonie di premiazione è comune sentir parlare di “coronamento di decenni di lavoro”, di “obiettivo di una vita”. Guadagnare una stella Michelin ha un evidente ritorno dal punto di vista del marketing e quindi degli ingressi economici, ma è vissuto sempre come una sorta di medaglia in un ambiente molto competitivo e in cui il prestigio e l’autoaffermazione sono ricercati con insistenza.
Enrico Maridati, chef del Miro – Osteria del Cinema di Milano, che in passato ha lavorato in varie cucine stellate in Italia e nei Paesi Bassi, prova a spiegare: «Il nostro è un lavoro da 14 ore al giorno, di passione che diventa quasi sempre ossessione. Il mondo dei ristoranti stellati è la Champions League dei cuochi e la stella Michelin è senza dubbio la coppa: il vero obiettivo». La questione economica non è prioritaria: salire di livello, di stelle, aumenta in modo sostanziale il fatturato, ma impone anche un aumento dei costi da sostenere e degli investimenti da realizzare per mantenere gli standard qualitativi. Per alcuni, a testimonianza del peso, diventa anche una responsabilità eccessiva: Sebastien Bras chiese che gli fossero tolte le tre stelle, che gli mettevano ansia.
Per il pubblico, specie quello di appassionati, la stella è una certificazione di un livello superiore, che dovrebbe trasformare il pasto in una “esperienza”. Non sempre però i criteri con cui le stelle vengono assegnate sono noti. Prima di tutto non esistono propriamente chef stellati, ma ristoranti stellati: un cuoco di un ristorante da tre stelle che cambi struttura non le porta con sé. A essere giudicato, poi, è solo il piatto, il cibo: servizio, fornitura della cantina, cura e arredamento della sala non sono rilevanti. O meglio, lo sono ma non per la stella: vengono valutati ma inseriti in altre categorie, ad esempio con il simbolo delle forchette (da una a cinque) per il servizio.
«Per le stelle conta solo il piatto, e viene giudicato secondo cinque categorie che sono sempre le stesse, da sempre» dice al Post un collaboratore della guida, che partecipa a test supplementari, oltre a quelli degli ispettori, e che per questo deve rimanere anonimo.
Le categorie sono note: hanno 1 stella 335 ristoranti in Italia, due stelle 38 ristoranti, tre stelle 12 (siamo il terzo paese per numero di stellati dopo Francia e Giappone). Le stelle sono talvolta erroneamente indicate come “macaron”, perché la loro forma ricorda proprio una varietà di questi dolci francesi (l’informazione falsa che fosse quello il disegno originale è stata più volte riportata). I criteri su cui i piatti vengono valutati sono invece la qualità dei prodotti, la tecnica di esecuzione, la personalità dello chef (che emerge dal piatto), il rapporto qualità-prezzo, la regolarità e costanza nel tempo. L’ultimo criterio implica che ogni ristorante che possa meritare di entrare nell’ambito degli stellati debba essere valutato più volte in un anno, almeno tre o quattro.
Per farlo la guida si basa principalmente sul lavoro degli ispettori: si tratta di dipendenti a tempo pieno, che lavorano cinque o sei giorni la settimana e che inevitabilmente viaggiano molto e mangiano sempre in ottimi ristoranti, secondo un piano definito centralmente. Si tratta di persone con una formazione e talvolta esperienze lavorative nel settore, anche ex-chef che possono aver interrotto temporaneamente o definitivamente la loro attività. Scelgono spesso il menù degustazione, pagano e subito dopo compilano un rapporto approfondito rispondendo a domande predefinite. In base ai rapporti vengono poi prese decisioni collegiali. I nuovi seguono un apprendistato che può durare da tre a sei mesi affiancando un ispettore esperto. Attualmente in Italia sarebbero una ventina, ma da quattro-cinque anni, spiega il collaboratore della guida, si è attuata una riorganizzazione che porta più spesso a scambi internazionali degli ispettori.
