La cultura parziale dei capi delle aziende tecnologiche della Silicon Valley
L’approccio ingegneristico all'analisi e alla soluzione dei problemi è un tratto comune di un ristretto gruppo di persone con un enorme potere di influenzare il mondo
Una serie di vicende recenti molto commentate a proposito della crisi del settore tecnologico – dai licenziamenti di migliaia di dipendenti in Meta al fallimento dell’azienda di scambio di criptovalute FTX al caos in Twitter dopo l’acquisizione da parte di Elon Musk – ha fatto tornare di attualità riflessioni diffuse da tempo sui valori condivisi, sui modelli di business e sull’organizzazione del lavoro all’interno di diverse grandi aziende tecnologiche della Silicon Valley.
Alcune analisi si sono concentrate in particolare sui leader di queste aziende, diversi tra loro per tantissimi aspetti ma in molti casi accomunati dall’essere considerati geni miliardari. E più o meno tutti apparentemente collegati da un certo approccio ingegneristico alla soluzione dei problemi: approccio tendenzialmente molto valorizzato e apprezzato, negli Stati Uniti e non solo, per la capacità di stimolare innovazione e generare profitti, ma allo stesso tempo caratterizzato da alcuni limiti emersi nel corso del tempo.
In passato la mancanza di diversità e di una più appropriata rappresentanza della popolazione, nelle aziende tecnologiche statunitensi come nelle istituzioni, è stata descritta in generale come uno dei problemi che interessano sia le classi dirigenti che i dipendenti. Un’attenzione più specifica, a margine di queste riflessioni, è stata destinata alla mancanza di eterogeneità nei percorsi di formazione scolastica e accademica delle persone che fondano le aziende o comunque finiscono per guidarle.
L’assenza di una cultura umanistica all’interno di quei percorsi, perlopiù incentrati sulle materie scientifico-tecnologiche, è considerata da alcuni commentatori e autori di saggi, tra cui ex dipendenti di aziende della Silicon Valley, una concausa dei limiti dell’approccio ai problemi all’interno delle aziende. Una consapevolezza della mancanza di approcci alla conoscenza più filosofici, artistici e letterari, e meno ingegneristici, esiste peraltro all’interno delle aziende stesse, attestata da un’attenzione crescente da tempo verso i laureati in discipline umanistiche nei processi di assunzione.
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Questo tentativo di diversificare e integrare le conoscenze diffuse all’interno delle aziende non ha tuttavia determinato cambiamenti sostanziali a livello dirigenziale. Ruoli apicali che in altri tempi erano accessibili a persone con formazioni di vario tipo, nel caso delle grandi aziende tecnologiche sono oggi occupati nella maggioranza dei casi da ingegneri le cui abilità e competenze sono largamente incentivate dal sistema scolastico e universitario, oltre che da quello economico. E sono generalmente considerate qualità fondamentali e più importanti rispetto ad altre, per quei ruoli: cosa che però determina nel complesso una sostanziale uniformità di approcci, una parzialità dei punti di vista e un restringimento delle prospettive di progresso economico e sociale a lungo termine, sia per le aziende che per i molti contesti profondamente influenzati dai prodotti di quelle aziende.
A rendere particolarmente rilevanti le riflessioni su questo fenomeno è il fatto che i CEO e i dirigenti in questione, ai vertici delle grandi aziende tecnologiche della Silicon Valley, hanno raggiunto in molti casi poteri e capacità di influenza straordinari sulla politica e sulla società. Il mondo non sarebbe lo stesso se non ci fosse stato Facebook e se Mark Zuckerberg non avesse deciso di costruirlo e amministrarlo in un certo modo; lo stesso forse si potrà dire di Twitter ed Elon Musk tra alcuni anni. E perciò i limiti umani, culturali e dirigenziali dei capi delle grandi aziende tecnologiche hanno un rilievo pubblico notevole, perché da molti punti di vista sono anche i limiti della nostra società, che si poggia anche sui prodotti del loro lavoro e delle loro decisioni.
