L’Ansaldo Energia di Genova è presa in mezzo alle storie più grandi di questi tempi
Nel giro di poche settimane, dopo l'invasione in Ucraina, per l'azienda che produce turbine a gas è cambiato tutto
di Angelo Mastrandrea
Gli operai al lavoro nello stabilimento dell’Ansaldo Energia, lungo la strada che dal porto di Genova risale verso la Valpolcevera, temono per il loro futuro. Dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, il governo Draghi ha fermato la riconversione delle vecchie centrali a carbone per far fronte alla crisi energetica e loro, che sono impegnati nella costruzione delle macchine per il passaggio al gas, si sono ritrovati da un giorno all’altro senza lavoro. L’azienda, controllata dal ministero dell’Economia attraverso la Cassa depositi e prestiti, in pochi mesi ha cumulato un passivo di 442 milioni di euro ed è arrivata all’autunno senza avere neppure i soldi per pagare gli stipendi.
Agli inizi di settembre, l’amministratore delegato Giuseppe Marino ha inviato una lettera ai dipendenti in cui giustifica il disavanzo con «una congiuntura internazionale che vede un forte rallentamento, se non un’interruzione, in Europa e nei mercati da noi storicamente aggredibili, degli investimenti sul turbogas, con conseguente difficoltà allo stato attuale nel finalizzare nuovi ordini». L’Ansaldo Energia ha fatto sapere che a peggiorare i conti ha contribuito l’aumento dei costi dell’elettricità e delle materie prime. I sindacati denunciano una situazione di “pre-fallimento”. Secondo la Fiom-Cgil, nei reparti non viene più fatta la manutenzione e diverse macchine sono ferme perché mancano i pezzi di ricambio. Scarseggia persino l’olio. «Ora al lavoro siamo in 2.400, ma non sappiamo tra qualche mese cosa accadrà e quali reparti rimarranno aperti», dice Federico Grondona, un operaio assunto alla metà degli anni Ottanta, quando la fabbrica si estendeva fino al mare.
Cambiata la politica energetica, nessuno in Italia vuole più le turbine a gas GT36 prodotte nello stabilimento genovese. Appena due anni fa, le macchine per trasformare il combustibile in energia erano state presentate dall’azienda come “le più potenti e performanti mai prodotte in Italia”, perché capaci di ridurre del 40 per cento le emissioni di CO2 e del 70 per cento quelle di ossidi di azoto. Il primo modello l’hanno venduto alla Edison per alimentare la centrale di Porto Marghera e renderla “la più efficiente d’Europa”, dissero le due aziende il giorno in cui firmarono l’accordo.
Tutto sembrava filare liscio. Il 2021 si era chiuso con un attivo di 32 milioni di euro e il 16 febbraio 2022 l’azienda ha presentato un budget finanziario che non lasciava presagire alcun problema. Nel 2023 avrebbero dovuto produrre altre tre turbine, due per la conversione a gas delle centrali a carbone di Brindisi e Civitavecchia e la terza per quella termoelettrica della Casella, in provincia di Piacenza, come era previsto nel Piano nazionale integrato per l’energia e il clima (Pniec) approvato a gennaio 2020 dal governo Conte per rispettare le indicazioni della Commissione europea.
Tutto è però cambiato nel giro di una settimana. All’alba del 24 febbraio Vladimir Putin ha ordinato l’invasione dell’Ucraina e il giorno seguente il primo ministro Mario Draghi, in un’informativa alla Camera dei deputati, ha ventilato l’intenzione di riaprire in via provvisoria le centrali a carbone italiane “per colmare eventuali mancanze di energia nell’immediato”. Si tratta di sette impianti dismessi, come quello dell’Enel a La Spezia, o in via di chiusura, come quelli di Brindisi, Civitavecchia, Portovesme e Venezia, gestiti sempre dall’Enel, di Monfalcone, di proprietà dell’A2A, e di Porto Torres, della compagnia Ep.
Di conseguenza, l’Enel ha deciso di non comprare più le turbine dall’Ansaldo. Per le centrali di Brindisi e Piacenza se ne riparlerà, se va bene, dal 2025, che è la data limite per l’uscita dell’Italia dal carbone fissata nella Strategia energetica nazionale, un documento di programmazione messo a punto dai ministeri dello Sviluppo economico e dell’Ambiente nel 2017 per gestire il cambiamento del sistema energetico fino al 2030. Per quella di Torrevaldaliga nord a Civitavecchia la questione invece appare chiusa: negli stessi giorni in cui il governo ipotizzava il ritorno al carbone, l’Enel ha deciso che la centrale non sarà riconvertita a gas, ma sarà sostituita da una piattaforma eolica in mare aperto, accogliendo le richieste degli ambientalisti, dei comitati cittadini e dei sindacati che chiedevano la dismissione della vecchia centrale.
