Il breaking verso le Olimpiadi
Tra meno di due anni la pratica anche nota come breakdance farà il suo debutto olimpico, e intanto ci sono stati Europei, Mondiali e un suo “Super Bowl”
di Gabriele Gargantini
Mancano meno di due anni al debutto olimpico – a Parigi 2024 – del breaking, la pratica sportiva dell’attività anche nota come breakdance. E sono passati meno di due anni da quando fu deciso che il breaking sarebbe diventato uno sport olimpico e l’unica nuova disciplina delle prossime Olimpiadi estive. Nelle ultime settimane ci sono stati inoltre tre importanti eventi: i Mondiali di Seul, a ottobre; gli Europei di Manchester, a inizio novembre; e il Red Bull BC One di pochi giorni fa, a New York.
A ognuno di questi tre importanti eventi c’era l’Italia, accompagnata da Giuseppe Di Mauro, ex atleta di breaking e dal 2017 commissario tecnico della nazionale. Di Mauro, il cui nome d’arte (nel breaking quasi tutti ne hanno uno) è Kacyo. «Dalla strada siamo passati a prepararci con team di esperti che lavorano con atleti che alle Olimpiadi vanno da decenni» dice Di Mauro, secondo cui a livello di preparazione negli ultimi anni per il breaking «è cambiato tutto».
Il breaking ha avuto una storia parecchio vivace, spesso a metà tra molte cose: è nato a New York più di mezzo secolo fa come parte dell’hip hop, ma è diventato olimpico per iniziativa della WDSF, l’organo di governo della danza sportiva; è percepito inoltre come arte performativa e pratica culturale ma è anche, da tempo, un’attività agonistica e competitiva, che richiede grande preparazione e sforzo fisico e i cui più importanti eventi sono sponsorizzati da Red Bull; ed è anche una pratica che scegliendo di farsi olimpica ha seguito la strada dello skateboard e del surf anziché quella scelta dal parkour, che invece le Olimpiadi ha preferito evitarle.
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Il breaking è nato tra la fine degli anni Sessanta e i prima anni Settanta nel Bronx, il borough più a nord tra i cinque di New York — storicamente abitato soprattutto da afroamericani e portoricani — per fusione e integrazione di diverse discipline legate alla danza. Negli anni si è affermato come uno dei pilastri dell’hip hop insieme al rap, al writing (i graffiti) e al DJing. Si basa su una serie di movimenti dinamici, acrobatici e molto atletici, alcuni dei quali riconducibili alla ginnastica e alle arti marziali.
Sin da subito, la pratica del breaking fu intrinsecamente legata alla reazione di chi ballava, i B-boys e le B-girls, ai breaks, elementi musicali strumentali tipici del remix alla base dell’hip hop, a loro volta frutto dell’intuizione di uno dei DJ fondatori del genere, Kool Herc. Nonostante ancora oggi venga chiamata spesso breakdance o break dance (come in genere fu definita quando se ne iniziò a parlare fuori dall’hip hop), chi balla preferisce definirlo breaking, il nome che avrà anche alle Olimpiadi.
Nel breaking la competizione avviene all’interno di sfide, tra due persone o tra due crew, definite battles, battaglie, in cui chi balla reagisce a una musica che non ha scelto e che viene proposta da un DJ. Per determinare chi vince si valutano molti aspetti, legati alle abilità tecniche ma anche alla creatività con cui ballando si risponde alla musica e al ritmo, oltre che alle transizioni con cui si passa da un movimento all’altro.
Tra gli anni Ottanta e Novanta il breaking uscì dal Bronx e iniziò a essere praticato nel resto degli Stati Uniti e poi del mondo. Un importante ruolo nella sua diffusione lo ebbero i film: alcuni di grande successo come Saranno Famosi e Flashdance, ma anche film più di nicchia e specifici come Breakdance, del 1984.
Nel 2004 il breaking fu ballato in Vaticano davanti a Papa Giovanni Paolo II, e in una pubblicità del 2005 in cui voleva mostrare una versione “aggiornata” di un suo storico modello Volkswagen fece ballare a una versione digitale di Gene Kelly, su un remix della canzone “Singin’ in the Rain”, qualcosa di vagamente riconducibile alla break dance. Furono due segnali, tra tanti altri, che il breaking era diventato parecchio popolare.
Già dal 1990 esisteva inoltre la Battle of the Year (BOTY), una importante competizione di breaking organizzata in Germania, che nel 1991 fu vinta dalla crew Battle Squad, di cui facevano parte due italiani. È invece dal 2004 che Red Bull organizza, ogni anno in un paese diverso, il Red Bull BC One, una sorta di Super Bowl del breaking e un evento con un’impostazione molto simile a quella che sarà usata anche alle Olimpiadi.
