Cosa è rimasto a Riace del “modello Riace”
Nell’ultimo anno il sistema messo in piedi dall’ex sindaco Mimmo Lucano, oggi sotto processo, è lentamente ripartito, anche per l’arrivo di alcune famiglie afghane
di Alessandra Pellegrini De Luca e Antonio Russo
Il 26 ottobre è ripreso il processo d’appello contro Domenico Lucano, l’ex sindaco di Riace, in provincia di Reggio Calabria. Lucano è il principale imputato: era stato condannato in primo grado a 13 anni e due mesi di carcere, il 30 settembre 2021, perché giudicato colpevole di una serie di reati compiuti nella gestione dei celebri progetti di accoglienza dei migranti che aveva realizzato nella sua città, raccontati in tutta Europa e nel resto del mondo come un modello di integrazione e solidarietà.
La requisitoria davanti alla Corte d’appello di Reggio Calabria, dopo una commentata riapertura dell’istruttoria dibattimentale, si è conclusa con una richiesta di condanna a 10 anni e 5 mesi di reclusione per Lucano: pena inferiore rispetto a quella stabilita dal Tribunale di Locri nel primo grado di giudizio, ma giudicata comunque da molti sproporzionata rispetto ad accuse che sono state estesamente criticate e considerate pretestuose.
A Lucano, sindaco dal 2004 al 2018, viene contestato di aver aggirato le leggi che regolano l’ingresso e il soggiorno in Italia, di aver commesso una serie di irregolarità nella rendicontazione delle spese e nell’affidamento di servizi pubblici relativi ai progetti di accoglienza, e di aver strumentalizzato l’integrazione degli stranieri per realizzare investimenti illeciti utilizzando soldi pubblici avanzati da quei progetti. I reati di cui è accusato sono associazione a delinquere, truffa, peculato, falso e abuso d’ufficio.
Con la vicenda giudiziaria in corso Riace si è svuotata e molti dei migranti che ci vivevano sono stati portati via. Ma nell’ultimo anno sono arrivate alcune famiglie dall’Afghanistan in fuga dal regime dei talebani, e l’accoglienza nel borgo è lentamente ripartita grazie a una serie di donazioni che, in mancanza di altre forme di finanziamento legate ai progetti di accoglienza, stanno permettendo a chi ci vive di abitarci e lavorare.
Sulla statale 106 jonica, all’altezza dell’incrocio con la strada che da Riace marina porta su in paese, un cartello turistico consunto e sbiadito dal sole riporta ancora la dicitura «Il paese dell’accoglienza».
Da settembre 2019 lo stesso cartello non è più presente all’ingresso del borgo, dove era stato montato nel 2007 da Lucano durante il primo dei suoi tre mandati consecutivi. Su iniziativa dell’amministrazione guidata dal sindaco di centrodestra Angelo Trifoli, sostenuto dalla Lega alle elezioni e in carica da maggio 2019, è stato sostituito da un cartello con la dicitura: «Il paese dei santi medici e martiri Cosimo e Damiano», installato in occasione del 350° anniversario del trasporto da Roma delle reliquie dei due santi patroni della città.
Riace ha oggi una popolazione di circa 1.890 abitanti, in larga parte residenti della marina, la parte bassa del paese attraversata dalla statale. Erano circa 2.345 a dicembre 2016, durante uno dei periodi più intensi di sbarchi degli ultimi anni.
All’epoca circa 500 migranti erano ospitati nel «Villaggio globale», l’area del borgo in cui ancora oggi le famiglie di profughi arrivate negli ultimi mesi e altri migranti – per un totale di circa 40 persone, per la maggior parte bambini – abitano le case abbandonate del centro storico, recuperate e messe in affitto nell’ambito delle iniziative portate avanti dalla precedente amministrazione comunale.
Una mappa disegnata e posta all’ingresso del villaggio indica dove si trovano i vari laboratori artigianali, le botteghe e le altre attività sparse nel borgo e sviluppate negli anni grazie al lavoro dell’associazione Città Futura: attività a cui, prima dell’avvio delle vicende giudiziarie relative alla gestione dell’accoglienza, lavoravano in totale nel centro storico circa 80 persone, tra migranti e abitanti di Riace. Nonostante il blocco dei finanziamenti che ne avevano reso possibile l’apertura, alcuni laboratori sono attivi ancora oggi, o stanno cercando di riaprire dopo un periodo di interruzione delle attività.
