Il Veneto è pieno di capannoni inutili
Quelli vuoti sono 11mila, risultato di anni di edificazioni con pochi vincoli, e capire come riutilizzarli non è semplice
di Isaia Invernizzi
Quando c’era la possibilità di fare impresa con pochi vincoli e premure, gli imprenditori veneti non si risparmiavano. Dalla metà degli anni Cinquanta alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, in Veneto, vennero costruiti tanti capannoni, anzi tantissimi, in modo spesso disordinato e senza la consapevolezza delle conseguenze sull’ambiente e sul paesaggio, di cui oggi sono un elemento ubiquo.
Nelle altre regioni del Nord sono perlopiù concentrati in aree industriali, ma in Veneto sono più isolati, appaiati alle ville dei loro proprietari. Funzionali e quasi sempre brutti, contribuirono alla costruzione dello stereotipo dell’imprenditore veneto, con la fissa per gli schei, i soldi, e una dedizione totale al lavoro. Oggi moltissimi di quei capannoni sono vuoti, abbandonati, relitti di un’economia che ha fatto il suo tempo: e capire come recuperarli è complicato.
La dismissione di questo patrimonio edilizio e aziendale, legato in parte alla storia famigliare degli imprenditori, è un problema per gli amministratori locali e per le stesse associazioni degli industriali che da oltre un decennio, dopo la crisi del 2008, fanno i conti con i rapidi cambiamenti dovuti alla globalizzazione. Lo sviluppo ha rallentato, ma non si è mai fermato: ai capannoni “piccoli e belli”, per citare un altro stereotipo dell’economia veneta, si sono aggiunti i centri commerciali e gli enormi piazzali dei poli logistici.
Si è continuato a costruire, anche se in modo diverso rispetto al passato, con nuove esigenze e funzioni. Non è cambiata, tuttavia, la propensione a sfruttare le periferie dei paesi e quindi l’espansione nelle aree libere, a scapito dei campi coltivati.
Negli ultimi vent’anni la scelta di non sfruttare le aree industriali dismesse è stata una grave mancanza in tutte le regioni del Nord, ma soprattutto in Veneto, dove il frenetico sviluppo artigianale e industriale ha lasciato un’eredità preoccupante: ci sono infatti ben 92mila capannoni industriali, di cui 32mila soltanto nelle province di Padova e Treviso. Occupano 41.300 ettari di terreno, cioè quasi 60mila campi da calcio, il 20 per cento di tutto lo spazio edificato nella regione. Di questi, 11mila sono inutilizzati, vuoti. Con il passare degli anni sono diventati sempre meno funzionali, costosi da recuperare e perfino da demolire: per questo rimangono abbandonati.
Uno dei grandi limiti che hanno ostacolato lo sfruttamento di questo patrimonio immobiliare, stimato in 3,9 miliardi di euro, è che per i capannoni non esiste un vero e proprio servizio di domanda e offerta. Gli imprenditori che vogliono aprire nuove attività o espandersi hanno sempre trovato più conveniente costruire da zero, su terreni liberi: un po’ perché è effettivamente meno costoso, e in parte perché non è semplice trovare il posto giusto da riqualificare.
Assindustria Venetocentro, in sostanza la Confindustria delle province di Padova e Treviso, sta provando a risolvere questo problema con un nuovo servizio chiamato Capannoni OnOff. È una sorta di portale immobiliare dove le aziende possono cercare la struttura ideale per dimensioni, valore di mercato, distribuzione degli spazi, distanza da strade o autostrade e una serie di altre caratteristiche, con funzioni simili ai filtri di una piattaforma di annunci di case. È il primo servizio di questo tipo in Italia. Online dallo scorso marzo, finora sembra aver riscosso un buon successo tra gli imprenditori, anche se è presto per fare un bilancio.
Paola Carron, vicepresidente di Assindustria Venetocentro, spiega che il progetto è nato per la necessità di rimediare in modo concreto allo sviluppo caotico del passato. «La costruzione di fabbriche e capannoni ha contribuito in modo importante all’economia del paese, ma in molti casi ha contribuito anche a deturpare il territorio: ne siamo consapevoli», dice. Negli anni Sessanta e Settanta c’era una sensibilità molto diversa, sicuramente un’attenzione scarsa per le conseguenze ambientali e sociali di un’espansione incontrollata. La “polverizzazione” delle piccole imprese, come la chiama Carron, fa parte di una cultura imprenditoriale che ha cambiato il territorio in modo radicale. «Ora dobbiamo salvare quello che si può salvare», dice.
– Leggi anche: La logistica a Pavia occupa la campagna con la forza
Perfino l’associazione degli industriali, piuttosto influente in una regione come il Veneto, ha faticato a trovare dati e disponibilità indispensabili per realizzare il portale. Il lavoro è stato lungo e complicato soprattutto per via del fatto che i dati non ci sono o, quando ci sono, sono archiviati male, trascurati negli archivi dei comuni e delle province. Recuperarli e metterli in ordine è stata un’operazione complessa. È anche questo uno dei segnali della storica scarsa attenzione alla progettazione del territorio.
