I paesi più ricchi aiuteranno gli altri ad affrontare i danni del cambiamento climatico?
Se ne parla da decenni, tra molte ritrosie delle nazioni più responsabili: alla COP27 si spera in un piccolo progresso
Non ci sono grandi aspettative sugli esiti della COP27, la conferenza sul clima delle Nazioni Unite iniziata domenica 6 novembre a Sharm el Sheikh, in Egitto, tuttavia una piccola cosa significativa è già successa.
Infatti tra i temi di discussione è stata inserita per la prima volta una questione molto spinosa, ma sempre più impellente: quella delle perdite e dei danni causati dal cambiamento climatico, nel dibattito internazionale indicate con l’espressione inglese “loss and damage”, e degli aiuti economici che i paesi meno responsabili del riscaldamento globale chiedono ai paesi ricchi e più responsabili per farvi fronte. In molti casi i paesi meno responsabili sono anche quelli che ne sono più minacciati e che hanno meno risorse per fronteggiarne le conseguenze. Si tratta in sostanza di “compensazioni”, anche se l’uso di questo termine è stato finora osteggiato.
È da circa trent’anni, fin dalle prime conferenze internazionali sul clima, che si parla di loss and damage. L’espressione fa riferimento alle perdite (“loss” in inglese) definitive di vite umane, culture e specie animali e vegetali e ai danni (“damage”) riparabili alle infrastrutture riconducibili al cambiamento climatico, in casi di grandi alluvioni o siccità, o di innalzamento del livello dei mari.
È però la prima volta che il tema è stato ufficialmente messo nell’agenda di una COP, perché finora i paesi ricchi erano riusciti a evitare di affrontare concretamente la cosa. Impegnarsi a farlo, riconoscendo le proprie responsabilità storiche, infatti comporterà necessariamente lo stanziamento di grandissime somme di denaro. Secondo un rapporto commissionato da 55 paesi molto vulnerabili alla crisi climatica (il cosiddetto gruppo V20) pubblicato a giugno, i danni da loro subiti negli ultimi vent’anni ammontano a 525 miliardi di dollari. Per i governi di qualunque paese, anche quelli più ricchi, è molto difficile promettere somme tanto alte, per quanto condivise con altri stati, con il consenso dei propri elettori.
Quest’anno la questione è apparsa particolarmente urgente, perché nel 2022 ci sono stati numerosi eventi meteorologici estremi riconducibili al cambiamento climatico che hanno fatto grossi danni in diverse parti del mondo. In Somalia ad esempio è in corso una siccità che va avanti dalla fine del 2020 e a causa della quale decine di migliaia di bambini rischiano di morire di fame. Lo stesso Egitto, dove si sta svolgendo la COP27, è un paese molto esposto ai danni del cambiamento climatico.
Poi c’è il caso del Pakistan, dove più di 1.700 persone sono morte per le alluvioni di quest’estate, che hanno causato più di 30 miliardi di dollari di danni.
Secondo la stima del World Weather Attribution, un gruppo composto da autorevoli enti di ricerca di vari paesi che analizza in che misura la gravità di eventi meteorologici estremi possa essere attribuita al cambiamento climatico, le piogge che hanno colpito il Pakistan nei cinque giorni di precipitazioni massime di quest’estate avrebbero avuto una portata del 75 per cento più bassa in un mondo senza riscaldamento globale (cioè sarebbero piovuti 25 mm di pioggia invece di 100, in proporzione). Si tratta di una stima con molte incertezze (sia i fenomeni meteorologici che i meccanismi climatici sono molto complessi), ma è sicuro che il cambiamento climatico abbia avuto un impatto.
Peraltro in occasione della COP27 il Pakistan è il paese di turno alla guida del gruppo negoziale noto come “G77+Cina”: riunisce più di 130 paesi, quasi tutti quelli considerati in via di sviluppo e tutti quelli con economie molto arretrate, ed è il gruppo che chiede compensazioni economiche ai paesi più ricchi per i loss and damage.