A monte esiste evidentemente un problema di concentrazione del potere: è infatti secondo moltissime analisi inaccettabile che una così grande capacità di influenzare la società dipenda da così poche persone, in molti casi da una sola persona. Le proposte politiche di limitare i monopoli nel settore tecnologico non hanno avuto molto successo negli Stati Uniti, col risultato che aziende come Meta, Google, Apple o Amazon hanno capacità di plasmare la società in molti suoi aspetti che prima di un decennio fa non aveva mai avuto nessun altro. In mancanza o in attesa di concreti progetti politici per intervenire su questo aspetto, però, molte analisi si sono concentrate su come la formazione e l’istruzione di queste persone influenzino le modalità con cui decidono di gestire le loro aziende, e di conseguenza di agire sul mondo.
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Come descritto dalla ricercatrice svedese in economia e ingegneria industriale Annika Steiber e dal suo collega Sverker Alänge nel libro del 2015 The Silicon Valley Model, le culture aziendali costruite da alcune società tra cui Google, Facebook, Tesla, LinkedIn e Twitter hanno molte caratteristiche in comune. Riprendendo nozioni proposte da altri studiosi, Steiber e Alänge definiscono «cultura aziendale» il «sistema di credenze condivise» appreso dal gruppo mentre risolveva i suoi «problemi di adattamento esterno e di integrazione interna», e che viene insegnato anche ai nuovi dipendenti «come il modo corretto di percepire, pensare e sentire in relazione a quei problemi».
Ma le culture aziendali non nascono dal nulla, né esistono in astratto, scrivono Steiber e Alänge. E una delle principali fonti di influenza di quelle culture – oltre all’ambiente esterno – sono i fondatori delle aziende, che spesso ne sono anche i capi. Sono loro ad avviare piani di assunzione di nuovo personale tenendo bene a mente una serie di convinzioni basate sulle loro precedenti esperienze e sulla cultura aziendale in cui sono cresciuti.
Molti fondatori di aziende della Silicon Valley sono «imprenditori seriali», fanno notare Steiber e Alänge, oppure avevano lavorato in altre start-up prima di fondarne una propria. Prima di fondare Tesla, per esempio, Elon Musk aveva cofondato la società di software Zip2, quella di servizi finanziari online X.com (che si fuse poi con un’altra azienda dando origine a PayPal) e la società di veicoli spaziali SpaceX, oggi nota in tutto il mondo. I casi di studio citati da Steiber e Alänge sono accomunati da fondatori che cercarono di reclutare da subito persone con «una passione e una mentalità simile alla loro».
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Nessuno dei fondatori aveva un Master of Business Administration – MBA, una laurea specialistica per la gestione di aziende – e tutti avevano distinti tipi di formazione ed esperienza che trasferirono in qualche modo nella cultura delle loro aziende. Una caratteristica comune a tutti – e molto significativa, secondo Steiber e Alänge – è la «profonda conoscenza dello sviluppo del software», basata su un’esperienza pratica di programmazione in codice informatico portata avanti fin da ragazzini.
Musk vendette il suo primo software, un programma per videogiochi che aveva scritto, quando aveva appena 12 anni. Mark Zuckerberg, già noto per essere un abile programmatore di software quando entrò a Harvard, sviluppò e avviò il sito di Facebook a 19 anni, per poi lasciare l’università. I cofondatori di Twitter Jack Dorsey, Evan Clark Williams, Biz Stone e Noah Glass erano tutti fenomeni nella programmazione di software: a 14 anni Dorsey aveva sviluppato un programma gestionale open source per compagnie di taxi.
L’istruzione superiore dei fondatori e cofondatori delle grandi aziende tecnologiche varia molto: alcuni hanno lauree o dottorati di ricerca in materie scientifiche, altri non hanno concluso gli studi universitari. In generale, sono abbastanza rari i casi di studi umanistici o conoscenze approfondite di materie diverse dalle scienze esatte. Esistono delle parziali eccezioni, come nel caso di LinkedIn: il fondatore Reid Hoffman ha una laurea magistrale in filosofia, presa dopo quella in scienze cognitive alla Stanford University, mentre il cofondatore e vicepresidente Allen Blue ha una laurea in arte drammatica ottenuta anche lui a Stanford.
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Secondo l’investitore statunitense Scott Hartley, ex dipendente di Google e Facebook e autore del libro del 2017 The Fuzzy and the Techie: Why the Liberal Arts Will Rule the Digital World, altri esempi di competenze trasversali all’interno delle aziende tecnologiche dimostrano quanto possa rivelarsi utile in quell’ambito lo studio di discipline diverse dall’informatica.
