Come sta andando Joe Biden in economia?
È una questione molto dibattuta alle elezioni di metà mandato, dove il presidente americano è accusato di aver favorito l'inflazione e non è riuscito a comunicare l'importanza delle sue riforme
di Mariasole Lisciandro
Martedì 8 novembre si terranno le elezioni di metà mandato negli Stati Uniti, in cui a due anni di distanza dall’inizio del mandato del presidente si rinnovano tutti i seggi della Camera e un terzo di quelli del Senato. Quest’anno, due delle questioni più rilevanti e discusse sono l’economia e l’inflazione, e in particolare è in corso un dibattito molto intenso sui risultati economici che il presidente Joe Biden ha raggiunto nei primi due anni del suo mandato.
I sostenitori del presidente e il Partito Democratico ritengono che abbia fatto un ottimo lavoro nel rilanciare l’economia dopo la pandemia da coronavirus, mentre gli avversari del Partito Repubblicano sostengono come gli Stati Uniti stiano affrontando la peggior inflazione dagli anni Ottanta e i cittadini si trovino a fare i conti con rincari consistenti del costo della vita.
La realtà sta un po’ nel mezzo: è probabile che l’economia si troverebbe più o meno allo stesso punto a prescindere dall’amministrazione in carica, ma la differenza la fanno le grosse iniziative legislative prese da Biden a sostegno degli investimenti, della transizione energetica e a tutela della proprietà intellettuale sui microchip. Tuttavia, è plausibile che l’inflazione peserà non poco sulle scelte degli elettori, che vedono il loro potere di acquisto sempre più eroso dal carovita.
Innanzitutto, l’economia americana sta andando apparentemente piuttosto bene. La disoccupazione è ai minimi storici: a ottobre negli Stati Uniti sono stati creati oltre 260 mila posti di lavoro, sopra le attese. Tuttavia il tasso di disoccupazione è salito al 3,7 per cento dal 3,5 di settembre, pur restando comunque ai minimi. E i salari sono aumentati del 4,7 per cento rispetto a un anno fa, segno di un mercato del lavoro dinamico.
Nel terzo trimestre di quest’anno il Prodotto Interno Lordo (PIL) è cresciuto del 2,6 per cento rispetto allo stesso periodo del 2021. In realtà, questa crescita arriva dopo due trimestri negativi, che facevano presumere l’inizio di una recessione. Il presidente Biden ha rivendicato questo successo: «Abbiamo un’ulteriore prova che la nostra ripresa economica sta continuando a spingere» ha detto in un tweet al momento della pubblicazione dei nuovi dati da parte dell’istituto statistico americano, a fine ottobre.
For months, doomsayers have been arguing that the US economy is in a recession and Congressional Republicans have been rooting for a downturn.
But with today’s Third Quarter GDP Report, we got further evidence that our economic recovery is continuing to power forward.
— President Biden (@POTUS) October 27, 2022
Il dato complessivo sulla crescita del PIL, tuttavia, nasconde alcune dinamiche che sono più rappresentative dello stato dell’economia.
Innanzitutto, la crescita è spinta soprattutto da un eccezionale aumento delle esportazioni. Dall’inizio della guerra in Ucraina gli Stati Uniti sono diventati esportatori netti di petrolio, ossia ne esportano più di quanto ne importano. Hanno venduto all’estero circa 1 milione di barili di petrolio al giorno, un risultato notevole se si pensa che all’inizio degli anni Duemila ne importavano circa 10 milioni al giorno. In più, proprio dall’estate, sono diventati un importantissimo fornitore dell’Unione europea di gas naturale liquefatto, il che ha contribuito molto al risultato complessivo.
Ma al netto di questa spinta delle esportazioni, che è eccezionale e non è detto che sia duratura nel tempo, le altre componenti della crescita rivelano una situazione meno brillante.
