Prima del merito
«La società dei meritevoli finisce per diventare un totalitarismo perché i criteri con cui il merito si attribuisce hanno assai poco di oggettivo e sono frutto di dispositivi di ingegneria sociale già esistenti tanto feroci quanto più si rappresentano come neutri»
Finite, si spera, le reazioni di pancia sulla nuova denominazione del ministero dell’Istruzione è forse arrivato il momento di provare a ragionare seriamente sul significato della parola merito e sull’ideologia su di esso costruita, ovvero la “meritocrazia”. Le due parole, infatti, hanno storie diverse e non necessariamente collegate l’una all’altra. Un aspetto, questo, non di secondaria importanza: e invece completamente trascurato da gran parte dei commentatori che in questi giorni sulle pagine dei quotidiani hanno preso parola, da Ernesto Galli della Loggia a Massimo Recalcati “l’elogio del merito” ha completamente tralasciato di interrogarsi sulla storicità dell’idea stessa di meritocrazia, una questione sulla quale la bibliografia è vasta, e ha annegato in una notte in cui tutte le vacche sono nere almeno un paio di secoli di discussioni su questo argomento. Contro la “sinistra più ideologica” questi intellettuali, insomma, hanno voluto ribadire quanto “onorare il merito” sia importante. Ma davvero ritengono ci sia qualcuno che pensa che l’arbitrio sia preferibile, e che i meritevoli e capaci non vadano incoraggiati? Davvero, insomma, la critica alla meritocrazia è considerata una critica alla negazione del merito? Perché questo sembra emergere dai discorsi di tanti che a sostegno delle loro ragioni (e di quelle del Governo) hanno invocato l’articolo 34 della Costituzione: «La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». Ci torneremo.
Per capire dove nasce la distinzione fra merito e meritocrazia e perché è importante averla ben chiara bisogna risalire al XIX secolo. Se infatti il merito ha a che vedere con l’educazione, la morale, la filosofia, fin dai tempi di Aristotele (giustizia è dare a ciascuno ciò che merita), è dalla rivoluzione francese in poi che abbiamo iniziato a mettere a punto l’ideologia meritocratica, un concetto pensabile soltanto in una società dove la tradizionale distinzione di ceto è stata abbattuta, e per la prima volta si è introdotto il concetto di mobilità sociale.
«Il termine meritocrazia» ricorda lo storico del pensiero politico Salvatore Cingari nel suo La meritocrazia (Ediesse) «è composto da una parola di radice latina, meritus, e da una di origine greca, kratos. Significa quindi potere al merito e indica una distribuzione del potere con criteri acquisitivi (talento e sforzo) e non ascrittivi (ereditarietà)». Una vera rivoluzione se pensata in un mondo nel quale il potere era fatto derivare direttamente da Dio.
Ma talento e sforzo non sono variabili indipendenti, oggettive, eterne: per questo Karl Marx afferma «da ciascuno secondo le proprie capacità, a ciascuno secondo i propri bisogni» (molto chiara la ricostruzione di questa genealogia che fa Chiara Giorgi). Dove è evidente che la soddisfazione dei bisogni pesa quanto la retribuzione dei talenti, nella costruzione di una società più giusta. Così facendo Marx inserisce nel dibattito successivo alla Rivoluzione francese un elemento nuovo. Secondo i Giacobini, infatti, la Rivoluzione avrebbe dovuto azzerare tutte le differenze (quindi anche talenti e vocazioni, il merito personale). Di contro alcuni pensatori, come il filosofo Saint Simon, avevano reagito a questo egualitarismo giacobino sostenendo che una società giusta debba proprio fondarsi sulle capacità di ciascuno senza valutare le condizioni materiali entro cui queste capacità si sviluppano.
Inizia a prendere forma così, a metà del XIX secolo, un paradosso assai fecondo per cui, per garantire equità sociale, è necessario però un diritto di tipo “diseguale”. Questo lo ha avuto molto ben chiaro Malcom X, per esempio, quando ha contestato l’“integrazione” dei neri nelle scuole dei bianchi. Desegregare non basta, non è bastato, se parallelamente non vengono presi provvedimenti contro la povertà: una posizione a cui arriverà poco prima di essere ammazzato anche Martin Luther King. Questo l’ha insegnato il movimento femminista che ha rifiutato l’omologazione all’universalismo maschile e si è battuto per una cultura della differenza per cui avere gli stessi diritti non può significare, per esempio, rinunciare a diritti specifici come quello della maternità.
E questo, in ambito scolastico, lo ha avuto molto ben chiaro don Lorenzo Milani quando ha messo in luce la falsa coscienza della Professoressa, quella a cui con i suoi allievi scrive la Lettera nel 1967: una professoressa di sinistra, che bocciava alcuni allievi – diceva – per non fare distinzioni in classe; mentre le distinzioni, ieri come oggi, esistono e vanno tenute in considerazione.
