A cosa serve la politica, visto da Trieste
«La città celebrata dalle riviste internazionali che naviga senza bussola e, quel che è peggio, senza rotta. C’è però un metodo di lavoro: nessun confronto con i cittadini, né con le circoscrizioni, tantomeno con l’opposizione (quando c’è). In questa politica che è poco politica vale la regola della “città è mia, decido io”, il modus operandi di chi gode di ampio consenso e poca cultura democratica»
In occasione di una lezione a una platea di studenti, Ferdinando Cotugno, giornalista esperto di cambiamento climatico, si è sentito rivolgere una domanda semplice: «Io sono vegana, faccio la raccolta differenziata, cerco di muovermi con i mezzi pubblici» ha detto una studentessa, «però sento che non sto cambiando le cose. Come posso fare?». La risposta di Cotugno ha la limpidezza delle questioni importanti: «Vai a votare e dai peso al tuo voto».
La buona vecchia politica. Quella che sembra svuotata di senso, perché il discorso si sarebbe spostato altrove, non nelle piazze, più facilmente sulle piattaforme. Rimane però la questione di come trasformare il discorso dei post e dei commenti social in azioni che incidano sulla realtà, e questo ponte tra idee e azioni è, almeno per ora, ancora compito della politica.
Per ragionare su questo voglio prendere un caso piccolo, un po’ periferico. Guardiamo a Trieste, ad esempio.
Città per lungo tempo dimenticata dall’Italia, oggi fa bella mostra di sé sulle copertine dei giornali internazionali: la piazza affacciata sul mare, il multiculturalismo asburgico, la rivoluzione basagliana… Glorie naturali e dei tempi che furono. Ogni città ha però bisogno di un’idea di sviluppo, di una visione verrebbe da dire, per incarnare se stessa. Cosa ne è di Trieste dopo un ventennio di amministrazione politica senza idee (quasi sempre di centro-destra e per un breve, insignificante tratto, di centro-sinistra)?
Lo si capisce camminando per le strade, attraversando la piazza che si affaccia sul golfo, fino al Molo Audace, da sempre punto magnetico per foto da cartolina: da qui si usava ammirare il lungomare di palazzi asburgici, il tramonto che si rifletteva sulle alte vetrate della vecchia Pescheria. Da un po’ di tempo però questo skyline non è più visibile dal molo. E dalla piazza grande lo sguardo non fugge più lungo la linea della costa croata, perché quasi ogni giorno la vista è chiusa dalle grandi navi che troneggiano attraccate ai moli. Le stesse che Venezia è riuscita a respingere dalle sue fragili acque, e ora ormeggiano a Trieste regalando uno spettacolo da luna park in scala cinese.
Il ritorno economico è presumibilmente basso, dal momento che i croceristi dormono e mangiano sui mastodonti all-inclusive, ma intanto il paesaggio è mozzato e i motori perennemente accesi, in mancanza di banchine elettrificate, sono una presa in giro lussuosa delle angosce ecologiche. Questo spettacolo è una decisione politica, lo tengano a mente quei Fridays For Future che si dicono apolitici.
Continuando a camminare, in pochi passi si arriva al Porto Vecchio. Per decenni unico porto franco d’Europa, chiuso alla cittadinanza e forse aperto a traffici poco tracciabili. Da qualche anno è stato, grazie a un’azione politica, restituito ai cittadini che oggi possono andare a fare jogging lungo i suoi due chilometri di suggestivi edifici industriali. Ma che progetto c’è per questo pezzo di città ancora in gran parte inagibile? I restauri sono costosi, si procede per piccole unità e già si vede una parte dei vecchi edifici inscatolati in un’architettura da centro commerciale, gli altri verranno con buona probabilità venduti al miglior offerente (cinese?) perché vi faccia quello che meglio crede. Così finisce la parte antica della città, il suo cuore sul mare.
Da qui è meglio non alzare lo sguardo verso il colle carsico, potrebbe essere una delle ultime volte che lo si vede intatto, con la boscaglia autunnale da quadro impressionista. Pare infatti che l’amministrazione comunale sia determinata a costruire un’ovovia che dalle strade alte del Carso porterebbe i cittadini direttamente sul mare, con un risparmio del traffico veicolare calcolato attorno all’1%. Un’ovovia nella città della Bora. Una storiella da ridere, non fosse una realtà possibile di pessimo gusto.
Il paesaggio a Trieste è quindi lasciato in balia di commerci spicci, manca un’idea o anche solo il suo racconto. A contare è l’economia, si dirà. Stiamo a vedere.
