Sui figli unici circolano tanti pregiudizi
L’idea che non avere fratelli né sorelle condizioni lo sviluppo o il successo non è sostenuta da prove scientifiche ma è alla base di luoghi comuni molto radicati
Secondo il più recente rapporto Istat sulla natalità della popolazione residente in Italia, nel 2020 il numero medio di figli per donna è sceso a 1,24: nel biennio 2008-2010 era 1,44. I dati più recenti indicano inoltre che i nuclei familiari con un solo figlio sono la tipologia prevalente: circa il 47 per cento del totale dei nuclei con figli. E tendenze simili a queste sono registrate da tempo anche in altri paesi.
Nonostante la presenza di figli unici nelle famiglie sia quindi tutt’altro che un’anomalia statistica, sia in Italia che in altri paesi occidentali è ancora molto diffuso un luogo comune secondo cui sarebbe meglio per un bambino o per una bambina crescere in compagnia di almeno un fratello o una sorella. Questa affermazione – peraltro rafforzata nel 2020 dalla diffusa impressione che l’isolamento durante la pandemia causasse maggiori disagi ai figli unici – non è tuttavia sostenuta da solide prove scientifiche.
La letteratura esistente su questo argomento, ripresa dai vari studiosi e professionisti che se ne sono occupati negli ultimi anni, non mostra differenze significative tra figli unici e figli con sorelle o fratelli nell’ambito delle abilità e competenze misurabili. E smentisce gli stereotipi negativi e positivi esplicitamente o implicitamente attribuiti da molti ai figli unici: l’idea che siano destinati a diventare persone viziate, insicure, eccentriche o prepotenti, per esempio, oppure insolitamente precoci e geniali.
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Piuttosto si verifica un altro fenomeno, ha scritto recentemente l’Atlantic: che questi pregiudizi siano talmente radicati nel lessico quotidiano, e così strettamente associati all’espressione linguistica «figlio unico», da circolare già tra i bambini stessi – compresi i figli unici – e condizionare gran parte delle osservazioni e riflessioni che si fanno sui bambini senza fratelli né sorelle.
Storicamente, la ricerca scientifica considerata pertinente a questo argomento si è concentrata su due diversi aspetti della questione: quello economico e quello sociale. Un’ipotesi presa in considerazione dagli economisti che si sono occupati direttamente o indirettamente del tema dei figli unici è che una famiglia più numerosa implichi meno risorse da investire per ciascun figlio, in teoria: e cioè meno tempo o denaro per l’istruzione e per altri tipi di formazione, oltre che per i beni di prima necessità. Questa disponibilità o meno di risorse dovrebbe pertanto riflettersi in una qualche differenza tra i figli unici e quelli con fratelli e sorelle.
Confrontare le differenze tra bambini figli unici e bambini con fratelli e sorelle – relativamente a dati misurabili come risultati scolastici o test del quoziente intellettivo – può tuttavia essere insufficiente o comunque problematico, come scrisse sul New York Times l’economista Emily Oster: perché le famiglie differiscono l’una dall’altra in molti altri aspetti, sia misurabili che non misurabili, a parte il fatto di avere uno o più figli.
Una serie di studi e analisi condotte negli anni Duemila sulle famiglie norvegesi è tuttavia considerata significativa, perché fondata su informazioni ritenute particolarmente affidabili e complete per via di un dettagliato lavoro di raccolta e rendicontazione dei dati da parte del governo. E quei dati indicano che il numero di bambini in un nucleo familiare è scarsamente rilevante nel determinare il livello di istruzione o il quoziente intellettivo di quei bambini.
I figli unici non hanno inoltre né più né meno probabilità di altri di trovare lavoro o di avere salari più alti. E hanno le stesse probabilità degli altri di diventare genitori adolescenti, un risultato che i ricercatori tendono a classificare come indesiderato. Nel complesso, secondo Oster, «quando si tratta di ciò che gli economisti definiscono “successo”, avere fratelli e sorelle – o non averli – proprio non sembra avere importanza».
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Quanto all’aspetto sociale della questione, come scrisse il Washington Post in un articolo del 2019, molti dei pregiudizi riguardo ai figli unici sembrano derivare in parte anche dai limiti di alcune ricerche dell’Ottocento e del Novecento nell’ambito delle scienze sociali.
In un influente studio di psicologia del 1896 condotto su oltre mille bambini, un ricercatore della Clark University in Massachusetts scriveva che i figli unici «hanno amici immaginari», «non vanno d’accordo con gli altri bambini» e «hanno una cattiva salute, nella maggior parte dei casi». Il punto trascurato nello studio, come spiegò al Washington Post la psicologa sociale statunitense Susan Newman, è che molti di quei bambini vivevano in fattorie a enormi distanze l’una dall’altra e lavoravano ogni giorno per molte ore: una condizione di isolamento probabilmente più penalizzante per i figli unici, e in ogni caso certamente diversa dalle attuali condizioni di vita della maggior parte dei bambini nelle città.
Quelle conclusioni furono la base di altri stereotipi che circolarono molto nei decenni successivi, al punto da stimolare un’articolata narrazione sulla «sindrome del figlio unico». Furono largamente respinte dalla comunità scientifica soltanto nella seconda metà del Novecento, e in particolare dopo la pubblicazione di un importante studio di revisione di 141 ricerche da parte delle psicologhe sociali statunitensi Toni Falbo e Denise Polit, nel 1987. Dalle loro ricerche non emersero differenze significative di personalità, socialità, intelligenza e risultati scolastici tra i bambini figli unici e quelli con fratelli e sorelle.
L’opinione condivisa dalla maggior parte degli studiosi che si sono occupati dei pregiudizi sui figli unici è che avere fratelli o sorelle può sì determinare benefici significativi, come dimostrano tra l’altro alcuni studi che mettono in relazione la felicità durante la vecchiaia con la presenza di rapporti familiari solidi e sani tra fratelli e sorelle.
Le innumerevoli variabili che condizionano l’infanzia a livello individuale rendono tuttavia particolarmente difficile trarre conclusioni chiare sulle differenze tra bambini figli unici e bambini con fratelli e sorelle. Che non vuol dire che quelle differenze non esistano, sostengono gli studiosi: soltanto che le ricerche esistenti non mostrano significative differenze misurabili, o mostrano differenze che tendono a svanire e uniformarsi in età adulta.
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Altre relazioni differenti da quelle tra fratelli e sorelle possono svolgere le stesse funzioni, aggiunge l’Atlantic, citando informazioni aneddotiche riferite da Falbo riguardo alle capacità dei bambini figli unici di sentirsi più a loro agio nelle interazioni con gli adulti e gli insegnanti rispetto ai loro coetanei con fratelli e sorelle.
Come dato scientifico a sostegno di possibili differenze tra figli unici e persone con fratelli e sorelle, da approfondire, l’Atlantic cita infine i risultati di uno studio longitudinale, cioè una ricerca che effettua ripetute osservazioni dello stesso fenomeno in un lungo periodo di tempo, solitamente decenni. Pubblicato negli anni Settanta e intitolato Project Talent, lo studio mise insieme interviste effettuate a oltre 400 mila adolescenti nel 1960, e poi condotte sullo stesso campione altre tre volte: uno, cinque e undici anni dopo il diploma. Lo studio concluse che, tra gli intervistati, i figli unici erano più interessati ad attività solitarie e meno inclini a partecipare ad attività di gruppo.