«L’accoglienza a Riace non si è mai interrotta», ha detto Mimmo Lucano, che oggi vive a Riace e continua informalmente a lavorare con i migranti e gli abitanti del borgo impegnati nelle botteghe e nei laboratori ancora aperti.
Una delle iniziative attive è la bottega del ricamo “I ricami di Herat” (dal nome dell’omonima città afghana): fu aperta 13 anni fa e poi di nuovo nel 2019, dopo una chiusura temporanea. Durante la pandemia fabbricò mascherine in tessuto e le distribuì gratuitamente agli abitanti del centro storico. «Era quel momento in cui non se ne trovavano da nessuna parte», ha raccontato una delle riacesi che oggi lavorano nella bottega insieme ad alcune delle migranti rimaste in paese.
Altre persone arrivate dall’Afghanistan, dal Pakistan, dall’Eritrea e da altri paesi, e che si sono nel frattempo trasferite in altre città d’Italia o d’Europa, avevano lavorato in quella stessa bottega, nel laboratorio tessile, nella bottega del cioccolato e in altri laboratori, insegnando in alcuni casi tecniche di artigianato sconosciute alle persone del paese.
Caterina, una delle due donne riacesi che si occupano della bottega, ha detto che fu proprio grazie all’avvio di questa attività nell’ambito del cosiddetto “modello Riace” che iniziò a lavorare: prima era sempre stata una casalinga. Non è l’unica esperienza simile a Riace, e l’impressione è che il sostegno di cui gode Lucano nel borgo sia legato anche alle opportunità che il suo modello di accoglienza ha creato per molti abitanti locali.
È Lucano stesso a ribadire che il suo obiettivo era costruire un modello di accoglienza da cui potessero trarre beneficio sia i migranti che le persone che abitavano già la città.
Il lavoro delle persone impegnate oggi nelle varie attività di accoglienza e integrazione ancora presenti a Riace, regolato da un contratto che scadrà a fine dicembre, è reso possibile da tutte le donazioni arrivate a Riace da dopo la condanna di Lucano.
In due stanze di un antico palazzo nobiliare, sede dell’associazione Città Futura e dichiarato di interesse storico e artistico, alcune persone nate e cresciute a Riace lavorano nel doposcuola per i bambini delle famiglie di profughi, solitamente suddivisi in classi multilingue da 12, e di corsi di alfabetizzazione e di italiano per gli adulti. Una delle insegnanti, Roberta, ha 25 anni e studia scienze per la cooperazione e lo sviluppo all’Università della Calabria, a Cosenza. Vorrebbe rimanere a Riace anche dopo la laurea magistrale, ha detto, e come lei altri giovani del paese variamente interessati alla gestione e valorizzazione del patrimonio sociale, culturale e storico del territorio.
Un altro ragazzo di Riace è poi tra le persone che si stanno occupando delle pratiche burocratiche e delle autorizzazioni necessarie per riaprire il «frantoio sociale», un’attività sviluppata nel centro storico in anni recenti utilizzando un locale dismesso. Tra il 2019 e il 2020, prima dell’inizio della pandemia, il frantoio aveva impiegato in totale circa dieci persone, tra quelle impegnate nella raccolta e quelle ai macchinari.
A Riace è rimasto attivo anche l’ambulatorio sanitario fondato e gestito dall’associazione Jimuel, presieduta dal dottore Isidoro Napoli. Nell’ambulatorio prestano servizio (in questo caso volontario) la cardiologa Emmida Multari, la ginecologa Sandra Commisso e il pediatra Roberto Trunfio. A fruirne sono non soltanto i migranti che arrivano a Riace – spesso donne in gravidanza, o anziani in condizioni di fragilità aggravate dai lunghi viaggi sostenuti – ma anche persone del paese che hanno difficoltà a raggiungere strutture più distanti: «L’ambulatorio di Jimuel è un esempio di come a Riace l’accoglienza abbia portato a creare un servizio di cui usufruiscono tutti», ha spiegato Napoli.
Le difficoltà più recenti dell’ambulatorio sono state determinate dalla necessità di ristrutturare e rendere agibile la struttura in cui si trova attualmente, un antico edificio nella parte più alta del borgo, dopo la richiesta presentata dall’attuale amministrazione comunale di liberare la sede precedente, più vicina al municipio e alla piazza centrale.
