La contraddittoria decisione del governo sul bollettino del Covid
Per ragioni comunicative ha smesso di pubblicarlo ogni giorno, ma in quello settimanale ci sono comunque i dati quotidiani
Da domenica 30 ottobre il governo ha limitato la pubblicazione dei dati relativi al coronavirus: i dati di contagi, morti e ricoverati non vengono più pubblicati ogni giorno, ma soltanto una volta alla settimana, il venerdì.
Il ministro della Salute Orazio Schillaci aveva annunciato che la limitazione avrebbe riguardato soltanto il bollettino, una sorta di notiziario quotidiano sui dati del coronavirus, in realtà da dieci giorni è stato fermato l’aggiornamento della piattaforma gestita dalla Protezione civile che dal marzo del 2020 aveva consentito a ricercatori e ricercatrici, medici, giornalisti e cittadini di accedere a tutti i dati del coronavirus a livello regionale e provinciale.
Venerdì 4 novembre, infine, la piattaforma è tornata a pubblicare i dati con l’atteso primo aggiornamento settimanale: non è stato diffuso un riassunto della settimana, come aveva annunciato il governo, bensì i dati giorno per giorno, come era stato fatto prima della limitazione. La scelta di pubblicare i dati quotidiani ma soltanto una volta alla settimana è piuttosto strana e difficile da spiegare, ma non è stata motivata da nessun esponente del governo o dal ministero della Salute. Secondo molti esperti di dati e di trasparenza è incomprensibile e sbagliata.
Nel comunicato in cui aveva annunciato la sospensione della pubblicazione del bollettino settimanale, Schillaci aveva sbrigativamente attribuito la decisione «alle indicazioni prevalenti in ambito medico e scientifico», senza però spiegare – né nel comunicato, né nelle interviste fatte nei giorni seguenti – a quali indicazioni si riferisse. Aveva anche sostenuto l’opportunità di «avviare un progressivo ritorno alla normalità nelle attività e nei comportamenti, ispirati a criteri di responsabilità e rispetto delle norme vigenti» a sei mesi dalla sospensione dello stato di emergenza. Infine, aveva assicurato che i dati sarebbero rimasti a disposizione in qualsiasi momento delle «autorità competenti», senza spiegare quali siano e quale sia la procedura di accesso.
Dalle dichiarazioni del ministro Schillaci sembra che la principale ragione della limitazione alla diffusione dei dati sia di natura comunicativa: in sostanza il governo considera la pandemia ormai finita e quindi ritiene che i giornali non debbano più pubblicare l’aggiornamento quotidiano dei numeri relativi al Covid, soprattutto il conto dei contagiati. L’obiettivo sarebbe in sostanza evitare che i dati alimentino narrazioni allarmiste non giustificate dalla reale situazione sanitaria.
La pubblicazione settimanale, tuttavia, sembra aver portato a un risultato comunicativo opposto rispetto alle intenzioni del governo: di fatto, in assenza di dati quotidiani, la scorsa settimana c’è stata una certa attesa nei confronti dell’aggiornamento settimanale e i media hanno dedicato più spazio ai dati del Covid rispetto alle settimane precedenti.
Molti degli strumenti automatici di visualizzazione dei dati, disponibili su varie piattaforme, hanno inoltre segnalato un picco di contagi venerdì 4 novembre, nel momento in cui è stato diffuso l’aggiornamento. È successo, per esempio, a uno degli strumenti più utilizzati a livello internazionale, cioè il portale Our World in Data, come si può notare da questa visualizzazione.
La premura del governo sulla diffusione di notizie allarmistiche, in realtà, era già stata in parte superata dai fatti: sui giornali e siti di news, infatti, lo spazio dedicato all’aggiornamento quotidiano dei dati dell’epidemia si era molto ridotto negli ultimi mesi e in moltissimi casi gli stessi giornali avevano deciso di pubblicare i dati soltanto a cadenza settimanale. La fondazione Gimbe, una delle fonti di analisi più utilizzate dai mezzi di informazione per capire come stanno andando le cose, pubblicava da tempo un report settimanale. Anche il Post, per esempio, pubblica i dati relativi al Covid soltanto una volta al mese nella newsletter mensile dedicata al coronavirus.
Le motivazioni sono diverse: l’aumento giornaliero di nuovi contagi, infatti, è condizionato da dati “sporchi”, così come vengono definiti dagli esperti. Lo “sporco” è dovuto alla variazione giornaliera del numero di tamponi eseguiti, ai ritardi di comunicazione degli esiti, ai frequenti errori di notifica segnalati dalle regioni e soprattutto alla decisione di molte persone di limitarsi a fare un tampone antigenico fai da te, il cui esito non viene registrato. I contagi reali in Italia sono quindi più di quelli che vengono registrati ufficialmente ogni giorno, ma rispetto alle prime ondate dell’epidemia ci sono molti meno ricoverati e morti grazie all’efficacia dei vaccini e dell’immunizzazione naturale che segue alla malattia. L’aggregazione settimanale, o ancora meglio mensile, consente di limitare in parte i problemi relativi a questi dati.