Nel giro di pochi mesi, nella fabbrica genovese la situazione è precipitata. Il primo agosto il consiglio d’amministrazione dell’Ansaldo Energia ha deciso di rivedere il piano industriale per adeguarlo al “mutato contesto macroeconomico”, agli “impatti geo-politici” e alle “mutate esigenze del settore”. Due giorni dopo, i vertici aziendali hanno convocato i sindacati per annunciare che nel 2023 sono previste circa 250 mila ore di “scarico”, vale a dire di minor lavoro. Il segretario ligure della Fiom-Cgil Stefano Bonazzi le traduce in un terzo di lavoratori da mandare in cassa integrazione, più o meno 800, ai quali andrebbero aggiunti altri 600 delle aziende dell’indotto. Se non arrivano nuove commesse nel giro di pochi mesi, il neonato governo Meloni dovrà fronteggiare una crisi con pesanti risvolti economici e sociali. La prima del suo mandato.
A Genova sarebbe la fine di un’era cominciata 170 anni fa nel quartiere di Sampierdarena. «Per noi l’Ansaldo è un simbolo, come la Lanterna», il faro che sovrasta il porto, dice Bonazzi. «Qui tutti hanno un amico, un conoscente o un parente che ci lavora o ci ha lavorato, una sua crisi coinvolgerebbe, dal punto di vista sentimentale, buona parte della città». Lui stesso, ingegnere alla Leonardo, è figlio di un operaio dell’Ansaldo. Per questo, quando il 23 ottobre impiegati e operai hanno scioperato e diviso in due la città bloccando cinque punti strategici, dalla sopraelevata al casello autostradale di Genova ovest, nessuno ha protestato per i disagi, neppure gli automobilisti rimasti imbottigliati nel traffico.
Al contrario, i manifestanti si sono trovati al loro fianco i portuali e i loro colleghi di Fincantieri e degli altri stabilimenti della vicina area industriale di Cornigliano, come l’ex Ilva e Leonardo. In quattro Circoli operai alcuni cittadini hanno portato da mangiare e la Comunità di San Benedetto al Porto si è mobilitata per sostenere la protesta. I commercianti di Sampierdarena hanno chiuso i negozi per solidarizzare con loro e gli operai ne sono rimasti colpiti al punto che nei giorni seguenti una loro delegazione è andata a ringraziarli uno per uno. Federico Grondona era fra loro. «Ci siamo sentiti meno soli e più forti», dice. Il presidente della Regione Giovanni Toti e il sindaco Marco Bucci, entrambi di centrodestra, hanno condannato i blocchi e l’occupazione dell’aeroporto, definendole “azioni di teppismo”.
I manifestanti chiedevano innanzitutto un impegno formale dei vertici aziendali a ricapitalizzare la società, primo passo per evitare il fallimento. Alla fine della giornata non avevano ottenuto alcuna risposta. Così «abbiamo deciso di alzare il tiro e di andare avanti a oltranza», raccontano ai cancelli. La mattina seguente si sono avviati in corteo verso il vicino aeroporto e lo hanno occupato. Cinque ore dopo, l’Ansaldo ha inviato una nota nella quale ha scritto che avrebbe valutato “tutte le iniziative possibili” sul piano finanziario, compresa una “ricapitalizzazione della società”. La dichiarazione, inoltrata alle agenzie di stampa oltre che ai sindacati, ha avuto l’effetto di rassicurare le banche, che avevano sospeso le linee di credito, e i fornitori che attendevano da mesi di essere pagati. I lavoratori hanno sospeso la protesta in attesa del nuovo piano industriale, previsto entro la metà di novembre. Poi «andremo chiedere conto al ministero del Made in Italy», dice Roberto Mingoia, un operaio da vent’anni all’Ansaldo che non maschera la disillusione per un futuro che non appare promettente.
L’Ansaldo è un colosso dell’industria nazionale ed è considerata troppo grande e importante per fallire. È una delle maggiori produttrici al mondo di centrali elettriche, nel 2021 ha fatturato 800 milioni di euro e impiega 3300 persone, due terzi dei quali nello stabilimento genovese. Lo Stato è l’azionista di maggioranza, visto che la Cdp equity, una società per azioni creata dalla Cassa depositi e prestiti per “investire in aziende di rilevante interesse nazionale”, possiede l’88 per cento delle quote.
