Alla COP27 si fatica a trovare un accordo
Sta per finire, ma le delegazioni sono divise su temi essenziali come le compensazioni per i paesi poveri e la riduzione nel consumo di combustibili fossili
A Sharm el-Sheikh, in Egitto, si sta per concludere la Conferenza sul clima delle Nazioni Unite (COP27) e – come avviene sempre a ridosso della chiusura di eventi di questo tipo – le varie delegazioni sono in ritardo nella preparazione del documento condiviso tra i paesi partecipanti su come proseguire le attività per limitare il riscaldamento globale e mitigarne i danni. Per il secondo anno consecutivo, dopo la COP26 di Glasgow, in Scozia, c’è l’impressione tra gli osservatori che il documento finale non conterrà grandi sorprese e progressi, con il rischio di avere perso ulteriormente tempo prezioso per affrontare l’emergenza climatica, i cui effetti sono sempre più evidenti.
Venerdì 18 novembre è formalmente l’ultimo giorno della COP27, ma come accaduto in passato i lavori proseguiranno almeno fino a sabato, prima di arrivare alla pubblicazione dei nuovi impegni. Il confronto si sta concentrando soprattutto su due argomenti: l’istituzione di un fondo compensativo per i paesi più poveri e che più subiscono gli effetti del cambiamento climatico; un impegno a ridurre sensibilmente l’impiego dei combustibili fossili oltre al carbone, in modo da immettere nell’atmosfera minori quantità di anidride carbonica e altri gas serra, principali responsabili del riscaldamento globale.
Combustibili fossili
Lo scorso anno la COP26 di Glasgow era iniziata con un certo ottimismo circa la possibilità di stabilire un piano chiaro e condiviso sull’eliminazione del carbone come fonte per produrre energia. Il carbone è tra i combustibili fossili più economici, ma è anche tra i più inquinanti soprattutto in rapporto alla sua resa.
I paesi economicamente più sviluppati erano pressoché concordi sull’eliminazione del carbone, anche perché negli ultimi anni il suo impiego si era sensibilmente ridotto. I paesi in via di sviluppo più grandi e potenti, come Cina e India, erano invece contrari, perché ancora oggi utilizzano numerose centrali a carbone per produrre l’energia elettrica, soprattutto per alimentare le loro attività industriali. Durante le trattative si arrivò a una situazione di stallo e l’unica soluzione fu cambiare una formulazione nel documento finale, non parlando più di “eliminazione” ma di “riduzione” dei consumi di carbone.
A complicare le cose nell’ultimo anno c’è stato l’aumento significativo del prezzo del gas naturale, che ha reso in alcuni casi necessario un maggior ricorso al carbone per produrre energia elettrica. Nonostante la temporaneità di questa situazione, l’aumento ha comunque un impatto sulle politiche energetiche e il passaggio all’impiego massiccio di fonti sostenibili.
Alla COP27 si è discusso di estendere il concetto di riduzione non solo al carbone, ma anche agli altri combustibili fossili come il petrolio e il gas naturale. In questo caso sono l’India e diversi altri paesi a chiedere l’estensione, mentre altri paesi sviluppati che dipendono ancora molto da gas e petrolio vorrebbero trovare formulazioni diverse. È probabile che per questo il documento finale non contenga riferimenti sui combustibili fossili molto diversi da quelli degli accordi finali della COP26.
Compensazioni
Oltre ai combustibili fossili, l’argomento che ha portato a maggiori divisioni e attriti tra le delegazioni alla COP27 è quello dell’istituzione di un sistema di compensazioni economiche per i paesi più poveri maggiormente esposti agli effetti del cambiamento climatico. La possibilità di istituire un fondo a questo scopo è discussa da vari decenni, ma finora non ha mai portato a qualcosa di concreto.
I paesi più ricchi e sviluppati, cioè buona parte dell’Occidente, ritengono che un sistema di compensazioni potrebbe impegnarli per decenni se non per più di un secolo. L’idea è che siano infatti i paesi che più hanno inquinato finora a risarcire gli altri, che non potranno beneficiare delle medesime soluzioni inquinanti (e spesso più economiche di quelle sostenibili) per lo sviluppo delle loro attività produttive. Il fondo dovrebbe servire per finanziare le attività di mitigazione degli effetti del cambiamento climatico, come inondazioni, eventi atmosferici sempre più estremi o prolungati periodi di siccità, offrendo inoltre risorse per gestire la transizione energetica, cioè il passaggio a fonti di energia meno inquinanti.
Gli Stati Uniti non sono a favore di un fondo vero e proprio: sostengono che siano più utili iniziative dirette di aiuto senza i vincoli che comporterebbe un’iniziativa collettiva, magari coordinata dalle Nazioni Unite. Il governo di Joe Biden ha in parte ammorbidito questa posizione, ma dalle trattative a Sharm el-Sheikh non sono emerse chiare dichiarazioni per un maggiore impegno.