Il ragionamento dietro a queste richieste è semplice e il recente caso del Pakistan funziona bene come esempio. Il cambiamento climatico ha contribuito all’intensità delle alluvioni nel paese e quindi ai danni e alle perdite che ha subito. Gli abitanti del Pakistan però sono responsabili solo di una piccola parte delle emissioni di gas serra dovute alle attività industriali, agricole e ai trasporti a cui si deve il riscaldamento globale. Perché dunque deve rimediare da solo ai danni e alle perdite? I paesi del mondo che più hanno prodotto emissioni e che peraltro si sono notevolmente sviluppati e arricchiti negli ultimi tre secoli grazie alle attività economiche che le causano dovrebbero fare la propria parte.
In passato era stato istituito un sistema di aiuti economici ai paesi in maggiore difficoltà, ma non era stato pensato esattamente per far fronte ai danni e alle perdite, bensì per finanziare iniziative di adattamento, cioè progetti pensati per evitare potenziali danni legati al cambiamento climatico. Tale sistema non prevedeva ammissioni di responsabilità nell’averlo causato da parte dei paesi più ricchi e sviluppati. Peraltro non è nemmeno mai stato rispettato: nel 2009, alla COP15 di Copenaghen, si era deciso che gli aiuti sarebbero ammontati a 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020, ma non avevano mai superato gli 80 all’anno.
Alla precedente conferenza sul clima, la COP26 di Glasgow, i paesi in via di sviluppo avevano cercato di istituire un processo formale per fare arrivare aiuti economici in caso di eventi meteorologici estremi con gravi conseguenze, ma non erano riusciti nel loro intento. I paesi più ricchi, tra cui gli Stati Uniti e quelli dell’Unione Europea, avevano bloccato la proposta di creare un ente preposto a finanziare i loss and damage, proponendo invece di avviare un dialogo triennale per discutere di possibili finanziamenti. In Egitto hanno però formalmente accettato di negoziare sul tema.
A settembre peraltro il vicepresidente della Commissione Europea Frans Timmermans, capo delle negoziazioni sul clima per l’Unione Europea, aveva riconosciuto che «coloro che soffrono di più per le conseguenze della crisi climatica non sono responsabili della sua creazione». Timmermans però aveva anche ammesso che «molti cittadini europei» saranno poco sensibili all’argomento delle responsabilità storiche del continente nel contesto dell’attuale crisi energetica e dell’inflazione.
Finora la Danimarca è l’unico paese dell’Unione Europea che si è impegnato, in autonomia, a stanziare un fondo di loss and damage: 100 milioni di corone danesi, l’equivalente di 13 milioni di euro. Stanziamenti significativi, ma simbolici, sono arrivati anche dalla Scozia, nel Regno Unito (2,2 milioni di euro) e dalla regione belga della Vallonia (1 milione di euro).
Non è detto che da qui alla fine della COP27 si riuscirà a trovare un qualche tipo di risultato concreto sul loss and damage. Anche nel caso in cui si ottenesse un accordo diplomatico potrebbero volerci anni prima che eventuali fondi siano disponibili. È probabile che nel migliore dei casi venga decisa l’istituzione, anche poco dettagliata, di un meccanismo per finanziare i paesi che hanno subito danni e perdite e sono in difficoltà.
I progressi delle COP, dovendo avvenire con il consenso unanime di quasi 200 paesi, sono molto lenti: nel caso il meccanismo fosse istituto, i dettagli sul suo funzionamento verrebbero delegati alle prossime conferenze, a partire dalla COP28 di Abu Dhabi l’anno prossimo. A quel punto si potrà cercare di stabilire quali paesi dovranno finanziare le iniziative di riparazione e in che misura, quali invece li riceveranno e per quali disastri legati al clima, chi dovrà gestire gli scambi di denaro e in che modo si potrà essere certi che venga usato bene.
Quest’ultimo punto potrebbe essere particolarmente critico: le passate promesse di stanziamenti di fondi per finanziare iniziative di adattamento e mitigazione sono state spesso disattese perché i paesi finanziatori ritenevano che i finanziamenti non fossero ben utilizzati e gestiti.
Durante la plenaria che ha aperto la COP27 il presidente della conferenza Sameh Shoukry ha parlato della speranza che la discussione sui loss and damage porti a una decisione definitiva sul tema entro il 2024.
– Leggi anche: Cosa si fa esattamente alle conferenze sul clima