IranWire cerca di raccontare le proteste con l’aiuto degli iraniani
Le censure su internet rendono indispensabili le capacità tecnologiche e di verifica delle notizie e delle immagini del giornale online
di Pranshu Verma - The Washington Post
Il mese scorso Aida Ghajar ha visto un tweet in cui si diceva che una ragazza era stata picchiata dalla polizia iraniana ed era ricoverata in ospedale. Non c’era un nome della donna e nessuna conferma che il fatto fosse effettivamente accaduto.
Ghajar, una giornalista della combattiva testata giornalistica digitale IranWire, ha contattato insieme al suo direttore l’ampia rete di fonti del giornale, e una è riuscita a entrare in ospedale e a confermare la notizia.
La fonte ha inoltre fornito il numero di telefono del fratello della ragazza. Quando Ghajar l’ha chiamato, l’uomo li ha implorati di raccontare la storia della sorella. E ha detto loro il suo nome: Mahsa Amini. L’articolo di Ghajar è uscito su IranWire il 14 settembre. Il giorno dopo è stato tradotto in inglese. Il 16 settembre la giornalista di un’altra testata ha dato la notizia che Amini era morta. «Siamo stati i primi a citare il nome della ragazza» spiega Ghajar in un’intervista. «E ora, ovunque, in ogni paese, conoscono Mahsa».
Da quando il mese scorso è stata diffusa la notizia che la 22enne Amini era stata uccisa dalla polizia religiosa iraniana – una squadra di agenti incaricati di far rispettare la morale islamica – che l’aveva arrestata per non aver indossato correttamente il velo, il paese è attraversato da grandi proteste civili. Il regime autoritario iraniano ha cercato di reprimerle con la violenza, con la disinformazione e bloccando l’accesso a internet.
Grazie alle sue capacità tecnologiche e alle indagini condotte su internet, IranWire ha assunto un ruolo di primo piano nel determinare il bilancio delle vittime delle proteste. Le sue riprese dal vivo sono regolarmente trasmesse da CNN. La rete di citizen journalism di IranWire – persone comuni che vogliono mettere il governo di fronte alle sue responsabilità – aiuta a dare notizie su storie che ottengono l’attenzione globale, dalle conseguenze della morte di Amini alla punizione inflitta all’atleta iraniana Elnaz Rekabi per aver gareggiato senza l’hijab.
«Siamo stanchi e tristi per il popolo iraniano» dice la redattrice Shima Shahrabi. «Ma d’altra parte siamo determinati a far sentire più forte le loro voci». IranWire appartiene a una rete globale di testate giornalistiche come Bellingcat, Rappler e Coda che mirano a riferire con rigore ciò che sta accadendo nei regimi autoritari tramite reportage sul campo e un uso creativo della tecnologia. Il progetto è un’idea del giornalista iraniano Maziar Bahari. Quando lavorava per Newsweek, Bahari era stato detenuto nella famigerata prigione iraniana di Evin a causa del suo lavoro.
Dopo il suo rilascio nel 2009, Bahari aveva visto comparire online i video delle proteste anti-governative che si svolgevano in tutto il paese. Non erano video «di buonissima qualità», ha detto in un’intervista, ma la voglia del paese di denunciare la brutalità del regime era palese. Allo stesso tempo i giornalisti iraniani stavano abbandonando il paese per sfuggire alla repressione. Bahari decise allora di creare una testata giornalistica che potesse mettere in contatto giornalisti professionisti al di fuori dell’Iran con le persone – spesso insegnanti, avvocati, medici e studenti – all’interno del paese che potessero fornire e documentare notizie verificate e di alta qualità.
Dal 2014 IranWire e i suoi giornalisti all’estero hanno istruito circa seimila iraniani su come trasformare gli eventi cui assistevano in prima persona in un pezzo di giornalismo che potesse essere verificato e superare esami di accuratezza. E prodotto degli opuscoli su come comunicare in modo sicuro e anonimo. Insegna poi tecniche di giornalismo di base, spiegando per esempio come tenere al meglio una videocamera per le riprese e ricordando di annotare la data, l’orario e il luogo della registrazione.
