Chi era il brigatista che scappò dalla cascina Spiotta?
Dopo quasi 50 anni c'è una nuova indagine sulla sparatoria nella quale morirono un carabiniere e Mara Cagol
Da alcuni mesi, ma la notizia è emersa solo pochi giorni fa, la procura nazionale antiterrorismo e la procura di Torino hanno aperto un fascicolo di indagine su un fatto di cronaca avvenuto 47 anni fa: il sequestro da parte delle Brigate Rosse dell’industriale Vittorio Vallarino Gancia e la sparatoria che avvenne quando quattro carabinieri arrivarono alla cascina Spiotta di Arzello, un paese in provincia di Alessandria, dove i terroristi avevano portato il sequestrato.
Quel giorno, il 5 giugno 1975, morirono un appuntato dei carabinieri, Giovanni D’Alfonso, e una militante delle Brigate Rosse, Margherita Cagol, conosciuta con il nome di battaglia di Mara, moglie di Renato Curcio. Cagol e Curcio erano tra i fondatori dell’organizzazione.
Nel corso della sparatoria, un tenente dei carabinieri, Umberto Rocca, perse un braccio e un occhio in seguito al lancio di una bomba a mano, e un altro carabiniere, il maresciallo Rosario Cattafi, rimase ferito più leggermente. Un brigatista, che era insieme a Cagol, riuscì a scappare nelle campagne della zona: da allora non è mai stato individuato.
Proprio per scoprire chi era il brigatista che riuscì a fuggire, Bruno D’Alfonso, figlio del carabiniere ucciso e anche lui carabiniere, aveva presentato un anno fa un esposto alla procura di Torino per fare in modo che venissero riaperte le indagini. A quanto si sa gli inquirenti avrebbero individuato il nome del brigatista presente alla cascina Spiotta quel giorno, ma stanno cercando riscontri precisi. Nel fascicolo di indagine di allora sembra ci fosse un’impronta digitale che venne individuata all’interno della cascina e che corrisponderebbe a quella di un brigatista appartenente al gruppo emiliano, che fu arrestato negli anni successivi e che ha scontato una lunga pena in carcere. Il Giornale ha riportato nei giorni scorsi la testimonianza di un ex ufficiale dei carabinieri, Luciano Seno, divenuto poi ufficiale del servizio segreto Sismi, Servizio per le informazioni e la sicurezza militare:
Arrivai alla Cascina Spiotta poche decine di minuti dopo il conflitto a fuoco. Mara Cagol era stesa al suolo, nell’erba, già morta. La situazione era terribile, c’erano i due colleghi feriti in modo gravissimo. Dell’altro brigatista che era con lei non c’era più traccia, era riuscito a dileguarsi nella boscaglia. Iniziammo da subito a cercare di dargli un nome, da alcune tracce all’inizio ci convincemmo che fosse Alfredo Bonavita, uno dei fondatori delle Brigate Rosse. Adesso invece a quanto pare si è scoperto che era un altro del nucleo storico, Lauro Azzolini.
Azzolini, contattato dal Giornale, ha risposto:
Dico solo che di quella operazione si assunse per intero la responsabilità l’organizzazione Brigate Rosse.
Lauro Azzolini ha 79 anni, venne arrestato nel 1978 e fu condannato all’ergastolo: oggi è in regime di semilibertà.
Fu il brigatista che riuscì a fuggire dalla cascina Spiotta a scrivere poi la cosiddetta relazione interna che venne trovata dai carabinieri in un “covo” delle BR in via Maderno a Milano, il 18 gennaio 1976. In quel documento fu trascritto il racconto del brigatista fuggito che disse di avere visto Mara Cagol seduta a terra, già raggiunta da colpi di pistola, con le mani alzate e disarmata. Disse poi di aver sentito, pochi minuti dopo, due colpi di pistola e una raffica di mitra. In seguito a questo racconto, le Brigate Rosse contestarono la versione data dai carabinieri e sostennero che Mara Cagol fosse stata uccisa quando era a terra ferita e si era già arresa.