La «fattoria didattica» è invece una delle parti di Riace poste sotto sequestro nel 2019 e non più riaperta da allora. È un’area che si trova nella valle dietro il borgo, vicina a un’antica sorgente da cui le persone trasportavano l’acqua, prima che arrivasse nelle case a partire dagli anni Ottanta. Attraverso lavori iniziati nei primi anni Dieci del Duemila, l’area fu recuperata rimuovendo i rifiuti presenti e costruendo orti, vasche per la raccolta dell’acqua, piccoli casotti per gli attrezzi e stalle per gli animali.
Per un breve periodo, negli anni in cui il centro storico era popolato da un maggior numero di migranti rispetto a oggi, alcuni asini allevati nella fattoria furono utilizzati per la raccolta differenziata porta a porta nelle strette vie del borgo, recuperando un’usanza un tempo molto diffusa. La stalla inizialmente destinata agli asini è tra le strutture della fattoria poste sotto sequestro perché considerate abusive e sprovviste dei certificati di idoneità abitativa.
Nel corso dell’ultimo anno Riace si è lievemente ripopolata grazie ad alcune famiglie di profughi afghani arrivate con un corridoio umanitario gestito da una serie di associazioni, tra cui la stessa Jimuel. Come altre iniziative in corso a Riace da dopo l’inizio del processo, anche questa è il risultato di uno sforzo collettivo di organizzazioni e persone che raccontano di credere nel valore del modello di accoglienza locale e di non volerne vedere la fine.
L’iniziativa che ha portato all’arrivo dei migranti afghani a Riace si chiama Corridoio Kabul Roma Riace e ha coinvolto oltre a Jimuel una serie di altre associazioni tra cui la Comunità cristiana di base di San Paolo di Roma e quella La Porta di Verona, l’Associazione Cittadinanza e Minoranze di Roma, l’Associazione Una Città Non Basta di Marino (provincia di Roma), col sostegno anche della Caritas e della Comunità di Sant’Egidio.
Tutto è partito dalla Comunità cristiana di base di San Paolo di Roma: Antonella Garofalo, membro della comunità, ha raccontato che dopo la conquista talebana di Kabul, la capitale dell’Afghanistan, alcuni afghani di Roma avevano chiesto aiuto alla Comunità per far espatriare dei loro parenti dal paese. La Comunità si era messa allora in contatto con le altre associazioni per coordinarsi per ottenere e pagare i visti d’ingresso temporanei per i migranti all’ambasciata italiana di Islamabad, in Pakistan, dove nel frattempo erano arrivate le famiglie, «di cui ci siamo assunti tutte le responsabilità», ha detto Napoli di Jimuel.
Le famiglie afghane che vivono a Riace oggi sono quattro. Tutte beneficiano del prezioso lavoro da mediatore linguistico di Alì, trentacinquenne abitante afghano di Riace, arrivato via mare e accolto in paese nel 2015 dopo un viaggio a piedi durato circa 4 mesi, attraverso Afghanistan, Pakistan, Iran, Turchia e Grecia. Oggi aiuta i migranti afghani a orientarsi nel nuovo contesto.
Tra questi c’è Mohammed Shafiq Tawfiq: ha 36 anni e vive a Riace da circa un mese col resto della famiglia, tra cui il figlio piccolo e la madre anziana. Nella piazzetta assolata del Villaggio globale racconta di essere fuggito dall’Afghanistan per il timore di ritorsioni contro la parte più istruita della popolazione. Lui, che dice di aver lavorato come reporter e in università sia pubbliche che private afghane, è peraltro un hazara, etnia a lungo perseguitata nel paese e soprattutto dai talebani.
Insieme a lui c’è anche Anisa Habibzada, una pittrice afghana di 39 anni che prima di fuggire dal paese insegnava pittura all’università di Herat. Dall’Afghanistan Habibzada ha portato con sé alcune delle sue tele, che tiene conservate nell’atrio di un bilocale del borgo: ritraggono donne afghane che danzano, suonano strumenti musicali e scattano foto con l’iPhone, tra le altre cose.
Oggi i migranti che vivono a Riace hanno ripreso a lavorare insieme agli abitanti del luogo: con numeri e dimensioni molto ridotte, fanno tutto ciò che ha reso celebre nel mondo il cosiddetto “modello Riace”. I fondi per pagare tutto questo, compreso l’affitto degli appartamenti, non arrivano però più dal ministero dell’Interno e dalla prefettura di Reggio Calabria, che come confermato dal nuovo sindaco Trifoli sono ancora sospesi, ma dalle donazioni. A Riace è rimasta prima di tutto una «splendida rete di solidarietà», ha commentato Luisa Morgantini, ex vicepresidente del Parlamento europeo oltre che attivista molto vicina a Riace e a Mimmo Lucano.
