Perché il settore tecnologico è nei guai

Titoli che crollano in borsa, investitori che si ritirano, licenziamenti: c'entrano investimenti sbagliati e una situazione economica sfavorevole

Un'insegna con il logo di Meta, negli Stati Uniti (AP Photo/Tony Avelar)
Un'insegna con il logo di Meta, negli Stati Uniti (AP Photo/Tony Avelar)
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Dall’inizio dell’anno il settore tecnologico ha mostrato segni evidenti di crisi, dopo anni di crescita sostenuta che si pensava non potesse più interrompersi. Da qualche tempo le cose sembrano andare sempre peggio: sia perché con la pandemia queste aziende sono state incredibilmente sopravvalutate, soprattutto in borsa, dove ora iniziano a deludere le aspettative; sia perché con una recessione in vista è plausibile che gli investitori siano un po’ più cauti con il proprio denaro.

Al di là di quello che succede attorno, sembra in crisi lo stesso modello di business di queste aziende, che in alcuni casi hanno scontato decisioni sbagliate. I ricavi, soprattutto quelli pubblicitari (su cui si basa gran parte del loro giro di affari), sono in calo un po’ ovunque: non si tratta solo di quelli delle start up, ma anche dei colossi del settore tecnologico, come Meta (l’azienda di Facebook, Instagram e WhatsApp), Microsoft, Alphabet (il gruppo a cui fa capo Google) e Twitter. E ora queste grosse aziende stanno iniziando a licenziare i propri dipendenti, proprio dopo due anni in cui gli organici si erano notevolmente allargati.

Secondo Layoffs.fyi, un sito che tiene monitorati i licenziamenti nelle startup, da inizio anno sono stati oltre 100 mila i dipendenti licenziati nel settore.

Meta affronterà il più grande taglio del personale da quando esiste: dopo che a settembre aveva già bloccato le assunzioni, ora ha annunciato che licenzierà il 13 per cento dei suoi dipendenti, circa 11 mila persone. E quasi la metà degli 87mila dipendenti attuali sono stati assunti dal 2020 a oggi, grazie alla crescita negli anni della pandemia. Il fondatore Mark Zuckerberg, nella lettera ai suoi dipendenti, si è preso la responsabilità della decisione, scrivendo che «sfortunatamente, le cose non sono andate nel modo in cui mi ero immaginato», a causa di un contesto economico in peggioramento e di una crescita del settore che dopo la pandemia si è fermata.

Twitter, una settimana dopo l’acquisto da parte di Elon Musk, ha dimezzato il personale, licenziando 3700 dei 7500 dipendenti, per risollevare i conti della società, che al momento perde quattro milioni di dollari al giorno. La mossa ha messo non poco in difficoltà la società, che ha poi dovuto richiamare decine e decine di dipendenti licenziati per errore.

La società del social network Snapchat in estate ha deciso un taglio del 20 per cento del personale, più di un migliaio di posti di lavoro, per tamponare le perdite strutturali. Lyft, la app di trasporti privati, ha annunciato un taglio del 13 per cento della forza lavoro, che equivale a 650 dei circa 5 mila dipendenti. Robinhood, la società statunitense che gestisce l’omonima app per fare trading senza commissioni, licenzierà circa un quarto dei suoi dipendenti.

Amazon, la compagnia del settore tecnologico forse più legata all’economia “reale”, ha deciso di fermare le assunzioni, che da anni erano sempre state in costante aumento. Il motivo è legato all’incertezza dell’economia.

Stripe, la piattaforma di pagamenti elettronici, licenzierà il 14 per cento dei lavoratori, circa 1100 dipendenti. «Abbiamo assunto troppo per il mondo in cui siamo», hanno ammesso i fondatori dell’azienda, i fratelli Patrick e John Collison. L’errore è stato poi lo stesso di tante altre società del settore: si sono fatti tutti prendere la mano dalle attese di crescita e non sono riusciti a tenere sotto controllo i costi.

Durante la pandemia il ruolo della tecnologia era diventato più centrale a causa delle restrizioni e il settore ne aveva beneficiato notevolmente. Il Nasdaq, l’indice della borsa americana che più rappresenta l’andamento dei titoli informatici e tecnologici, negli anni 2020 e 2021 era cresciuto complessivamente dell’86 per cento.

Parte della crescita era stata sostenuta dal fatto che il settore aveva avuto accesso a flussi di denaro molto più alti che in passato. In risposta alla crisi pandemica, le banche centrali di tutto il mondo avevano dato un massiccio stimolo monetario all’economia: con immissioni enormi di liquidità nel mercato tramite l’acquisto di titoli, il cosiddetto quantitative easing, e la riduzione dei tassi di interesse di riferimento avevano reso il costo del denaro di fatto vicino allo zero.