Se non altro questo lavoro ha consentito di individuare alcuni problemi finora poco considerati, come la necessità di aprire canali di trasmissione dei dati tra il catasto, l’Agenzia delle Entrate e i singoli comuni, altrimenti all’oscuro dei cambiamenti sul loro stesso territorio. Tecnici e funzionari che hanno lavorato a Capannoni OnOff si sono accorti, tra le altre cose, che in Veneto le normative urbanistiche sono datate, non adatte alla situazione attuale.
L’ultimo intervento della Regione risale al 2017 con la legge “per il contenimento del consumo di suolo” che dà una serie di indirizzi e vincoli ai piani urbanistici dei comuni. Finora i risultati si sono visti poco: secondo l’ultimo rapporto dell’istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA), nel 2021 il Veneto è stata la seconda regione italiana per consumo di suolo con 684 ettari occupati in un anno e l’11,9 per cento della superficie totale consumata. Con questa legge, la Regione ha assegnato ai comuni una quantità di suolo consumabile entro il 2050: in totale 9.575 ettari. Il presidente Luca Zaia ha detto che il consumo di suolo è ancora elevato, ma è diminuito negli ultimi anni, e ha assicurato che grazie alla legge del 2017 sarà raggiunto l’obiettivo del «consumo di suolo zero», in linea con le direttive europee.
I piani della Regione non sembrano essere molto coerenti rispetto alle dichiarazioni: la legge per contenere il consumo di suolo, infatti, ha mantenuto una serie di deroghe che consentono ai comuni di autorizzare nuove costruzioni, per esempio in aree produttive “di rilevanza sovracomunale” tra cui rientrano alcuni grandi poli logistici.
Le deroghe rendono di fatto la legge poco efficace e in un certo senso, escludendo dai vincoli alcuni grossi progetti, modificano la definizione stessa di consumo di suolo considerato come “risorsa ambientale fondamentale, limitata e non rinnovabile, dovuta all’occupazione di una superficie originariamente agricola, naturale o seminaturale con una copertura artificiale”. Questo problema è stato evidenziato nell’ultima indagine dell’ISPRA, secondo cui ovunque in Italia la definizione di consumo di suolo è incoerente con quella europea e nazionale. Ogni regione, insomma, conta gli ettari consumati in modo diverso.
In questo contesto così incerto a causa della mancanza di dati, le indagini su come cambia il territorio sono limitate. Alcuni degli studi più significativi sono stati fatti dal gruppo di ricerca chiamato “Cambiamenti climatici, territori, diversità”, del dipartimento di ingegneria civile edile ambientale (ICEA) dell’università di Padova. È guidato da Massimo De Marchi e composto da una decina tra ricercatrici e ricercatori, quasi tutti precari, che negli ultimi anni hanno osservato in particolare lo sviluppo di Padova, una delle città venete con tasso di consumo di suolo più elevato.
Le indagini partono da fotografie aeree scattate nel 1954, le più datate, confrontate con le più recenti, soprattutto immagini ottenute dai satelliti. Francesca Peroni, ricercatrice del gruppo, dice che una delle sfide più grandi è osservare il fenomeno dell’abbandono, cioè capire su larga scala quali sono gli edifici inutilizzati. A Padova, per esempio, ci sono molte grandi caserme abbandonate, difficili da recuperare. Se ne discute da tempo, e la popolazione è consapevole di questo problema, mentre per i capannoni è più difficile avviare un dibattito pubblico in quanto edifici privati.
L’unico modo per governare questo complesso processo di trasformazione del territorio è attraverso una progettazione più puntuale, che spetta alle istituzioni locali anche su spinta di progetti come Capannoni OnOff, in grado di orientare le scelte dei singoli. «In assenza di una politica chiara è impossibile che il mercato si possa autoregolare verso la sostenibilità», dice Salvatore Pappalardo, un altro docente che fa parte del gruppo di ricerca. «Senza fare allarmismi, bisogna ribadire che il consumo di suolo ha una serie di conseguenze, tra cui l’aumento degli effetti di eventi meteorologici estremi».
Nonostante ci sia una maggiore conoscenza dei problemi causati dal consumo di suolo e dalla cattiva pianificazione del territorio, è ancora difficile diffondere tra le istituzioni e tra la popolazione la necessità di guidare lo sviluppo con più impegno e attenzione. In qualche modo la pandemia ha contribuito a portare alla luce alcune mancanze. «Grazie a un’indagine abbiamo scoperto che molti abitanti di Padova, durante le restrizioni agli spostamenti introdotte con il lockdown, si sono accorti di non avere aree verdi vicino a casa», dice Peroni. «È comunque un segnale, anche se piccolo».
Fermare il consumo di suolo in una regione come il Veneto, dicono i ricercatori, è molto difficile. Tuttavia è possibile limitarlo partendo proprio dal riutilizzo delle aree industriali dismesse e da meccanismi di compensazione, cioè con la realizzazione di nuove aree verdi per compensare le cementificazioni. Partire dai capannoni inutilizzati, come in parte si sta cercando di fare in Veneto con molte difficoltà e incertezze, può essere un modo per ripensare le politiche di pianificazione e non ripetere gli errori del passato.
– Leggi anche: Il tentativo di limitare lo sfruttamento nella logistica a Bologna