I fondi più consistenti sono quelli che Lucano chiama il “fondo Manconi”, cioè i fondi raccolti dall’associazione A Buon Diritto, fondata e presieduta dall’ex senatore Luigi Manconi (PD) attraverso una sottoscrizione aperta e pubblica iniziata lo scorso luglio, conclusa il 31 ottobre e che aveva come obiettivo la raccolta di 100mila euro. «Grazie a questi fondi riusciamo a pagare le borse lavoro, gli stipendi degli insegnanti del doposcuola e contiamo di poter andare avanti ancora un anno», ha detto Mimmo Lucano. «Sono mezzi molto ridotti rispetto a quelli che avevamo in passato, ma ci stanno permettendo di non far morire questo progetto», ha aggiunto.
Oltre al fondo Manconi ci sono anche le donazioni dell’iniziativa Diamo Luce a Riace, ideata e gestita da Fabio Zanotti, che fa parte del consiglio d’amministrazione della cooperativa bolognese Camilla, per pagare le bollette della luce delle abitazioni in cui vivono i migranti, delle botteghe e degli edifici del Villaggio globale. La raccolta fondi è ancora aperta: «con le donazioni continuative – da 10 euro o più al mese – stiamo riuscendo a raccogliere mediamente circa un migliaio di euro al mese: il nostro obiettivo è riuscire a continuare a pagare le bollette nonostante gli aumenti dei prezzi, e idealmente anche riuscire a pagare qualche affitto», ha detto Zanotti.
Sia la precaria ripartenza attuale delle attività di accoglienza che i raccontati successi passati del modello riguardano sostanzialmente la sola parte superiore del comune. Come per altri paesi costieri limitrofi del reggino, c’è una certa distanza – circa 7 chilometri di strada – tra il centro storico di Riace e la parte bassa del paese, la «marina», attraversata dalla statale jonica. La percezione descritta da diversi abitanti e indirettamente confermata dai risultati delle elezioni comunali più recenti, vinte nel 2019 dal candidato di centrodestra e attuale sindaco di Riace Trifoli, è che i sentimenti di approvazione e riconoscenza per il lavoro svolto dalla precedente amministrazione e da Lucano siano oggi prevalentemente concentrati nel centro storico.
Questi sentimenti sembrano invece meno diffusi a Riace marina, la parte più abitata del paese e quella più turistica, in cui sono presenti anche diverse seconde case di proprietari non residenti. E riflettono una divisione dell’elettorato che a Riace esiste da sempre e sicuramente da prima di Lucano, ha detto il gestore di un locale sulla costa. Una delle ipotesi formulate da alcuni residenti è che il centro storico sia la parte del paese che più ha beneficiato, sia sul piano urbanistico e architettonico che su quello sociale, degli effetti positivi legati al processo di integrazione dei migranti nella realtà locale.
Ci sono però tentativi di esperimenti simili a quello di Riace superiore in altri borghi vicini: il più citato dai locali è quello di Camini, piccolo comune vicinissimo a Riace, dove insieme al sindaco Pino Alfarano l’associazione Jungi Mundu ha dato vita a un esperimento di accoglienza sullo stesso modello. E in generale, come ha raccontato la dottoressa Multari, questo stesso approccio umanitario alla questione dell’integrazione dei migranti è considerato non un’eccezione ma parte della cultura storica di molti paesi della zona, da Badolato a Caulonia ad altri lungo la costa jonica calabrese.
Nella mensa sociale del Villaggio globale di Riace, Lucano racconta di come il processo in corso non abbia cambiato il modo in cui lui vede e vive Riace. Nel borgo capita di vederlo indaffarato a montare una porta di calcio per i bambini che giocano nella piazzetta, trasportare alla mensa sociale una busta di uova fresche raccolte nel pollaio, spostarsi qua e là per svolgere commissioni. «Farò politica locale finché vivo: il rapporto diretto con la comunità è ciò che mi appaga e che mi dà senso di esistere», dice.
Benché si dica abbattuto e amareggiato dall’esito del processo di primo grado, per cui si aspettava una piena assoluzione, Lucano sostiene di essere rimasto favorevolmente colpito dalle moltissime manifestazioni di solidarietà nei suoi confronti, così come dall’arrivo delle donazioni grazie a cui tutto va provvisoriamente avanti: «chissà come finirà questa storia, almeno non l’abbiamo fatta morire».
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