In una città che, per la sua storia, ha il più basso sviluppo industriale e manifatturiero d’Italia, a trionfare è il terziario. Eccola allora l’idea di sviluppo economico: bar e ristoranti. Trapizzino, Salsamenteria, pizzerie di catena, tutti uguali da Napoli a Roma a Milano. Con buona pace della retorica asburgica e dei begli articoli di Claudio Magris sul vecchio locale che serve ancora buonissimi bolliti con crauti, e resiste forse anche grazie alla notorietà che gli ha dato il grande scrittore. Insomma, grazie alla cultura.
Il proliferare di bar e ristoranti è andato di pari passi con il trionfo del cibo a domicilio. Pakistani, afgani, siriani, tutti giovani uomini con stipendi da fame o in nero, sfidano la città sui colli e la domenica affollano il Molo Audace dandosi alla pesca con la mosca. La città crocevia di culture non sembra avere un piano per questi cittadini che arrivano da altri paesi fuggendo da catastrofi climatiche o guerre, lungo la famigerata rotta balcanica che finisce proprio a Trieste. Li si ritrova accampati in piazza della Libertà, davanti alla stazione. E se qualcuno prova ad aiutarli, a costruire un minimo di rete perché abbiano un paio di scarpe o un biglietto del treno per raggiungere i parenti in Europa, contro quei singoli volonterosi si scatenano i controlli polizieschi, le perquisizioni in casa nel cuore della notte: staranno mica trafficando in clandestini?
Ecco allora che la città deturpata nella sua facile bellezza, lasciata in balia di odi politicamente fomentati, diventa fragile. Una fragilità che è prima di tutto emotiva, mentale. Ma a quello sa fare fronte, no? È pur sempre l’avamposto della rivoluzione psichiatrica, un modello d’eccellenza mondiale, il laboratorio di una rete sul territorio che ha unito con successo sanità pubblica, assistenza sociale e abitativa. No, da qualche anno questo modello è sotto attacco. L’ultimo, simbolico, è stato lo sfratto di Marco Cavallo, l’enorme statua azzurrina creata in quei lontani anni Settanta da artisti, medici, matti, uomini e donne e persone che la propria identità non sapevano più nemmeno immaginarla. Un simbolo, ma anche un pezzo di Storia nato in un momento in cui in molti credettero che prima di ogni cosa viene l’uomo, e gli uomini sono tutti diversi ma con uguali diritti, e se qualcuno li perde per strada, allora perdiamo tutti qualcosa, perché quella condizione di perdita ci spaventerà e diventeremo più timorosi, esposti a ricatti e minacce, incapaci di solidarietà.
Il modello sanitario di Trieste sta venendo smantellato perché business is business, e la sanità fa fare i miliardi, ma non quando riguarda la salute mentale. A guidare è la retorica spiccia della privatizzazione. Svendiamola a pezzi questa città, il suo Porto Vecchio e la sua rete sanitario-assistenziale. A poco serve il luminoso esempio del Porto Nuovo, che grazie alla visione del direttore Zeno D’Agostino ha dimostrato che se non si cede alla privatizzazione dei servizi non solo si migliorano le condizioni lavorative delle persone, ma si offrono servizi migliori, più agili, si fanno più soldi. Ma sono necessarie le idee, appunto. Quali idee per la città?
A guardare il martoriato tessuto culturale non c’è da essere ottimisti. L’unica idea al momento è la cancellazione della figura del direttore museale. Così gli ingenti fondi stanziati per musei vecchi e nuovi (trentatré milioni solo per il Museo del Mare) non saranno gestiti da comitati scientifici, ma probabilmente da pochi super funzionari, dirigenti abili a spartirsi i fondi e a cui non è richiesta una visione, una competenza nel merito.
Trieste dunque. La città celebrata dalle riviste internazionali che naviga senza bussola e, quel che è peggio, senza rotta. C’è però un metodo di lavoro: nessun confronto con i cittadini, né con le circoscrizioni, tantomeno con l’opposizione (quando c’è). In questa politica che è poco politica vale la regola della “città è mia, decido io”, il modus operandi di chi gode di ampio consenso e poca cultura democratica.
Trieste è un esempio piccolo, periferico, da un lontano margine della nazione. Ma i sismografi più sensibili stanno sempre sulle faglie di confine e a volte permettono di vedere meglio il futuro che verrà, per l’intera nazione. E se c’è una cosa in questo esempio che può essere utile, è la consapevolezza che l’assenza di visioni e di idee, o la loro distanza dalla politica, si traduce in un presente povero e in un futuro incerto. Abbiamo sempre bisogno di storie che immaginino il futuro ed è compito della politica dare un corpo a queste storie, renderle reali. Per questo aveva ragione Ferdinando Cotugno nella sua risposta alla studentessa: la realtà la si può costruire solo insieme, e la politica è al momento ancora il modo migliore che abbiamo per farlo.