Cos’è l’inflazione, spiegato
Il prezzo di moltissimi beni sta aumentando, per ragioni diverse: una breve guida per capire una volta per tutte cosa sta succedendo
Negli ultimi mesi, e in tutto il mondo, i prezzi di moltissimi beni sono aumentati in maniera significativa. In gergo economico si dice quindi che c’è inflazione, che è il parametro che misura proprio gli aumenti dei prezzi di un insieme di prodotti e servizi rappresentativo del costo medio della vita.
A un livello accettabile, l’inflazione è una componente sana dell’economia. Ma in questi mesi si sono visti rincari notevoli, che non si vedevano dagli anni Settanta, generati anzitutto dall’aumento del costo dell’energia, causato dalla guerra in Ucraina, ma anche da tutte quelle conseguenze economiche della pandemia che hanno reso più costose e a volte introvabili molte materie prime. A questi livelli l’inflazione non è più sana e mette in difficoltà famiglie e imprese, aumentando le disuguaglianze e le iniquità.
A ottobre, l’inflazione nell’area dei paesi che adottano l’euro (la cosiddetta “Eurozona”) è stata pari al 10,7 per cento su base annua, il tasso più alto da quando esiste l’euro. In pratica vuol dire che se un bene lo scorso ottobre costava 100 euro, oggi ne costa 110,7, il 10,7 per cento in più, appunto. Questo valore è una media: ci sono paesi che hanno superato il 20 per cento, come l’Estonia, la Lettonia e la Lituania, altri hanno registrato un dato sopra il 10 per cento, come la Germania, il Belgio e l’Italia (dove siamo arrivati all’11,9 per cento), e altri sono rimasti sotto questa soglia, come la Francia e la Spagna. Sono cifre altissime: per capirci, la media degli ultimi dieci anni nell’Eurozona era stata di un valore annuo dell’1,3 per cento.
Anche negli Stati Uniti l’inflazione è cresciuta molto: è arrivata al 7,7 per cento a ottobre.
Come detto, l’inflazione rappresenta un aumento generalizzato del livello dei prezzi. Viene misurata periodicamente dagli istituti di statistica, che monitorano i prezzi dei beni e dei servizi più acquistati dal consumatore medio e che sono quindi rappresentativi del costo della vita. Si parla del cosiddetto “paniere di riferimento”, che periodicamente viene aggiornato dagli istituti di statistica per tenere conto dei cambiamenti culturali nei consumi.
In Italia l’ISTAT aggiorna il paniere ogni anno: per esempio nel 2022 sono entrati beni che prima della pandemia conoscevamo poco o non conoscevamo affatto, come i tamponi fai da te e il poke da asporto (un piatto a base di riso e pesce crudo tipico delle Hawaii, che significa “tagliato a pezzi” e che è diventato molto consumato nelle pause pranzo di chi lavora nelle grandi città italiane).
Quando è su livelli moderati, l’inflazione è una componente sana delle tradizionali dinamiche di mercato. L’aumento dei prezzi è normalmente associato a un’economia che va bene: senza complicare troppo le cose, si può dire che un’economia che cresce è quella in cui le aziende producono a un ritmo che impiega tanti lavoratori. C’è quindi poca disoccupazione e i salari sono in costante aumento proprio perché non ci sono molti lavoratori disoccupati e disposti a lavorare a fronte di una retribuzione bassa.
Con salari in crescita, cresce anche il costo per produrre beni e servizi; aumentano quindi i prezzi a cui le aziende vendono beni e servizi al consumatore finale, che allo stesso tempo guadagna uno stipendio sempre più alto. È un circolo virtuoso, che resta tale fino a che l’economia si “surriscalda” e i consumatori iniziano a domandare più beni e servizi di quanto le aziende siano in grado di produrre.
A questo punto si osserva quasi sempre un’inflazione oltre la media. Ed è un problema, perché durante le fasi inflattive non tutti i prezzi e i salari aumentano allo stesso modo. Per esempio, in molti paesi i pensionati ricevono un assegno non legato all’aumento dei prezzi e quando l’inflazione è alta perdono potere d’acquisto. Allo stesso modo, la maggior parte degli stipendi non si adegua automaticamente e istantaneamente all’aumento del costo della vita. Inoltre, le variazioni eccessive dei prezzi creano un clima di maggior incertezza generale, rendendo più difficile anche per le imprese prendere decisioni sul futuro.
Per evitare o limitare questo tipo di distorsioni, le banche centrali adottano delle politiche cercando di normalizzare l’economia e rallentare l’aumento dell’inflazione. Lo strumento tradizionalmente usato è l’aumento dei tassi di interesse di riferimento.