Il rapimento di Vallarino Gancia avvenne cinque anni dopo la fondazione delle Brigate Rosse e fu il primo sequestro fatto dal gruppo terroristico per finanziarsi. Pochi mesi prima, il 18 gennaio del 1975, un gruppo guidato da Mara Cagol aveva fatto evadere Renato Curcio dal carcere di Casale Monferrato, sempre in provincia di Alessandria. Fu poi la stessa Cagol a suggerire il rapimento di Vittorio Vallarino Gancia che allora, a 42 anni, era amministratore delegato dell’azienda vinicola di famiglia a Canelli, in provincia di Asti.
Vallarino Gancia fu sequestrato il pomeriggio del 4 giugno 1975 mentre, dopo essere uscito dalla sua villa, era diretto alla sede dell’azienda. Stava percorrendo la strada provinciale Cassinasco-Canelli quando quattro brigatisti travestiti da operai che fingevano di lavorare ai lati della strada lo fecero rallentare. L’auto di Vallarino Gancia fu tamponata da un’altra auto, con a bordo due brigatisti: uno dei finti operai, con un martello, ruppe il vetro e aprì l’auto. L’industriale fu preso e fatto salire su un furgone. Quindi il furgone, l’auto di Gancia guidata da un brigatista e l’auto che aveva tamponato quella dell’imprenditore si allontanarono. Vennero poi abbandonate a Calamandrana, tra Nizza Monferrato e Canelli.
Vallarino Gancia fu portato come era stato stabilito alla cascina Spiotta, a circa trenta chilometri dal luogo del rapimento. Non ci fu nessuna rivendicazione e investigatori e inquirenti collegarono il sequestro alla criminalità organizzata e non a un gruppo terroristico.
A spostare l’attenzione sulle Brigate Rosse fu però proprio un militante del gruppo. Il 4 giugno, due ore prima del rapimento, due ragazzi a bordo di una Fiat 124 avevano tamponato un’auto lungo la strada che da Canelli porta a Cassinasco. I due ragazzi chiesero al conducente dell’auto tamponata di poter risarcire il danno in contanti perché avevano molta fretta. L’uomo si insospettì e avvertì i carabinieri i quali, qualche ora dopo, intercettarono la Fiat 124 alla periferia di Canelli. A bordo c’era un solo ragazzo che, vedendo i militari, scese dall’auto e iniziò a scappare. Fu raggiunto, preso, e portato in caserma. Qui rivelò di chiamarsi Massimo Maraschi e di avere 22 anni, quindi si dichiarò prigioniero politico, militante delle Brigate Rosse. A quel punto fu logico, per i carabinieri, considerare il gruppo terroristico come autore del sequestro. Questo portava a escludere che Vallarino Gancia fosse stato portato subito verso la Calabria, dove operavano allora alcuni dei gruppi criminali più attivi nel settore dei sequestri.
I posti di blocco e le ricerche, già avviate nella zona, furono intensificati. La mattina del cinque giugno un’auto con quattro carabinieri, della stazione di Acqui Terme, tre in divisa e uno in borghese, a bordo di una Fiat 127, iniziarono a ispezionare alcune cascine della zona. Arrivarono a cascina Spiotta alle 11:30. Secondo il rapporto dei carabinieri, l’appuntato Pietro Barberis rimase vicino all’auto mentre gli altri militari andarono verso l’edificio. Videro sotto un porticato una Fiat 127 e una Fiat 128 e pensarono che la cascina fosse abitata. Il tenente Rocca e il maresciallo Cattafi bussarono alla porta mentre l’appuntato D’Alfonso rimase vicino al porticato.
Cattafi vide una donna che dal piano di sopra guardava attraverso le persiane, in quel momento si aprì la porta e, secondo la ricostruzione dei carabinieri, si affacciò un uomo di circa 30 anni, di aspetto distinto e con il volto scavato. Chiese il motivo della loro presenza e, quando i carabinieri lo invitarono a uscire, strappò la linguetta di una bomba a mano SRCM e la lanciò verso i due carabinieri, rientrando poi nella cascina. La bomba era diretta verso il tenente Rocca che alzò d’istinto il braccio per proteggersi. L’esplosione gli amputò il braccio ma il calore generato chiuse i vasi sanguigni e rallentò l’emorragia.
