Come si moriva per i Mondiali in Qatar
Un giornalista indiano ha ricostruito le storie, con molti tratti comuni, di nove persone morte mentre lavoravano nel paese
In vista dell’inizio dei Mondiali di calcio in Qatar, Mihir Vasavda, giornalista del quotidiano indiano in lingua inglese Indian Express, ha ricostruito le storie di nove operai morti nel paese arabo mentre erano impiegati nella costruzione di alcune delle tante infrastrutture richieste per ospitare la manifestazione. Per farlo ha rintracciato in varie zone dell’India le loro famiglie, che hanno raccontato storie con molti tratti comuni.
I Mondiali in Qatar sono stati contestati fin dal giorno della loro assegnazione, definita «un errore» persino da Joseph Blatter, l’ex presidente della FIFA che la proclamò dodici anni fa. Le critiche e le denunce mosse in questi anni riguardano tutti i livelli della manifestazione, ma sono le questioni legate ai diritti delle minoranze e dei lavoratori ad averne attirate di più. Da anni giornali e organizzazioni non governative parlano di centinaia, se non addirittura di migliaia di operai morti, la maggior parte dei quali provenienti da India, Bangladesh, Sri Lanka e Nepal.
Quantificare con esattezza i numeri è ancora molto difficile, ma le circostanze descritte in questi anni sono ormai chiare. Per sostenere non solo l’assegnazione dei Mondiali, ma lo sviluppo urbano di un intero paese abitato all’epoca da meno di 2 milioni di persone (ora sono quasi 3 milioni) e in gran parte desertico, il Qatar ha avuto bisogno di manodopera dall’estero, fatta arrivare in massa da alcune delle zone più povere del mondo, e quindi a basso costo. In questo modo — e più di quanto era già accaduto nella costruzione degli stadi per i Mondiali in Russia — migliaia di operai sono stati ridotti di fatto a condizioni di schiavitù fin dal loro arrivo nel paese.
Le testimonianze raccolte da Vasavda raccontano tante sfaccettature della stessa storia, spesso accomunate da inganni, sfruttamenti e totale noncuranza delle vite umane. Sono nove ma riassumono quelle che sono state le condizioni di migliaia di lavoratori nel corso degli ultimi dieci anni.
Rajendra Prabhu Mandaloji, carpentiere di quarant’anni, raggiunse il Qatar nel 2016 attratto dalla promessa di un salario mensile di 2.700 riyal — l’equivalente di circa 700 euro — che sarebbe servito a saldare i debiti che la sua famiglia aveva in India. La moglie rimasta vedova ha spiegato però che il marito si rese conto che qualcosa non andava già al suo arrivo a Doha, quando scoprì che non c’era nessuno ad aspettarlo o perlomeno a condurlo verso i luoghi in cui avrebbe vissuto e lavorato. Successivamente gli fu presentato il suo vero contratto di lavoro, che prevedeva una paga di mille riyal, meno della metà dei 2.700 precedentemente pattuiti.
Le dure condizioni di lavoro, il salario inferiore a quello promesso — non sufficiente alle sue esigenze — e la lontananza forzata da casa portarono Mandaloji al suicidio, scrive Vasavda. La moglie lo venne a sapere da una chiamata di un collega indiano in Qatar: «Dopo la sua morte i datori di lavoro ci chiesero di pagare 500mila rupie (più di 6mila euro) per trasportare il corpo in India. Alla fine dovette intervenire l’ambasciata».
C’è poi la storia di Jagan Surukanti e Akhilesh Kumar, entrambi idraulici, rispettivamente di 32 e 22 anni. Stavano posando un tubo di drenaggio in una delle zone adiacenti allo stadio di Lusail, quello che ospiterà la finale dei Mondiali di calcio. Il 3 ottobre del 2021 Surukanti e Kumar si calarono in profondità per installare il tubo, ma la terra crollò sotto i loro piedi. Entrambi rimasero sepolti e morirono, come riportato nei referti, per «asfissia traumatica». Le famiglie lo vennero a sapere indirettamente da alcuni conoscenti e ricevettero le salme dopo oltre un mese. Ora hanno intentato causa in Qatar contro le società appaltatrici e chiedono risarcimenti.
Un anno prima, nel 2020, Abdul Majid era morto per cause che ancora oggi non sono state comunicate. Aveva 56 anni, era autista di mezzi pesanti, aveva lavorato in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi Uniti e nel 2014 si era trasferito in Qatar, dove la richiesta di autisti era molto alta, vista la quantità di cantieri aperti. I suoi familiari sostengono che non avesse grossi problemi di salute e furono quindi colti di sorpresa quando una chiamata di un supervisore li informò dell’avvenuta morte. Da allora sono passati due anni e la famiglia non ha ancora ricevuto né una spiegazione adeguata né alcun compenso, se non 125.000 rupie (circa 1.500 euro) per due mesi di stipendi arretrati.
Faceva l’autista anche Hardaljit Singh, 25 anni, che nel giugno del 2015 morì in un incidente stradale a Doha. La famiglia lo seppe una settimana dopo e aspettò più di un mese per avere il corpo. E riuscì ad averlo solo perché un loro conoscente fu in grado di occuparsene raccogliendo i soldi necessari a sbrigare le pratiche e garantire i trasporti. I datori di lavoro se ne disinteressarono completamente, ha raccontato la moglie, e non hanno mai comunicato nulla a riguardo.
La famiglia di Rada Chinna Ramoji, addetto alle pulizie morto a quarant’anni per arresto cardiaco, è l’unica ad aver ricevuto un qualche tipo di risarcimento fra quelle raggiunte da Vasavda: ma solo perché, prima di partire, Ramoji aveva stipulato una polizza assicurativa sulla vita valida per l’India. Nel 2014 era stato costretto ad accettare una delle tante offerte di lavoro provenienti dal Qatar perché senza alcuna fonte di reddito, e una moglie e due figli a carico. Passò sette anni lavorando dodici ore al giorno per un massimo di 15.000 rupie, circa 180 euro. Il 25 gennaio del 2021 stava aspettando l’autobus per tornare al suo alloggio quando ebbe l’infarto che ne provocò la morte.
Soltanto nel 2020 — cioè a grandi opere quasi terminate — il governo qatariota ha approvato una riforma del lavoro volta a migliorare le condizioni di vita dei circa due milioni di lavoratori migranti impiegati nel paese. Da allora agli operai è consentito lasciare o cambiare il posto di lavoro senza il permesso della propria azienda, come accadeva in precedenza secondo il sistema locale della kafala. È stato inoltre riconosciuto loro un salario minimo mensile di 1.000 riyal (circa 230 euro) e ad altre piccole forme di indennità aggiuntive.
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