I tassi di interesse sono banalmente il prezzo del denaro: per prendere a prestito 100 euro da una banca, questa chiederà il pagamento di un tasso di interesse, quindi di un prezzo. I tassi di interesse di riferimento sono stabiliti dalle banche centrali. Se questi aumentano, prendere soldi a prestito diventerà meno conveniente: con tassi di interesse più alti si faranno meno mutui per comprare case, quindi se ne costruiranno di meno e ci saranno meno lavori di ristrutturazione, ci sarà meno bisogno di operai e alcuni di loro perderanno il lavoro. Quelli che perderanno il lavoro inizieranno a consumare meno, ed ecco che l’economia inizierà a rallentare verso un nuovo punto di equilibrio.
Questa è una normale dinamica dell’inflazione da domanda, che origina da sempre maggiori consumi. I prezzi però possono aumentare anche per altre cause.
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Se per svariati motivi produrre beni e servizi costa di più, si parla di inflazione dal lato dell’offerta. Per esempio, la pandemia aveva già reso più caro per le aziende reperire le materie prime necessarie alla produzione (si pensi al caso dei microchip e della carta).
La guerra in Ucraina ha poi peggiorato la situazione, soprattutto facendo aumentare enormemente il costo dell’energia e del gas. Infatti la Russia, che è il secondo produttore di gas naturale al mondo, ha costantemente ridotto le sue esportazioni di gas in risposta alle sanzioni inflitte dall’Occidente. La riduzione ha colpito soprattutto l’Europa, che importava il 40% del suo gas dalla Russia; al contrario, gli Stati Uniti sono più indipendenti a livello energetico e non ne hanno risentito troppo.
L’inflazione che osserviamo in questi mesi è un misto: c’è sicuramente una componente legata a un’economia che corre, dopo l’enorme rallentamento imposto dalle restrizioni dovute alla pandemia da coronavirus, ma c’è anche un’inflazione dal lato dell’offerta, dovuta soprattutto all’aumento dei prezzi dell’energia.
Per capire quanto pesano le due cause, e soprattutto per capire quanto sia diventato ormai strutturale l’aumento dei prezzi, si monitora la cosiddetta “inflazione di fondo”: si ottiene togliendo dall’inflazione complessiva la componente più volatile dei prezzi, ossia quella legata all’energia e ai beni alimentari, due mercati molto suscettibili a movimenti improvvisi.
L’inflazione di fondo nell’area dell’euro è pari al 6,4 per cento, contro un dato complessivo del 10,7; negli Stati Uniti l’inflazione di fondo è pari al 6,3 per cento, a fronte di un dato complessivo del 7,7.
Significa che l’aumento del costo dell’energia e dei beni alimentari spiega poco meno della metà dell’inflazione europea, mentre solo un quinto di quella statunitense. Se ne deduce che nell’area dell’euro ci troviamo di fronte a un’inflazione perlopiù da offerta, mentre negli Stati Uniti si tratta ormai di una classica inflazione da domanda ben radicata nell’economia.
Quando c’è inflazione si ha la percezione (che però è confermata dai dati) che con gli stessi redditi si possano comprare meno cose. È un fenomeno che colpisce tutti, perché i redditi e gli stipendi non si adeguano subito al carovita, ma pesa molto di più su chi ha redditi minori, ossia su chi destina la maggior parte delle proprie entrate ai consumi di sostentamento, come spese alimentari, medicine, bollette e così via.
L’ISTAT ha calcolato che a settembre l’inflazione per la fascia più povera della popolazione italiana è stata di quattro punti percentuali più alta rispetto alle famiglie più abbienti. Per questo viene chiamata comunemente “tassa sui poveri”, perché con i rincari il potere d’acquisto del loro reddito diventa ancora più basso e spesso si esaurisce.
Un fenomeno molto comune e legato all’inflazione è quello della cosiddetta “sgrammatura” (in inglese shrinkinflation): è una strategia commerciale con cui le aziende continuano a proporre i loro prodotti allo stesso prezzo, ma diminuendone marginalmente la quantità (per esempio si compra un pacco di pasta da 400 grammi invece dei soliti 500, ma allo stesso prezzo di prima). In questo modo il consumatore non vede l’aumento del prezzo, che emotivamente è più impattante nelle scelte, e spesso neanche si accorge della piccola riduzione della quantità.
In altri casi, invece, il prezzo della confezione subisce, seppur in misura limitata, un aumento a fronte della riduzione del suo contenuto.
È uno stratagemma che viene utilizzato per aumentare i prezzi in maniera poco trasparente, senza che un consumatore poco attento se ne accorga. Le associazioni dei consumatori sono molto critiche nei confronti di questa pratica, perché di fatto rende gli acquisti meno consapevoli. Per esempio, l’associazione Altroconsumo ha monitorato i prezzi e le quantità di alcuni marchi e ha segnalato che questa pratica è purtroppo piuttosto comune. Per questo, suggerisce l’associazione, nelle scelte di consumo è sempre bene fare attenzione al prezzo al chilogrammo o al litro (che si trova sulle etichette degli scaffali dei supermercati) in modo da non essere “ingannati” dai prezzi delle confezioni.
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