Alle Olimpiadi, il breaking arriverà grazie alla WDSF, la World DanceSport Federation, che esiste dal 1957 e che è tra le federazioni riconosciute dal CIO, il Comitato Olimpico Internazionale. Così come per ogni federazione, è ovviamente nell’interesse della WDSF che una sua disciplina diventi olimpica. Prima di riuscirci col breaking non ce l’aveva però mai fatta, almeno in parte perché molte sue discipline, seppur diffuse e altamente competitive, sono piuttosto lontane dagli sport moderni, giovanili e se possibile urbani verso cui il CIO ha mostrato maggior interesse, nell’ottica di attirare nuovi sponsor e spettatori più giovani.
Fu quindi su iniziativa della WDSF – e in particolare di un suo consulente con un passato nel CIO – che il breaking fu proposto come possibile disciplina olimpica. Il tutto nonostante il breaking avesse deboli legami con la WDSF e nonostante gran parte dei membri della WDSF (e nessuno dei suoi dirigenti) avesse particolare familiarità con il breaking. In altre parole, per arrivare alle Olimpiadi il breaking dovette accettare il “passaggio” da un’associazione con cui aveva poco a che fare, e per portare una sua disciplina alle Olimpiadi la WDSF dovette scegliere una disciplina non granché “sua”.
La cosa non piacque a tutti: già nel 2017 alcune migliaia di persone vicine al mondo del breaking firmarono infatti una petizione in cui chiedevano al CIO di agire affinché «la WDSF togliesse le mani dall’hip hop». Nella petizione si leggeva: «Il CIO permetterebbe alla federazione di badminton di occuparsi di baseball? Non avrebbe nulla in contrario al fatto che la federazione per gli sport equestri si occupasse di corse automobilistiche?».
Prevalse tuttavia la linea di chi, pur a costo di qualche compromesso, vedeva nelle Olimpiadi un importante canale per far conoscere e crescere la disciplina, pur provando comunque a evitare che diventasse soltanto uno sport, slegato dalle sue origini culturali.
Il breaking fu annunciato come nuovo sport olimpico di Parigi 2024 nel dicembre del 2020, ma la prova generale che gli permise di arrivarci furono le Olimpiadi giovanili organizzate nel 2018 a Buenos Aires. Fu lì, come scrisse il Washington Post, che «il mondo olimpico considerò davvero e per la prima volta una danza come uno sport, oltre che la prima volta in cui per il breaking le Olimpiadi parvero un obiettivo possibile».
In vista delle Olimpiadi giovanili, il breaking – che già prima aveva fatto tentativi più autonomi ma parecchio meno efficaci per diventare olimpico – lavorò per codificare le sue regole, spesso diverse tra un evento e l’altro, e trovare una forma di valutazione da parte di giudici che fosse quanto più oggettiva possibile, pur senza tradire il fatto che ci fosse necessità di premiare vari aspetti espressivi e creativi e non solamente atletici.
Come raccontato da Deadspin nell’articolo intitolato Il breaking può diventare olimpico senza perdere la sua anima?, a Buenos Aires le gare di breaking si svolsero nello stesso campo delle partite di basket “tre contro tre” (sport che ha debuttato alle Olimpiadi di Tokyo e ci sarà anche a Parigi) in un contesto vivace e luminoso «con colori che ricordano quelli di un programma tv per ragazzi». Quel debutto fu presentato «come un successo» e le gare di breaking – peraltro molto adatte a essere trasmesse in televisione e di grande effetto sui social – furono presentate come le più seguite tra le discipline al debutto a quelle Olimpiadi giovanili.
Oltre a essere giovane e percepito come fresco e culturalmente intrigante, il breaking aveva dalla sua il fatto di aver bisogno di pochi spazi e attrezzature (lo si può fare un po’ ovunque) e il poter essere disputato da singoli atleti in gare uno contro uno: per il CIO, aggiungere il breaking alle Olimpiadi significa, tra le altre cose, spendere pochissimo e inoltre contenere, come è nel suo interesse da alcune edizioni, il numero totale di atleti.
Visto che le Olimpiadi giovanili estive del 2022 sono state annullate a causa della pandemia, a livello olimpico il breaking passerà quindi direttamente, in soli sei anni, dalle sue prime Olimpiadi giovanili alle sue prime vere Olimpiadi estive.
A Parigi ci saranno 32 atleti in tutto: 16 B-boys e 16 B-girls, che si potranno qualificare grazie ai risultati ottenuti in eventi mondiali e continentali del 2023. Così come quelle di basket “tre contro tre”, BMX e skateboard, le gare saranno nel “parco urbano” di Place de la Concorde, nel pieno centro della capitale francese.