La meritocrazia, in quanto ideologia che nasce nella fase di espansione della borghesia (il XIX secolo appunto), azzera ogni riflessione sulle diverse condizioni di partenza di ogni singolo individuo e si trasforma in un dispositivo deterministico. A partire da requisiti considerati immutabili stabilisce un obiettivo comune per tutti. Non a caso Michael Young nel suo celebre The Rise of the Meritocracy (1958) individua il carattere distopico della società in cui domineranno i test meritocratici per eccellenza, quelli del quoziente intellettivo.
La società dei meritevoli finisce per diventare un totalitarismo perché i criteri con cui il merito si attribuisce hanno assai poco di oggettivo e sono frutto di dispositivi di ingegneria sociale già esistenti tanto feroci quanto più si rappresentano come neutri. Pensiamo al voto, che è alla base dell’ideologia meritocratica in ambito scolastico, e alla differenza che c’è fra un voto che punisce o premia e una valutazione formativa.
Scrive Elena Granaglia nel suo saggio Uguaglianza di opportunità (Laterza): «appare del tutto evidente che nel processo educativo, prestazioni migliori di altre siano premiate con voti migliori. Semplicemente, un conto è premiare i migliori in una prospettiva in cui l’obiettivo è impartire una base di conoscenze comuni, ricercando un innalzamento della qualità media. Un altro, e diverso, è disegnare l’istruzione, fin dai primi livelli, come una gara competitiva dove l’obiettivo centrale è selezionare i migliori». Questo accade perché troppo spesso non si tiene in considerazione la pluralità dei meriti. Lo chiarisce molto bene il pedagogista Cristiano Corsini: «La valutazione ridotta a voto si è dimostrata del tutto inefficace nello sviluppare apprendimenti, e funzionale alla riproduzione e alla legittimazione delle disuguaglianze esistenti, che vengono introiettate come giuste da studentesse e studenti».
Anche questo don Lorenzo Milani l’aveva assai chiaro quando attaccava lo strumento del voto. Il voto sancisce il merito scolastico. Ma quale merito? Il merito di assomigliare il più possibile a un modello di scolaro prefissato. Il punto, invece, secondo don Milani non era trasformare tutti i ragazzi e le ragazze in buoni studenti di liceo classico ma dare a tutti l’uso uguale delle parole affinché ognuno potesse usarle come vuole. Diventando ciò che vuole. Scriveva «Quando il povero saprà dominare le parole come personaggi, la tirannia del farmacista, del comiziante e del fattore sarà spezzata. Un’utopia? No. E te lo spiego con un esempio: un medico oggi quando parla con un ingegnere o con un avvocato discute da pari a pari. Ma questo non perché ne sappia quanto loro di ingegneria o di diritto. Parla da pari a pari perché ha in comune con loro il dominio sulla parola. Ebbene, a questa parità si può portare l’operaio e il contadino senza che la società vada a rotoli. Ci sarà sempre l’operaio e l’ingegnere, non c’è rimedio. Ma questo non importa affatto che si perpetui l’ingiustizia di oggi per cui l’ingegnere debba essere più uomo dell’operaio (chiamo uomo chi è padrone della sua lingua)».
La critica alla meritocrazia, insomma, non pretende che merito e talento non debbano essere incoraggiati e coltivati come garanzia di una società meno arbitraria: il punto fondamentale da tenere a mente è che «il merito non può diventare un parametro per attribuire diritti».
Questo è un principio che la nostra Costituzione, tirata per la giacchetta da tutti i commentatori per quell’articolo 34 già citato, mette bene in chiaro nei principi fondamentali grazie a quell’articolo 3 che invece in molti si sono guardati bene dal ricordare, come se fosse un preambolo di principio che si può saltare. Invece non è così: che i principi fondamentali non stiano lì solo a indicarci delle virtù morali verso cui tendere ma dei diritti da concretizzare lo dimostra per esempio la numerazione stessa degli articoli della Costituzione che parte proprio da lì, dai principi fondamentali. Uno, due, tre, eccetera. Principi che sono come le fondamenta di una casa, le radici di una pianta, per cui, una volta tagliati via, dimenticati, la pianta muore, la casa crolla. L’articolo 34 non significa niente in Italia, qui, ora, in questo tempo e in questo spazio geografico, se non è letto attraverso la lente dell’articolo 3.
Tutti i cittadini «hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge» e lo stato favorisce i «meritevoli e capaci» sono idee proprie a ogni costituzione liberale. La nostra però, e questo si tende a dimenticarlo troppo spesso, non è una costituzione liberale. La nostra è una costituzione progressiva che specifica, nel secondo comma dell’articolo 3 scritto dai socialisti Lelio Basso e Massimo Severo Giannini, che non basta stabilire all’articolo 34 che i meritevoli vanno incoraggiati. Occorre mettere subito in chiaro che questo diritto va attuato e per farlo occorre rimuovere tutti gli ostacoli, ieri come oggi.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
«La costituzione è un progetto, e una “promessa”, di un nuovo e più giusto ordine politico-sociale: ad attuare il progetto, a mantenere la promessa, sono chiamati il legislatore e tutte le istituzioni della Repubblica» (M. Salvati).
Mettere quella parola merito, nella denominazione del ministero dell’Istruzione dimenticandosi la rimozione degli ostacoli, significa tradirla questa promessa, e non attuarla, come in molti sostengono.