Il fondatore della piattaforma di collaborazione aziendale Slack, Stewart Butterfield, ha approfonditi studi di filosofia: ha una laurea alla University of Victoria, in Canada, e una magistrale al Clare College, a Cambridge. Il cofondatore di Pinterest Ben Silbermann ha studiato scienze politiche a Yale, la CEO di YouTube Susan Wojcicki ha studiato arte e letteratura a Harvard, e i fondatori di Airbnb Joe Gebbia e Brian Chesky hanno studiato arte alla Rhode Island School of Design.
Secondo un gergo diffuso nelle università americane dagli anni Sessanta e appreso da Hartley durante i suoi anni di studio alla Stanford University, dove si laureò in scienze politiche nel 2005, i «fuzzy» sono i laureati in discipline umanistiche e scienze sociali, e i «techie» quelli specializzati in materie scientifico-tecnologiche (spesso indicate con l’acronimo STEM: scienza, tecnologia, ingegneria e matematica). Per Hartley la tecnologia non dovrebbe mai essere studiata separatamente dalle arti liberali, cioè quelle associate nella tradizione classica al lavoro intellettuale e svolto dalle persone libere (in contrapposizione ai mestieri meccanici svolti dagli schiavi e che richiedono abilità tecniche e pratiche).
Come scrisse nel 2014 Scott Samuelson, insegnante di filosofia al Kirkwood Community College in Iowa (i community college statunitensi sono università gratuite o quasi, della durata di due anni), in un articolo sull’Atlantic intitolato Perché insegno Platone agli idraulici, «dovremmo sforzarci di essere una società di persone libere, non semplicemente una società di manager e impiegati ben remunerati». E bisognerebbe sempre tenere a mente la ragione per cui, storicamente, lo studio delle arti liberali fu un privilegio della classe aristocratica: permetteva ai suoi membri di acquisire «le capacità per pensare da soli», essendo quei membri destinati a occupare per diritto di nascita posizioni di leadership nella politica e nel mercato.
Mentre la tecnologia è sempre più spesso la parte facile del lavoro delle grandi aziende, afferma Hartley, capire come usare la tecnologia per risolvere problemi umani su larga scala è la parte più difficile. E sebbene la compilazione del codice informatico sia una competenza fondamentale per sviluppare una tecnologia, capita che le persone più abili nel farlo abbiano carenze relative al «lato umano dell’implementazione della tecnologia».
Osservando per esempio la gestione di Facebook, soprattutto in seguito agli scandali e alle maggiori pressioni e attenzioni da parte della politica seguiti alle presidenziali americane del 2016, molti commentatori avevano notato come Zuckerberg sembrasse per molti versi inconsapevole delle enormi implicazioni che avevano raggiunto le modalità con cui veniva amministrata la sua azienda.
I suoi annunci e le sue analisi erano sembrati a molti indicare una limitata comprensione della portata dei problemi in ballo: l’integrità della democrazia più potente del mondo, per dirne una. E denunciavano un approccio per l’appunto ingegneristico alla soluzione di questi problemi: che, per capirsi, prevedeva più o meno esplicitamente l’esistenza di una soluzione esatta, sotto forma di un nuovo algoritmo o di un nuovo regolamento nella gestione dei contenuti, cosa per niente scontata e anzi piuttosto implausibile.
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Qualcosa di simile era successo anche quando Elon Musk si era offerto per aiutare le operazioni di soccorso dei bambini intrappolati nella grotta in Thailandia nel 2018. Dopo aver fatto appositi test in una piscina negli Stati Uniti, aveva suggerito che la soluzione migliore fosse usare delle apposite capsule in metallo in cui alloggiare i ragazzini per trasportarli in salvo. Le decine di specialisti al lavoro nella grotta avevano valutato come impraticabile questo progetto: le capsule si sarebbero incastrate in breve tempo negli stretti cunicoli della grotta, a differenza delle barelle più flessibili effettivamente utilizzate, che riuscirono perfettamente nell’intento. Irritato da come alcune persone avevano accolto il suo tentativo di aiuto, Musk si era addirittura accapigliato con un sub che stava lavorando nella grotta, a cui aveva finito per dare del pedofilo.