Con il venire meno delle restrizioni oggi si è più o meno tornati alle vecchie abitudini: gli uffici si sono ripopolati, i ristoranti hanno riaperto e le misure di distanziamento fisico sono state quasi tutte eliminate. In più la crisi dei commerci mondiali, la scarsità di materie prime, l’inflazione e la guerra in Ucraina hanno creato molta incertezza e c’è il rischio concreto di una recessione economica. Anche per questo le banche centrali, per combattere l’aumento esagerato dei prezzi, stanno alzando i tassi di interesse.

Chi investe nel settore tecnologico è quindi diventato più attento non solo perché le abitudini di vita sono cambiate di nuovo, ma anche perché sembra che l’economia mondiale stia andando verso una recessione ed è diventato più costoso prendere denaro a prestito.

– Leggi anche: Perché le banche centrali aumentano i tassi di interesse

La finanza ci ha messo del suo nel sopravvalutare in questi anni le prospettive di crescita di queste aziende, con delle quotazioni che poco avevano a che fare con la realtà dei bilanci. Il repentino aumento dei tassi ha provocato grossi cali sui mercati finanziari: da inizio 2022 il Nasdaq ha perso il 32 per cento del suo valore e i titoli delle cinque grosse società tecnologiche quotate in borsa (Amazon, Alphabet, Meta, Apple e Microsoft) hanno perso oltre 3mila miliardi di dollari del loro valore (solo le azioni di Meta hanno perso oltre il 70 per cento).

È vero che si tratta di cali enormi, ma sono attutiti in parte dal fatto che partivano da valori altissimi. Negli anni della pandemia i titoli del settore tecnologico erano i migliori su cui investire: la percezione di chi comprava questi titoli era che la crescita del settore tecnologico non potesse mai fermarsi. Percezione che si è poi scontrata con la realtà dei bilanci delle aziende. A fine ottobre sono stati resi noti i conti relativi al terzo trimestre 2022 delle grosse società tecnologiche quotate in borsa: sono stati disastrosi.

Per esempio, Meta ha registrato il secondo calo consecutivo dei ricavi rispetto all’anno scorso e l’utile netto si è dimezzato, contro dei costi aziendali aumentati del 19 per cento. A fronte di questi dati, il valore delle azioni è crollato del 25 per cento. Alphabet, la holding che controlla Google, ha registrato un grosso calo di profitti: l’utile netto è stato di 13,9 miliardi di dollari, il 27 per cento in meno rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Le entrate sono aumentate del 6 per cento, arrivando a 69,1 miliardi di dollari, ma comunque decisamente meno di quanto avessero stimato gli analisti.

In entrambi i casi, il fattore determinante è stato il calo dei proventi che arrivano dalle inserzioni pubblicitarie, che sono ancora la principale fonte di reddito per questo settore. Sicuramente la situazione economica è al momento molto complessa e incerta, il che ha portato gli investitori a tagliare gli investimenti in pubblicità. Ma non si tratta solo di fattori congiunturali: in molti casi le aziende hanno pagato anche decisioni strategiche sbagliate.

Per esempio, Meta ha investito tantissimo nello sviluppo del metaverso, e Reality Labs, l’unità cui fanno capo i visori e lo sviluppo del metaverso stesso, ha incassato appena 285 milioni e, nei primi nove mesi dell’anno, ha già accumulato perdite per oltre 9 miliardi di dollari. Zuckerberg sta cercando nel metaverso un nuovo mercato da sfruttare che, per ora, non riesce a ingranare.

– Leggi anche: Nel metaverso per ora non c’è nessuno

Resta da valutare in futuro la strategia di Elon Musk di mettere a pagamento l’ottenimento della spunta blu, quel simbolo accanto al nome che il social network assegna solo agli account verificati. L’obiettivo è aumentare la redditività di un’azienda cronicamente in perdita. Secondo le stime più recenti, Twitter ha circa 400 mila utenti verificati. Se ognuno di loro pagasse 8 dollari al mese, come suggerito da Musk, l’azienda guadagnerebbe oltre 38 milioni di dollari all’anno. Se poi chiunque potesse pagare per essere verificato, i profitti sarebbero ancora più alti.

La mossa è controversa e apre a molti problemi. Molti esperti fanno notare che Twitter potrebbe diventare uno spazio ancora meno sicuro e affidabile se si dovesse permettere a chiunque di avere un account verificato. E che si perderebbe il senso stesso della verifica e della spunta blu.