Uno dei principi che avrebbe potuto portare il governo a pubblicare i dati soltanto una volta alla settimana è una verifica più accurata, cioè la limitazione direttamente alla fonte di alcuni dei problemi citati. La pubblicazione di dati più “puliti” e aggiornati più lentamente è prassi di molte istituzioni: l’ISTAT, per esempio, pubblica i dati della mortalità, cioè quante persone muoiono in ogni comune italiano, soltanto dopo un processo di verifica che dura due mesi.
Per lo stesso principio, molti paesi hanno scelto di pubblicare i dati del Covid con un aggiornamento settimanale e non quotidiano. Ma con la pubblicazione di venerdì scorso, giorno per giorno, è stato chiaro che la decisione del governo non è basata sul principio di accuratezza. «Se l’aggiornamento del dato deve essere mensile, annuale, quotidiano, orario, è una scelta che dipende dal tipo di dato, e può essere una decisione tecnica», ha detto alla Stampa Andrea Borruso, presidente dell’associazione onData, tra le promotrici della campagna Dati Bene Comune che ha chiesto al governo di tornare a pubblicare i dati quotidianamente. «Ma perché in questo cambio da giornaliero si è passati al settimanale? Perché prima questo monitoraggio andava bene e oggi no? Non c’è nessuna spiegazione scientifica al riguardo, come se fosse soltanto un tema di comunicazione legata all’emergenza».
Da un punto di vista sanitario, i dati del Covid, anche se “sporchi”, sono serviti a molti ospedali e regioni per capire quali contromisure prendere contro l’aumento dei contagi. Lorenzo Chiari, professore di Bioingegneria all’università di Bologna, coordinatore di un gruppo di lavoro chiamato “Modelli previsionali contro il Covid-19”, ha detto che in Emilia-Romagna, così come in altre regioni, sono stati studiati strumenti per permettere alla sanità pubblica di conoscere meglio la situazione e in alcuni casi di prevedere un aumento dei ricoveri. «I modelli hanno permesso di accendere un po’ di luce, poter preparare i letti necessari, sapere quanto sarebbe stata alta un’ondata di Covid, misurare l’impatto dei nuovi contagi», ha detto Chiari in un’intervista a Repubblica Bologna. Chiari è consapevole che i dati quotidiani hanno molti limiti, ma bloccare l’accesso a ricercatori ed esperti non serve a risolverli.
In un comunicato diffuso il 28 ottobre, l’associazione italiana di epidemiologia (AIE) ha spiegato che uno dei progressi seguiti all’epidemia ha riguardato proprio la disponibilità di dati tempestivi e accessibili a tutti, che dovrebbe essere estesa anche ad altre malattie dovute a infezioni. «Anziché pensare di cogliere l’opportunità per un avanzamento generalizzato della disponibilità di dati su tutte le altre patologie infettive (e non) e utilizzare la prevista digitalizzazione per mettere il nostro paese al livello di molti altri contesti europei, si propone di ritornare allo stato di quiescenza dettato dal non sapere», dice il comunicato.
Secondo l’AIE, l’accesso ai dati da parte di tutte le persone, esperte e non, è importante perché consente di prendere precauzioni individuali o collettive e di fare scelte più consapevoli. Per questo l’associazione ha chiesto al governo di consolidare le attività di sorveglianza, rendere facilmente disponibili i dati che ne derivano, aumentare le conoscenze per sostenere comportamenti orientati alla prevenzione delle malattie, «magari ragionando sugli strumenti e sugli indicatori più utili per seguire questa fase pandemica».
Nell’appello firmato da associazioni, attivisti e attiviste della campagna Dati Bene Comune viene spiegato che i dati grezzi possono creare un processo virtuoso di collaborazione tra società civile e istituzioni, e in definitiva contrastare più efficacemente la pandemia. Sulla questione della trasparenza, non secondaria, Dati Bene Comune ricorda che le norme e le linee guida sul riutilizzo dei dati prodotti dagli enti pubblici prevedono che le pubbliche amministrazioni mettano a disposizione i propri dati «in formato aperto, con una licenza aperta che ne consenta il massimo riutilizzo, e secondo criteri di accuratezza, coerenza, completezza e attualità (o tempestività di aggiornamento)».
In sostanza, secondo gli attivisti di Dati Bene Comune, i dati aperti non possono essere messi a disposizione soltanto delle autorità competenti. Anzi, il loro accesso non dovrebbe essere regolato o concesso in seguito a una richiesta, ma garantito a chiunque senza discriminazioni e per qualunque scopo. In questo modo chiunque può accedere a informazioni su cui si basano molte decisioni politiche.
➡️La raccolta e aggiornamento dati COVID non è più correlata alla loro pubblicazione;
➡️Non si conoscono le ragioni di questa scelta
I dati sono poco utili? Non c'è il personale? Valutazioni in termini di comunicazione?https://t.co/l9lv7ScoRI
cc @AIEpidemiologia @GIMBE pic.twitter.com/rqLbTZjNeg— onData (@ondatait) November 7, 2022