Dopo aver rimandato a lungo la questione, l’Unione Europea negli ultimi anni si è invece mostrata più aperta alla possibilità di istituire un fondo per gestire le compensazioni. La disponibilità è comunque vincolata alla partecipazione di altri grandi paesi all’iniziativa, a cominciare dalla Cina, uno dei più grandi produttori di anidride carbonica al mondo, proprio insieme a Stati Uniti e Unione Europea. Le richieste europee sono inoltre vincolate all’inserimento nel documento finale di chiari impegni sulla riduzione del consumo dei combustibili fossili e sul mantenere l’aumento della temperatura media globale al di sotto degli 1,5 °C rispetto all’epoca preindustriale.
1,5 °C
Alla COP27 si è discusso molto anche del limite degli 1,5 °C, stabilito nell’accordo di Parigi sette anni fa come scenario auspicabile e preferibile a quello di un aumento di 2 °C. Alla COP26 si era deciso di mantenere l’obiettivo tra gli impegni, con una dichiarazione che indicava come questo fosse «vivo, ma con un battito molto debole». All’inizio della conferenza di quest’anno, il segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres, aveva utilizzato toni molto più allarmati e netti, dicendo che l’umanità è «su un’autostrada verso un inferno climatico con un piede sull’acceleratore».
Molti esperti e osservatori ritengono che sia sempre più improbabile rispettare l’obiettivo di non superare gli 1,5 °C, considerato che il cambiamento climatico è ormai inevitabile e in corso. Al tempo stesso c’è la consapevolezza che qualsiasi iniziativa per ridurre il più possibile uno sforamento sia preziosa, visto che già solo un aumento di 2 °C avrebbe effetti molto gravi per molti ecosistemi, con una grande riduzione dei ghiacci polari, l’innalzamento del livello dei mari al punto da rendere inabitabili ampie zone costiere e contemporaneamente l’inaridimento di molte aree coltivate, inducendo milioni di persone a migrare, perché le coste sono tra le zone più abitate del pianeta.
La bozza del documento finale della COP27 su cui si stanno confrontando le delegazioni nelle ultime ore della conferenza non contiene riferimenti molto diversi rispetto all’accordo di Parigi in cui si parlava della necessità di rimanere «ben al di sotto» dei 2 °C e di impegnarsi il più possibile per tenersi sotto gli 1,5 °C. Una eccessiva enfasi nel documento sui 2 °C potrebbe portare alcuni paesi ad allentare le proprie politiche per ridurre la produzione di gas serra, con un ulteriore rallentamento verso l’obiettivo della “neutralità carbonica” o “emissioni zero”, per cui per ogni tonnellata di CO2 o di un altro gas serra che si diffonde nell’atmosfera se ne rimuove altrettanta.
Nella bozza del documento ci sono riferimenti che fanno intendere che i paesi industrializzati dovrebbero raggiungere le emissioni zero entro il 2030, invece del 2050 come stabilito da qualche anno. Appare però improbabile che simili riferimenti rimangano anche nella versione finale, considerato che già la scadenza del 2050 è vista dagli analisti come estremamente ottimistica. Secondo il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC) dell’ONU, le emissioni globali di gas serra dovrebbero essere ridotte del 45 per cento nel 2030, rispetto ai livelli del 2010.
I paesi più scettici sulla possibilità di mantenere l’aumento della temperatura media globale sotto gli 1,5 °C sono India e Cina, entrambi con un forte impatto sulle politiche ambientali, anche per l’influenza che hanno su altri paesi. Già prima dell’inizio della COP27 molti esperti avevano espresso preoccupazioni su una possibile revisione degli obiettivi legati all’aumento della temperatura.
Cina
Come da diversi anni alle conferenze sul clima, la Cina è stata tra i paesi osservati con più attenzione alla COP27. Negli anni della forte contrapposizione con Donald Trump, quando era presidente, i rapporti con gli Stati Uniti erano peggiorati sensibilmente e di conseguenza era diventato più difficile trovare politiche comuni contro il riscaldamento globale. Ora con Joe Biden i rapporti hanno iniziato a migliorare, come si è visto nel recente incontro tra il presidente statunitense e quello cinese Xi Jinping, ma mancano ancora piani condivisi che possano fare da modello anche per altri paesi.
Da tempo gli Stati Uniti vorrebbero che la Cina non fosse più considerata un paese in via di sviluppo, e che può quindi contare su un trattamento di un certo tipo per quanto riguarda le emissioni, ma come un paese sostanzialmente sviluppato e con una forte economia. Secondo alcune previsioni, entro l’inizio dei prossimi anni Trenta la Cina potrebbe superare gli Stati Uniti per quanto riguarda le emissioni complessive di anidride carbonica storicamente prodotte dai due paesi. Una ridefinizione della Cina si riallaccia alla possibilità che il paese dia maggiori contributi al fondo per le compensazioni, come chiesto anche dall’Unione Europea.