L’insistenza di Musk e una certa arroganza nella pretesa di poter trovare la soluzione a un problema su cui era già al lavoro molta gente più competente di lui non erano passate inosservate. In tanti avevano sottolineato come questo goffo tentativo rivelasse i limiti dell’approccio ai problemi tipico di molti dirigenti della Silicon Valley, convinti di poter arrivare a una soluzione radicale e profondamente innovativa per questioni di ogni tipo, sfruttando il proprio talento geniale già dimostrato in altri ambiti. Un atteggiamento probabilmente influenzato, oltre che dalla formazione ingegneristica di Musk, anche da una certa forma mentis diffusa in molti ambienti statunitensi, in cui alberga spesso la convinzione di avere il diritto ma anche il dovere di intervenire per risolvere i problemi del resto del mondo.
«I magnati della Silicon Valley sembrano credere di poter aggiustare quasi tutto, e sembrano confusi quando i loro tentativi di farlo non sono accolti con entusiasmo sfrenato», scrisse la sociologa e collaboratrice del New York Times Zeynep Tufekci. «Il modo di fare le cose nella Silicon Valley è un mix di ottimismo e fiducia che l’esperienza in un dominio possa essere trasferita senza problemi in un altro», commentò, individuando una diffusa incapacità di «sviluppare il rispetto per le competenze acquisite duramente in aree diverse dalla propria».
Man mano che la tecnologia è diventata sempre più parte della vita quotidiana di miliardi di persone, insomma, sono aumentate anche le riflessioni preoccupate sull’influenza smisurata delle aziende e sulle più ampie ripercussioni di eventuali errori dei loro dirigenti. Una più approfondita conoscenza delle materie umanistiche, in alcuni casi, è stata considerata un possibile fattore per limitare quegli errori su questioni etiche molto complesse.
«Forse le cose sarebbero diverse se Mark Zuckerberg avesse una laurea in arti liberali o avesse seguito più corsi in scienze umane», disse nel 2018 Paula Krebs, direttrice esecutiva della Modern Language Association, associazione che riunisce studiosi ed esperti statunitensi in lingue e letterature moderne. Opinioni simili alla sua sono peraltro condivise sia da autori come John Naughton, giornalista britannico e ricercatore al Centre for Research in the Arts, Social Sciences and Humanities a Cambridge, che da persone che lavorano o hanno lavorato nella Silicon Valley come Tracy Chou, informatica e attivista statunitense ex dipendente di Pinterest e Quora.
Però secondo un argomento diffuso a lungo nello scorso decennio e in parte ancora oggi, scrive Hartley, «leggere romanzi e poesie, riprendere discussioni della filosofia classica o studiare la storia della Rivoluzione francese o la cultura di una remota comunità insulare non garantisce un lavoro dignitoso nell’odierna economia guidata dalla tecnologia, e certamente non in quella del futuro».
Nel 2011 il cofondatore di Microsoft Bill Gates sostenne qualcosa di simile: in un contestato discorso a un gruppo di governatori americani parlò della necessità di investire più risorse nell’istruzione superiore delle materie STEM, a suo avviso maggiormente in grado di garantire alle persone posti di lavoro ben retribuiti, a differenza delle materie umanistiche. E nel 2012 l’investitore americano Marc Andreessen, fondatore di uno dei primi browser (Netscape), scherzò sul fatto che le persone avrebbero fatto meglio a laurearsi in materie scientifico-tecnologiche se non volevano «finire a lavorare nei negozi di scarpe».
Sono posizioni diffuse negli Stati Uniti ma anche in altri paesi, sostenute per lungo tempo da molti manager e leader di aziende famose ma oggi largamente mitigate da approcci più attenti a una formazione culturale che sia il più possibile completa.
Certamente, secondo Hartley, il valore di un’istruzione STEM di alto livello, intesa non soltanto come l’apprendimento dei linguaggi di programmazione per computer ma come l’acquisizione di nozioni fondamentali nel campo dell’ingegneria, non dovrebbe mai essere sottovalutato. Tanto meno nei mercati in cui esiste una carenza di professionisti dotati di queste abilità e competenze. Ma quel tipo di istruzione dovrebbe includere anziché escludere lo sviluppo di altre abilità, e bisognerebbe evitare di «addestrare legioni di persone a svolgere compiti di tecnologia professionale rigidamente prescritti»: gli studenti possono eccellere in più ambiti allo stesso tempo.