IranWire si appoggia ad applicazioni che consentono di accedere alle informazioni online anche se ci si trova in un luogo in cui l’accesso a internet è bloccato. Per nascondere la posizione geografica, raccomanda di utilizzare Tor, un browser digitale che aiuta a eludere la censura e il monitoraggio del governo, in combinazione con altre reti virtuali private.
Omid Shams, direttore della documentazione di IranWire, dice che la testata utilizza tecniche di investigazione digitale e open source intelligence per costruire un database di video e documenti in cui sia evidente che il regime iraniano sta opprimendo sistematicamente i suoi cittadini. Per tutto il mese scorso Shams e il suo team hanno ricevuto video raccapriccianti di presunti pestaggi e omicidi avvenuti durante le proteste. Per verificare l’autenticità di un video prendono un fermo immagine, lo esaminano in cerca di segnali stradali e punti di riferimento, e poi verificano la posizione con le mappe di Google e le immagini satellitari. Analizzare l’ombra del sole aiuta a verificare l’orario, spiega Shams.
IranWire sta compilando un bilancio online delle vittime per tenere traccia di quante persone siano morte durante le proteste. La sensibilità personale è spesso messa alla prova. Shams ricorda quando il 6 ottobre ha ricevuto un video in cui un anziano cullava tra le braccia un bambino morto. Il messaggio di Telegram riportava il presunto nome e l’età del bambino e il luogo dell’accaduto, ma era la verità?
Dalla sua casa di Londra, Shams ha contattato fonti a Teheran e ne ha incaricate due attendibili di verificare i dettagli. Ha analizzato ogni singolo fotogramma del video, notando che il foro di proiettile nella guancia del bambino sembrava un foro d’uscita, e questo lasciava pensare che potesse essere stato colpito alla schiena mentre scappava. «Chi l’ha ucciso voleva farlo» ha detto. Ora, Javed Poushe, 11 anni, ucciso nella provincia di Zahedan, ha il suo nome e la sua storia custoditi online per essere conosciuti da chiunque. «Qualcuno deve farlo» ha detto Shams in un’intervista: «Qualcuno deve mettere i nomi nero su bianco, o resteranno solo un numero». Ma la sfida che ci attende è pesante, dice Shams.
Gli esperti politici iraniani sostengono che il blocco di internet continuerà a ostacolare il flusso di informazioni. Il regime ricorre a campagne di disinformazione per negare notizie attendibili di pestaggi e uccisioni. Intima alle famiglie di non parlare con la stampa e le costringe a mentire e sostenere che alcuni fra loro siano rimasti feriti per proteggere il regime stesso. Per combatterlo IranWire deve verificare rigorosamente le proprie fonti ed essere creativo, dice Shams.
Quindi essere estremamente meticolosi quando si tratta di analizzare video in cui qualcuno è stato colpito da un’arma da fuoco. Per reprimere le proteste le forze dell’ordine iraniane hanno iniziato a indossare uniformi di tipo diverso, ha detto Shams, e distinguere a quale unità appartengano non è facile. Per risalire al giusto ramo delle forze dell’ordine, bisogna dare peso al minimo dettaglio come il tipo di arma utilizzata.
Ma per creativo o innovativo che sia, ha detto Shams, IranWire non catturerà mai l’intera portata delle atrocità perpetrate in Iran: «Non c’è modo di conoscere con precisione la portata di ciò che sta accadendo».
Gissou Nia, esperta di diritti umani presso il think tank americano Atlantic Council, spiega che il lavoro che IranWire e altre testate simili stanno facendo è fondamentale. Diversamente dall’Ucraina, dove gli investigatori internazionali hanno accesso ai luoghi del crimine, l’Iran è chiuso a ogni forma di controllo: «Questi giornalisti che si occupano di questioni relative ai diritti umani sono la nostra principale fonte di informazione».
Il lavoro che svolgono, però, è pericoloso e li espone al rischio di essere arrestati: «La Repubblica Islamica dell’Iran vede il lavoro sui diritti umani come qualcosa di sovversivo nei confronti del governo». Altre organizzazioni internazionali dovrebbero aiutare, ha detto, osservando che quando la Russia ha invaso l’Ucraina, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha creato un partenariato pubblico-privato per condurre indagini open source che documentassero i crimini. «Per l’Iran non ne abbiamo uno» dice. «Serve più aiuto».
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(traduzione di Sara Reggiani)