Come è stato misurato il tempo nello sport
Dai traguardi da tagliare ai transponder, dal quinto di secondo delle prime Olimpiadi al milionesimo di secondo delle ultime, molto è cambiato
Alla prima maratona olimpica moderna della storia, nel 1896 ad Atene, mentre i podisti percorrevano i 40 chilometri di gara, un giudice cronometrista li superò, pedalando lungo il percorso per portare al traguardo il cronometro con cui misurare il tempo del vincitore, il greco Spyridon Louis, che ci mise 2 ore 58 minuti e 15 secondi. Nel 1936, alle Olimpiadi invernali di Garmisch, le prime con lo sci alpino, i cronometristi alla partenza delle gare di discesa mandavano ai loro colleghi all’arrivo, attraverso gli sciatori in gara, bigliettini sui quali comunicavano l’orario di partenza degli sciatori precedenti, così che i giudici al traguardo – che si erano nel frattempo segnati l’orario esatto di arrivo – potessero calcolarne i tempi.
Calcolare e misurare con la maggior precisione possibile i tempi è insomma parte dello sport quasi da quando esiste lo sport. E se in certi casi la sfida principale è stata ingegnarsi su come portare un cronometro o un tempo da un punto all’altro, in molti altri la sfida è stata ridurre il margine di errore con cronometri sempre più precisi e con strumenti che, nel tempo, hanno preso il posto della misurazione umana.
Da ormai qualche anno esistono infatti strumenti sensibilissimi e cronometri che arrivano al milionesimo di secondo. Ma ancora ad Atene, nel 1896, quando i tempi erano presi “a mano” oltre che “a occhio”, i cronometri arrivavano al massimo al quinto di secondo. E ancora fino a poco più di cinquant’anni fa in molte discipline, perfino in alcune gare olimpiche dell’atletica leggera, ci si accontentava dei decimi di secondo.
Ancor più che le gare veloci di atletica, pattinaggio, nuoto, bob, ciclismo o automobilismo, a spingere per una sempre maggior precisione cronometrica fu probabilmente l’ippica per via delle scommesse che ci giravano attorno. E fu sempre nell’ippica che, come raccontato da Claudio Gregori per l’Enciclopedia dello sport di Treccani, già a fine Ottocento fu sperimentata «la prima fotografia istantanea all’arrivo di una corsa», quel che poi sarebbe diventato il fotofinish.
Nel Novecento, da Atene in poi, furono però soprattutto le Olimpiadi – prima quelle estive, poi anche quelle invernali – ad aprire di volta in volta nuove strade nella costante ricerca di maggior precisione nel rilevamento dei tempi. Già a Stoccolma, nel 1912, i tempi dell’atletica iniziarono a essere calcolati in decimi di secondo, peraltro con una partenza che non era più determinata manualmente bensì con un sistema automatico collegato alla pistola elettrica usata per dare il via. Gregori spiegò anche come, sempre nel primo Novecento, migliorò il sistema usato per determinare l’esatto momento di arrivo, che fino a quel momento veniva calcolato “a occhio”:
Per ridurre l’errore umano, all’inizio del secolo, in Svizzera, fu sperimentato le système du fil coupé, il sistema del filo spezzato. L’atleta, partendo, rompeva un filo che reggeva un peso: questo, cadendo, stabiliva un contatto elettrico. L’impulso era registrato da un cronografo sulla linea d’arrivo, dove un secondo filo, spezzato dall’atleta, arrestava la lancetta. Questo sistema automatico esordì con successo al concorso ginnico di Basilea nel 1912.
Il passaggio dai decimi ai centesimi di secondo fu graduale: nel bob, in cui si usava il sistema del filo spezzato, i tempi in centesimi c’erano già nel 1924 a Chamonix, in Francia, nelle prime Olimpiadi invernali della storia; in altre discipline, sia estive che invernali, i centesimi furono introdotti invece solo dopo la Seconda guerra mondiale.
Già negli anni Trenta, durante i quali l’azienda Omega divenne partner ufficiale delle Olimpiadi, c’erano sistemi per immortalare e se necessario andare a rivedere – dopo aver sviluppato le relative pellicole – i fotogrammi relativi ai finali di gara.
Fu però solo dalle Olimpiadi invernali del 1948, organizzate a St. Moritz, che arrivò il cosiddetto “Magic Eye”, un sistema che calcolava il momento di arrivo basandosi sul momento in cui il corpo di un atleta tagliava un fascio di luce. Di fatto, una fotocellula.
Più che la precisione dei cronometri, a un certo punto il problema principale fu trovare modi sempre più accurati di determinare il momento in cui una gara iniziava e finiva. È per questo che, oltre al fascio di luce che sostituì i più antichi fili, col tempo arrivarono anche i blocchi di partenza nell’atletica, i cancelletti di partenza nello sci e, dagli anni Sessanta, le piastre di contatto all’arrivo delle gare di nuoto, nelle quali l’acqua rendeva impossibile usare accuratamente il fotofinish.
È invece già dagli anni Settanta che, per misurare tempi e distacchi nell’automobilismo, in cui aumenta la velocità e di conseguenza anche l’importanza di ogni piccolissima differenza di tempo, furono introdotti i transponder: piccoli trasmettitori montati nelle monoposto che, mandando segnali radio su apposite frequenze, permettono di calcolare i loro tempi. Nella Formula 1, in cui fino agli anni Sessanta ancora si prendevano tempi fermandosi ai decimi di secondo e nella quale i millesimi arrivarono soltanto nel 1982, i transponder si usano dagli anni Settanta.
Un sistema simile viene usato oggi in gare di pattinaggio, ciclismo o corsa, talvolta anche in quelle amatoriali, per prendere con precisione i tempi di migliaia di partecipanti a un evento, per esempio con appositi chip nei pettorali di gara.
Trent’anni fa il sistema Scan-O-Vision di Omega permise, in diverse discipline, un’accuratezza fino ai millesimi di secondo, ma ciononostante ci sono anche casi in cui si è deciso di fermarsi ai centesimi, talvolta assegnando medaglie a pari merito o ricorrendo ad altri fattori per decidere le posizioni nel caso di tempi uguali.
Dalle Olimpiadi di Londra del 2012 Omega ha introdotto due cronometri – il Quantum Timer e il Quantum Aquatics Timer— capaci di arrivare fino al milionesimo di secondo, e sistemi di fotofinish in gradi di immortalare fino a diecimila immagini al secondo.
Come aveva scritto il New Yorker già nel 2018, dopo la conclusione del «lento ma inesorabile percorso durante il quale l’occhio umano è stato sollevato dall’onere di misurare il tempo», da qualche anno la misurazione dello sport sembra essere entrata in una fase in cui sono ormai disponibili dati oltremodo precisi e dettagliati di cui però, in molti casi, ancora si ha l’impressione che «nessuna abbia capito bene cosa farsene».
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