Innanzitutto gli investimenti privati nazionali sono in calo da due trimestri di fila e neanche di poco: si sono ridotti del 14,1 per cento nel secondo trimestre e dell’8,5 nel terzo rispetto a un anno fa (se ne parla più nel dettaglio in questo podcast del Wall Street Journal). Si tratta di quegli investimenti che sono un po’ un termometro dello stato dell’economia: nascita di nuove aziende o ampliamento di quelle esistenti, investimenti nel settore immobiliare, nelle infrastrutture e così via. Un risultato così negativo mostra che c’è molta incertezza nel mondo del business: i tassi di interesse stanno aumentando ovunque, il che rende più rischioso prendere a prestito per investire, e le aziende potranno contare sempre di meno su alti consumi delle famiglie, poiché l’inflazione di fatto erode il loro reddito. E la sensazione diffusa è che le cose andranno sempre peggio.
Sono proprio i consumi a dare un segnale specifico. Sono risultati in crescita dell’1,2 per cento nel terzo trimestre, ma in rallentamento rispetto al 2 per cento del trimestre precedente. La spesa in servizi ha più che compensato la riduzione di quella in beni di consumo, che invece sono risultati in calo dell’1,2 per cento.
Dovendo fare i conti con un’inflazione che a settembre è stata pari all’8,2 per cento rispetto a un anno prima, i consumatori stanno iniziando a ridurre le loro spese. I prezzi crescono più velocemente di quanto facciano gli stipendi e gli americani stanno iniziando a rimandare a momenti migliori l’acquisto dei beni durevoli (in calo dell’1,4 per cento), come elettrodomestici e auto, per esempio. Ma il carovita impatta anche sulle scelte quotidiane e non solo sui consumi più impegnativi: secondo una ricerca riportata da Bloomberg, più del 50 per cento dei lavoratori americani avrebbe cercato un secondo lavoro per compensare l’aumento del costo della vita o pensa di farlo a breve.
Gli elettori americani vedono i prezzi aumentare sempre di più, i loro stipendi perdere potere d’acquisto e i saldi sui loro conti correnti ridursi. Questi sono gli effetti prevedibili dell’inflazione, ma testimoniano la grande differenza che c’è in questo momento tra i buoni dati della crescita del PIL e la percezione che i cittadini americani hanno della situazione economica.
Per esempio, il prezzo dei carburanti è un tema molto sensibile nel dibattito politico americano ed è molto aumentato in questi mesi, anche se oggi è molto più basso rispetto ai picchi di qualche mese fa. I Repubblicani hanno spostato da tempo l’attenzione su questo tema, accusando l’amministrazione Biden di non aver fatto nulla per impedire questi rincari e spesso di esserne addirittura la causa.
È difficile però pensare che l’amministrazione Biden possa davvero aver causato da sola l’inflazione più alta dagli anni Ottanta. Tantissimi altri paesi oltre agli Stati Uniti stanno sperimentando un consistente aumento generale dei prezzi (nei paesi che adottano l’euro l’inflazione è in media pari quasi al 10,7 per cento, in Italia è all’11,9 per cento).
In questo momento l’inflazione è un fenomeno globale, causato sia da una crisi delle catene di approvvigionamento, dovuta alla pandemia, che dai rincari dei costi dell’energia, provocati dall’invasione russa dell’Ucraina. È probabile che il quadro macroeconomico sarebbe stato sostanzialmente simile con un’amministrazione diversa da quella di Biden, anche Repubblicana.
È più ragionevole far notare come la politica economica di Biden non abbia tanto causato l’alta inflazione, un fenomeno in gran parte fuori dal suo controllo, ma che però l’abbia resa più persistente di quanto sarebbe stata altrimenti. Col senno di poi, i suoi grandi piani di stimolo sono stati fin troppo efficaci nel rilanciare l’economia, che si sarebbe così “surriscaldata”.
In generale, un aumento contenuto dei prezzi è normalmente associato a un’economia che va bene: senza complicare troppo le cose, si può dire che un’economia che cresce è quella in cui le aziende producono a un ritmo che impiega tanti lavoratori. C’è quindi poca disoccupazione e i salari sono in costante aumento proprio perché non ci sono molti lavoratori disoccupati e disposti a lavorare a fronte di una retribuzione bassa. Con salari in crescita, cresce anche il costo per produrre beni e servizi; aumentano quindi i prezzi a cui le aziende vendono beni e servizi al consumatore finale, che allo stesso tempo guadagna uno stipendio sempre più alto. È un circolo virtuoso, che resta tale fino a che l’economia si “surriscalda” e i consumatori iniziano a domandare più beni e servizi di quanti le aziende siano in grado di produrre. A questo punto si osserva quasi sempre un’inflazione oltre la media ed è un problema.