Dopo gli scioperi, l’azionista di maggioranza ha versato 35 milioni di euro nelle casse della società. In più, sta pensando di convertire in patrimonio aziendale un prestito di 200 milioni di euro erogato dalla stessa Cdp equity nel 2019. In buona sostanza, l’azionista di maggioranza compenserebbe il credito che vanta nei confronti dell’azienda convertendolo in capitale, in modo da non farlo pesare sui bilanci. In questo modo l’azienda sarebbe salva, almeno per il momento, anche se per Bonazzi «si tratta di un intervento già previsto da una precedente ricapitalizzazione che serve a garantire il pagamento degli stipendi dei prossimi mesi, che altrimenti sarebbero stati a rischio, ma non va oltre». «Dovevano essere 50 milioni e sono diventati 36», lamenta Grondona.
Il socio di minoranza Shanghai Electric sta invece dismettendo le sue azioni. La multinazionale cinese dell’elettricità aveva fatto il suo ingresso nella società nel 2014, un anno dopo il passaggio da Finmeccanica-Leonardo alla Cassa depositi e prestiti, acquistando il 40 per cento delle quote, per un totale di 400 milioni di euro. L’intesa, firmata davanti all’allora primo ministro Matteo Renzi e alla ministra della Difesa Roberta Pinotti, del Partito Democratico, prevedeva la costituzione di due joint venture per la produzione di turbine a gas destinate ai mercati asiatici e lo sviluppo di un centro di ricerca a Shanghai. Negli anni successivi la società cinese ha però disinvestito: non ha partecipato alla ricapitalizzazione del 2019, scendendo al 12 per cento del capitale, e non intenderebbe mettere soldi nemmeno stavolta, riducendo ancora le sue quote. Per questo l’Ansaldo è alla ricerca di nuovi investitori privati.
Soprattutto, ha bisogno di altre commesse per evitare un pesante piano di ridimensionamento. Con il mercato italiano bloccato, i manager guardano a quello internazionale. I lavoratori chiedono invece al governo una soluzione politica per quella che ritengono un’azienda strategica per l’intero paese. «Se vogliono tutelare il made in Italy, devono farci produrre le turbine, comprandole e tenendole ferme in attesa della conversione al gas delle centrali elettriche, che prima o poi ci sarà», dice Grondona. Si tratta di una procedura che gli addetti ai lavori chiamano “a sbalzo”. «La ricapitalizzazione da sola può aiutarci nell’immediato, ma nel lungo periodo vogliamo sentire il rumore del lavoro», conclude Bonazzi.
Le linee guida per il nuovo piano industriale dettate dagli amministratori della società non puntano però tanto sul gas, quanto sul nucleare e sulle rinnovabili. La compagnia avrebbe intenzione di potenziare la controllata Ansaldo Nucleare e di far sviluppare la nuova Ansaldo Green Tech, una start up costituita nel giugno 2021 per puntare sulle energie alternative e ancora tutta da costruire. Lo ha confermato alla fine di settembre l’ad Marino, intervenendo all’Italian energy summit organizzato a Milano dal Sole 24 Ore: «Ansaldo ha una fortissima base nel mondo del gas, che stiamo preservando, ma al tempo stesso stiamo puntando sul green tech e sul nucleare, dove abbiamo un patrimonio di 250 ingegneri di eccellenza per lavorare sui progetti di fusione nucleare e sul nucleare sicuro di terza e quarta generazione». I lavoratori genovesi però non credono molto a nessuna delle due prospettive. Grondona scuote la testa: «il nucleare pulito ha tempi lunghi, invece l’eolico e il fotovoltaico non basterebbero ad assorbire tutti i dipendenti genovesi, noi qui sappiamo fare le turbine a gas e vogliamo proseguire». «Il gas rimarrà ancora per una decina d’anni ed è l’unica cosa che può darci lavoro nell’immediato», aggiunge Bonazzi.
Ai cancelli dell’Ansaldo danno per scontato che il piano industriale prevederà una riduzione del lavoro, e la conseguenza sarà la cassa integrazione per una parte dei dipendenti o l’attivazione di contratti di solidarietà, che permetterebbero di mantenere tutti al lavoro riducendo gli orari e il salario. Grondona si dice convinto che «faranno la ricapitalizzazione solo in cambio di un ridimensionamento di Ansaldo Energia», per questo «il piano industriale ridurrà gli operai e tanti impiegati». «Siamo disposti ad accettare la cassa integrazione, ma solo se ci daranno delle prospettive serie di rientrare al lavoro, altrimenti torneremo a protestare», dice Mingoia. Per farsi ascoltare, questa volta dicono che sono disposti a spostarsi fino a Roma. Anche se, ammette, «ci troviamo più a nostro agio quando manifestiamo a Genova».