Questa misura aumenta i costi, ma risponde a due fra le critiche ricorrenti riguardo ai giudizi e agli ispettori. Ampliare il gruppo e aumentare gli scambi evita infatti che i giudici siano riconoscibili e riconosciuti, perché costretti a più visite in uno stesso ristorante o in una stessa zona in pochi mesi. Maridati dice: «In effetti quando lavoravo in Olanda è capitato che lo riconoscessimo, spesso conta l’intuizione del maitre, o l’ispettore viene tradito da qualche domanda troppo specifica. Negli ultimi tempi è diventato più difficile, hanno smesso anche di venire da soli, danno meno nell’occhio». L’internazionalità dovrebbe favorire anche una prospettiva meno tradizionale, meno legata alle consuetudini del paese. Soprattutto nei primi anni in cui la guida uscì dai consueti confini i ristoranti premiati tendevano a essere un po’ troppo “francesi” o di gusto francese: fu un problema riscontrato soprattutto negli Stati Uniti.
Altre questioni problematiche sono di più difficile risoluzione e nascono dal fatto che l’identità degli ispettori sia sconosciuta e che le visite avvengano in incognito. Nel corso degli anni alcuni ristoratori che avevano perso la stella hanno accusato la guida di non aver realmente testato i ristoranti, o di averlo fatto superficialmente o di affidarsi a ispettori che non avrebbero la necessaria competenza.
Uno dei casi che fece più scalpore fu quello dello chef Marc Veyrat, che raccontò di aver passato sei mesi in depressione «pensando al peggio» dopo aver perso la terza stella e si impuntò richiedendo prove dei pagamenti che confermassero le visite: non le ottenne. Tre anni fa il cuoco Gianfranco Vissani fu molto critico con i criteri della Michelin dopo aver perso la seconda stella: «È una guida di compromessi, tutta pubblicità». Tim Zagat, fondatore di Zagat Survey, sistema di valutazione di ristoranti statunitense che edita guide piuttosto popolari, ha espresso dubbi ricorrenti: «Io contesto quest’idea di far passare come una cosa positiva il fatto che non si conosca l’identità di chi giudica. Dei critici gastronomici dei grandi giornali si conosce il background, difficile accettare giudizi sulle tue capacità se non sai da chi arrivano».
Il sistema Michelin fu messo in discussione soprattutto nel 2004 dall’uscita del libro L’ispettore si siede a tavola di Pascal Remy, in cui l’ispettore raccontava la sua esperienza di sedici anni di lavoro e denunciava visite molto meno frequenti di quanto dichiarato, un organico molto ridotto e un certo favoritismo nei confronti dei grandi chef più noti al pubblico. Un anno prima la guida era stata al centro di molte discussioni per il suicidio dello chef Bernard Loiseau, in un primo tempo erroneamente imputato dalla stampa a un declassamento del suo ristorante.
Da allora Michelin ha lavorato molto sulle pubbliche relazioni, per spiegare e giustificare le sue scelte editoriali. La ricerca del rinnovamento è passata anche dall’introduzione di nuove categorie, come la stella verde che premia i ristoranti impegnati in una cucina sostenibile (i criteri sono variegati e ovviamente molto discussi), dal potenziamento del sito ora aggiornato quotidianamente e da una maggiore attenzione al panorama gastronomico globale, anche per rispondere alla crescente popolarità della concorrente classifica World’s 50 Best Restaurants.
Ma la forza resta l’annuncio delle stelle, che ha effetti immediati e reali: cinque anni fa, la tavola calda Bouche à Oreille di Bourges, con menù da 12 euro e mezzo, fu indicata fra i nuovi ristoranti stellati, confusa con un omonimo ristorante dei dintorni di Parigi: per settimane, nonostante l’errore fosse poi stato corretto, fu piena non solo di giornalisti, ma anche di nuovi clienti.