Alle Olimpiadi gli atleti e atlete, che di solito gareggiano usando nickname, si sfideranno in battaglie uno-contro-uno divisi in turni lunghi non più di un minuto, e saranno valutati da giudici che terranno conto, tra le altre cose, di creatività, personalità, tecnica, varietà, espressività e performatività. Non sceglieranno loro la musica su cui competere, che ormai da tempo non è riconducibile solo all’hip hop e in relazione alla quale già c’è dibattito sulle possibili libertà che saranno concesse ai DJ.
In ogni turno vengono alternati e integrati, tra le altre cose, le serie di movimenti principali della disciplina: il top rock (la parte eseguita stando in piedi), il down rock (i movimenti fatti a terra), i freeze (in cui ci si blocca, stando in equilibrio, in determinate posizioni), le power move (basate sulla rotazione attorno a un asse), i suicide (in cui si simula un’improvvisa caduta) e i flare, movimenti più da ginnasti.
Di Mauro dice che fino a qualche anno fa chi si avvicinava al breaking aveva più o meno 15 anni, mentre ora – dopo Buenos Aires e dopo che molti hanno aperto palestre o accademie per la breaking (lui ne ha una a Padova) – «il target si è abbassato» e la breaking è diventata, per molti, un’alternativa ad altri sport o altri tipi di danza. Come spiega Di Mauro, Antilai Sandrini, la migliore atleta italiana di breaking e tra le migliori al mondo, era arrivata a questa disciplina con «una base di ginnastica artistica, di kung fu e di cheerleading» ed è riuscita poi a trovare il suo «equilibrio» nel breaking.
Oltre alle ragioni del CIO e a prescindere dall’evidente interesse che quasi ogni sport ha nel diventare olimpico, dentro e fuori dal mondo del breaking chi ne sostiene l’introduzione a Parigi parla del suo essere, tra le tante altre cose, una disciplina fisicamente difficilissima, che richiede allenamenti intensi e sforzi fisici non comuni. C’è inoltre chi fa notare che, a ben vedere, non ha poi molto di diverso da pratiche come il pattinaggio artistico o il nuoto sincronizzato, la cui introduzione alle Olimpiadi del 1984 fu a sua volta criticata da chi lo vedeva come troppo performativo e poco sportivo.
Chi si dice contrario, cita in genere la scarsa o comunque marginale tradizione sportiva del breaking e vede come problematico il fatto che più che gli sport in sé il CIO sembri valutare il ritorno d’immagine che potrebbe garantirsi aggiungendoli.
«Come possono convivere sotto i cinque cerchi discipline dall’orientamento e dalla storia completamente in antitesi come la breakdance, il surf, la bmx» scrisse nel 2019 Elia Pagnoni sul Giornale «con discipline ottocentesche come il pentathlon moderno, la lotta grecoromana o il sollevamento pesi? Delle due l’una: o si va verso la modernità, e allora per evitare il gigantismo si aboliscono le discipline un po’ demodé, oppure si rispetta la tradizione e si evita di allargare i Giochi a qualsiasi moda del momento».
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Tra gli addetti ai lavori del breaking c’è inoltre chi ritiene che ci sia il concreto rischio di snaturarsi, codificarsi troppo e perdere così autenticità. Spesso si cita a questo proposito il caso del parkour, un’altra pratica urbana e “giovane” che è un po’ sport, un po’ espressione artistica e un po’ manifestazione culturale, e che qualche anno fa la Federazione internazionale di ginnastica provò a portare alle Olimpiadi, con grandi proteste da parte di chi vide in quella candidatura un preoccupante tentativo di appropriazione da parte di una federazione esterna e slegata dalle sue tradizioni.
Di Mauro è convinto che diventando sport olimpico il breaking abbia «chiuso un cerchio» aperto negli anni Ottanta con la sua internazionalizzazione, e che già si era ampliato negli anni Novanta con la sua trasformazione in competizione codificata. Si dice contento e soddisfatto di come «sta evolvendo il tutto» e di come oltre al CIO anche il CONI — il Comitato Olimpico Nazionale Italiano — abbia aperto le sue sedi e messo a disposizione del breaking competenze e strutture, rendendolo «un po’ più istituzionale» ma, secondo lui «sempre autentico». Già dal 2023, inoltre, così come succede per altri sport, anche alcuni atleti e alcune atlete della Nazionale italiana «entreranno nelle forze armate e avranno il loro stipendio per allenarsi e competere alle Olimpiadi».
Dice inoltre di non curarsi granché del modo in cui si chiama la disciplina: «Per un pioniere magari è diverso, ma io sono legato a quello che mi è arrivato da ragazzo, quando a livello mediatico se ne parlava come breakdance, quindi breaking o breakdance per me è la stessa cosa».