Le tre principali misure economiche di Biden rappresentano complessivamente l’intervento economico più consistente degli ultimi decenni e hanno mobilitato oltre 3.800 miliardi di dollari.
L’ultima ne vale 740: si tratta dell’Inflation Reduction Act, che prevede il più grande investimento della storia americana in iniziative per combattere il riscaldamento globale, con 370 miliardi di dollari di finanziamenti per sgravi fiscali per auto elettriche, produzione di energia da fonti rinnovabili e riconversioni di impianti inquinanti, con l’obiettivo di ridurre del 40 per cento rispetto al 2005 le emissioni di gas serra entro il 2030. Prolunga fino al 2026 l’ampliamento dell’assistenza medica gratuita per le fasce più deboli della popolazione, inizialmente prevista solo come risposta all’emergenza pandemica. Contiene strumenti per ridurre il deficit di 300 miliardi e finanzia parte di queste misure con una tassa minima del 15 per cento per i profitti delle grandi aziende, che finora pagavano di meno.
Questo piano segue i 1.900 miliardi di dollari stanziati dall’American Rescue Plan, un insieme di stimoli economici per rispondere alla crisi provocata dalla pandemia da coronavirus, e i 1.200 miliardi dell’Infrastructure and Jobs Act, con cui si finanziavano opere pubbliche per rinnovare strade, ponti e infrastrutture e per ampliare le connessioni a banda larga.
L’azione economica di Biden avrebbe non solo rilanciato l’economia, ma ha contribuito in parte a “surriscaldarla”, rendendo l’inflazione americana tra le più persistenti.
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Tuttavia, uno studio citato dall’Economist condotto da alcuni economisti della Federal Reserve, la banca centrale americana, ha stimato che gli stimoli di Biden all’economia avrebbero aggiunto circa mezzo punto percentuale al tasso di inflazione americano, quindi non si tratterebbe di un contributo decisivo.
Inoltre, bisogna ricordare che il mantenimento della stabilità dei prezzi non è un compito politico, ma istituzionale e attribuito nelle economie moderne alle banche centrali. La FED ha tenuto una politica monetaria straordinariamente espansiva fino all’inizio di quest’anno, per poi iniziare a rialzare in modo molto deciso e aggressivo i tassi di interesse. Molti osservatori hanno fatto notare nei mesi come la banca centrale americana abbia inizialmente sottovalutato il vigore dell’inflazione, per poi cercare di rimediare con una politica monetaria molto dura di aumento dei tassi di interesse, che rischia di fatto di far entrare gli Stati Uniti in recessione.
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Nonostante tutto, l’inflazione resterà per gli elettori la preoccupazione economica dominante, e forse la più grande responsabilità politica per Biden e i Democratici è che non sono riusciti a sfruttare abbastanza il successo delle iniziative economiche di questi due anni.
È vero che focalizzare l’attenzione sulla grandezza dei piani di intervento può influire di più sull’elettore medio, però restano sullo sfondo tre cose molto importanti: la prima è che l’Inflation Reduction Act non è importante solo perché stanzia tanti soldi, ma perché è il piano degli Stati Uniti più ambizioso sul clima; lo stesso vale per l’Infrastructure and Jobs Act che promette di migliorare le infrastrutture spesso carenti del paese; infine l’amministrazione Biden ha deciso di limitare, per la prima volta, l’esportazione verso la Cina di chip avanzati e della tecnologia necessaria per produrli, cosa che potrebbe mettere in eccezionale difficoltà lo sviluppo tecnologico cinese, a vantaggio di quello americano.
Infine, è importante anche l’iniziativa promossa alla fine dell’estate da Joe Biden di cancellare una parte significativa dei debiti studenteschi detenuti dal governo federale. Biden propone di stralciare tra i 10 e i 20mila dollari di debito per ciascuno studente, per un totale che potrebbe arrivare fino a 321 miliardi di dollari, secondo uno studio della FED di New York. Anche se il piano sta incontrando vari ostacoli a livello giuridico, è stato sicuramente un segnale politico importante.