«Il dibattito su STEM e arti liberali ha oscurato il fatto che le cosiddette scienze applicate, come la biologia, la chimica, la fisica e la matematica, sono una componente fondamentale del canone delle arti liberali, e che in molti casi anche l’informatica è stata aggiunta al canone», scrive Hartley in The Fuzzy and the Techie.
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Negli ultimi anni lo studio delle materie umanistiche in ambito anglosassone – da sempre valorizzato in contesti altamente specializzati – è molto apprezzato anche in ambienti professionali in cui fino a poco tempo prima esistevano reticenze, pregiudizi e una maggiore attenzione alle materie scientifiche e tecnologiche. Secondo uno degli argomenti più diffusi ancora oggi, le discipline umanistiche permettono di acquisire abilità fondamentali come il pensiero critico, l’argomentazione logica, la creatività e l’intelligenza socio-emotiva.
Ma il singolo argomento più importante a sostegno dell’educazione alle arti liberali, secondo Hartley, è che «le scienze umane e sociali sono dedicate allo studio della natura umana e della natura delle nostre comunità e società più ampie». Le persone che studiano quelle discipline tendono a essere particolarmente motivate a «indagare su ciò che ci rende umani: come ci comportiamo e perché ci comportiamo in un certo modo». Sono indotte a «esplorare come le nostre famiglie e le nostre istituzioni pubbliche, le nostre scuole e i nostri sistemi giudiziari, funzionano e potrebbero funzionare meglio», e «come funzionano i governi e le economie o, come spesso accade, funzionano male».
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Altri autori hanno però contestato l’idea che lo studio delle materie umanistiche sarebbe sufficiente a garantire una migliore qualità “etica” dei dirigenti delle grandi aziende tecnologiche, o a impedire che realizzino algoritmi sessisti o software di riconoscimento facciale razzisti. E lo dimostrerebbero peraltro i pochi esempi di istruzione superiore in materie umanistiche diffusa tra alcuni dirigenti.
La laurea in arte e letteratura a Harvard della CEO Wojcicki, per esempio, non ha impedito a YouTube di creare algoritmi che promuovono la radicalizzazione politica, scrisse sul Washington Post il politologo statunitense Paul Musgrave, che insegna alla University of Massachusetts Amherst.
L’idea che avere un maggior numero di ingegneri e progettisti di software con una più approfondita conoscenza di materie umanistiche possa rendere più improbabile la realizzazione di tecnologie disfunzionali sembra ragionevole, secondo Musgrave, perché si basa sul presupposto che quegli innovatori «non siano immersi nel giusto tipo di cultura». Ma alcuni dati citati da Musgrave sull’integrazione delle materie STEM e umanistiche nell’istruzione superiore mostrano prove limitate dell’impatto di quell’integrazione, e per lo più concentrate soltanto su un miglioramento del pensiero critico.
Per Musgrave l’aspetto che bisognerebbe invece tenere più in considerazione è l’etica dei comportamenti: comportamenti su cui le arti liberali e gli studi umanistici potrebbero avere scarsi effetti, e su cui sembrano invece averne molti di più il contesto economico e sociale. «Dopotutto, la mentalità della Silicon Valley produce una serie apparentemente infinita di tecnologie illiberali», scrisse Musgrave citando come incentivo alla produzione il fatto che quelle tecnologie – come, per esempio, i sistemi di sorveglianza utilizzati dalle forze dell’ordine – trovino poi ampio impiego nel settore pubblico.
Per quanto sia diffusa una narrazione secondo cui i capi della Silicon Valley realizzerebbero questi prodotti «perché la loro istruzione incompleta li ha resi ostili ai valori democratici», secondo Musgrave, «leggere l’Etica Nicomachea non renderà nessuno di loro più etico». Perché l’istruzione è importante ma non è il solo fattore che modella i comportamenti: «i leader di Google, Facebook e Amazon non rispondono alle lezioni apprese dai loro insegnanti, quando stabiliscono la strategia aziendale», ma «rispondono agli incentivi del mercato».