Il tenente iniziò a sparare verso la casa con la carabina M1 in dotazione. Spararono anche Cattafi e D’Alfonso. Contemporaneamente dalla cascina uscirono l’uomo che aveva lanciato la bomba e una donna: si diressero verso le auto. L’uomo impugnava una pistola mentre la donna aveva una pistola e un mitra. Entrambi spararono e l’uomo lanciò un’altra bomba. Fu in questa fase della sparatoria che l’appuntato D’Alfonso venne colpito a morte.
L’appuntato Barberis era rimasto vicino all’auto lungo la stradina in discesa che partiva dalla cascina e aveva chiesto rinforzi alla centrale. Vide arrivare le due Fiat, la 127 guidata dall’uomo e la 128 guidata dalla donna, che seguiva. Le due auto uscirono dalla stradina e andarono sui prati: la prima andò a sbattere contro un albero e la seconda le andò addosso. L’uomo e la donna scesero dalle auto. Secondo il racconto di Barberis, la donna sembrava ferita e urlò che si arrendevano: gettò a terra la pistola. A quel punto però l’uomo lanciò verso Barberis un’altra bomba a mano. L’appuntato si spostò e sparò alcuni colpi di pistola, la donna cadde a terra colpita su un fianco. Barberis iniziò a inseguire il brigatista che era fuggito nel bosco ma presto non lo vide più e tornò indietro.
L’appuntato D’Alfonso venne portato in ospedale. Morì cinque giorni dopo. Mara Cagol era morta, sul prato, colpita alla schiena, al torace e al braccio. Vittorio Vallarino Gancia venne trovato in una stanza della cascina, con le mani legate dietro la schiena.
Uno dei capi delle Brigate Rosse, Mario Moretti, scrisse in un libro che la situazione non sarebbe precipitata se i due brigatisti presenti alla cascina non si fossero distratti e avessero sorvegliato la stradina. In quel modo avrebbero potuto accogliere tranquillamente i carabinieri senza destare sospetti.
Il racconto del brigatista che riuscì a fuggire è più o meno analogo a quello dei carabinieri fino al momento della fuga in auto. Mara Cagol, secondo quanto raccontò il brigatista ad altri membri dell’organizzazione, era gravemente ferita e non riusciva a guidare, quindi tamponò l’auto che la precedeva. A quel punto i due brigatisti scesero dalle loro macchine: Cagol era disarmata perché sia la pistola che il mitra erano rimasti in auto. Alzarono le mani mentre l’appuntato Barberis li controllava da un punto più in alto della stradina, che era in discesa. Il brigatista, sempre secondo ciò che lui stesso raccontò e che i suoi compagni trascrissero, lanciò una bomba a mano che l’appuntato riuscì a evitare. A quel punto l’uomo si lanciò nella boscaglia, l’ultima immagine che vide, nascondendosi dietro un rialzo del terreno, fu quella di Cagol a terra con le braccia alzate. Poi l’uomo riprese a correre. Dopo pochi minuti sentì le raffiche di mitra e i due colpi di pistola.
Renato Curcio, intervistato da Mario Scialoja per il libro A viso aperto, disse: «I risultati dell’autopsia parlano chiaro. Margherita era seduta con le braccia alzate. Le è stato sparato un solo colpo di pistola sul fianco sinistro, proprio sotto l’ascella. Il classico colpo per uccidere».
Mario Moretti invece non diede una versione definitiva ma disse che ciò che era accaduto era frutto dell’impreparazione da entrambe le parti.
Per identificare con certezza, dopo quasi cinquant’anni, chi fosse il brigatista che quel giorno riuscì a fuggire sono stati interrogati alcuni militanti delle Brigate Rosse tra cui il primo e più celebre pentito dell’organizzazione, Patrizio Peci, il quale ha però detto di non sapere nulla di quella vicenda. Altri non hanno fornito indicazioni utili e in molti, tra gli ex appartenenti alle Brigate Rosse, ritengono di non dovere dare indicazioni che potrebbero portare a incriminazioni per eventi così lontani. L’ex ufficiale Luciano Seno, al Giornale, ha detto: «Adesso si è arrivati a identificare Azzolini. Come fisionomia e statura direi che corrisponde. Ma a quarantasette anni di distanza dai fatti avere delle certezze rischia di essere molto difficile»