Negli ultimi giorni molti importanti inserzionisti hanno già iniziato a ritirare i propri investimenti da Twitter, temendo che, sotto Musk, Twitter non avrà più le forze o la volontà di limitare la disinformazione e il linguaggio d’odio sulla piattaforma. Lo hanno già fatto tra le altre Volkswagen (il gruppo automobilistico tedesco che comprende Audi, Lamborghini, Bentley e Porsche), Carlsberg e Pfizer, temendo che le pubblicità del proprio brand compaiano vicino a contenuti problematici. In queste decisioni hanno avuto probabilmente un ruolo alcuni gruppi di attivisti che in questi giorni stanno facendo pressione sugli inserzionisti affinché abbandonino Twitter.

Negli ultimi giorni Musk ha insistito sul fatto che il sistema di moderazione dei contenuti e contrasto alla disinformazione non subirà cambiamenti, cercando di placare gli inserzionisti e convincerli a non tagliare gli investimenti. Ha anche detto in un tweet dai toni coloriti (poi rimosso) che l’azienda sta già subendo grosse perdite a causa di queste entrate mancate e che gli attivisti «stanno cercando di distruggere la libertà di opinione in America».

Un altro social network, finora in grossa ascesa, sta incontrando difficoltà: TikTok ha dovuto ridurre i suoi obiettivi di ricavi di almeno 2 miliardi di dollari. La società si era data target molto ambiziosi per quest’anno, contando di arrivare a fatturare tra i 12 e i 14 miliardi di dollari. Ma di fatto, nonostante sia ancora in crescita, sta accusando tutti i problemi legati al calo degli investimenti pubblicitari che stanno avendo i suoi concorrenti.

La crisi del settore tecnologico è trasversale e sta colpendo tutte le aziende. Lo dimostra anche il fatto che aziende più legate all’economia “reale”, come Microsoft, Apple e Amazon, siano in affanno. Per queste società, però, pesano tantissimo i timori per una recessione economica, più che strategie poco convincenti.

Microsoft nel terzo trimestre dell’anno ha avuto un fatturato appena in crescita. La debolezza si nota soprattutto nel segmento “consumer” (ossia utenti singoli e famiglie): si vendono pochi servizi legati alla Xbox; la domanda di pc è bassa e indebolisce i ricavi legati a Windows.

Anche Apple sta avendo parecchie difficoltà. Le vendite di iPhone continuano a essere in aumento, nel terzo trimestre del 2022 precisamente del 9 per cento in più rispetto allo scorso anno. Eppure, ci sono tantissime preoccupazioni intorno all’azienda. Innanzitutto, le vendite di iPhone continuano a valere oltre la metà del fatturato annuo e preoccupa molto il fatto che la società abbia detto di aspettarsi una fornitura ridotta dei nuovi modelli a causa delle restrizioni introdotte in Cina per la pandemia da coronavirus. In più, è tutta da dimostrare la disponibilità degli utenti a comprare un dispositivo costoso come l’ultimo modello, l’iPhone 14, proprio mentre i consumatori fanno i conti con l’inflazione e le incertezze sul futuro dell’economia.

Inoltre, le vendite dei servizi di Apple (come Apple TV, Apple Music, i contenuti a pagamento sull’App Store) stanno rallentando. Sono cresciute del 5 per cento, molto meno del passato. I servizi sono fondamentali perché rappresentano quasi un quarto dei ricavi, ma anche perché hanno margini di guadagno più ampi rispetto ai prodotti e sono meno soggetti alla stagionalità.

Anche in Amazon ci sono preoccupazioni per il futuro. Nel terzo trimestre il fatturato è aumentato del 15 per cento rispetto all’anno scorso e l’e-commerce, dopo due trimestri in calo, è tornato a crescere. Sono inquietanti però le stime per l’ultimo trimestre dell’anno, quando Amazon prevede di incassare tra i 140 e i 148 miliardi (che corrisponderebbero a una crescita tra il 2 e l’8 per cento), ma al di sotto dei 155 miliardi attesi dagli analisti. E si tratta del periodo più ricco per le vendite online, tra Black Friday e Natale. Il gruppo teme quindi che l’incertezza economica e l’inflazione, che pesano tantissimo sulle famiglie, freneranno gli acquisti online.

L’intero settore dovrà attrezzarsi per affrontare una fase molto dura, che comporterà notevoli cambiamenti strutturali. Secondo alcuni analisti, potrebbe essere un bene: il settore da troppo tempo ha perso di vista quali siano le sue vere fonti di guadagno, la pubblicità per i social network e servizi davvero utili a imprese e consumatori per le aziende di prodotto e di software. Secondo il Wall Street Journal, è tempo che la tecnologia torni a essere “noiosa” e che lasci stare le velleità costosissime che di fatto alle persone non interessano, come il metaverso e le macchine che si guidano da sole.

– Leggi anche: Perché si parla di una bolla delle start up, di nuovo