Come gli italoamericani sono diventati bianchi
Sono stati discriminati ed emarginati per decenni, poi progressivamente integrati nella società statunitense, ma sulla loro identità etnica ancora oggi c'è qualche equivoco
Durante un recente dibattito in vista del ballottaggio per le elezioni a sindaco di Los Angeles, in programma il prossimo 8 novembre, il candidato Democratico italoamericano Rick Caruso ha corretto una delle moderatrici che lo aveva definito «bianco». Al dibattito partecipava oltre a Caruso la candidata Democratica afroamericana Karen Bass, che potrebbe diventare la prima sindaca nera nella storia della città. Caruso è un miliardario di 63 anni, nato a Los Angeles e figlio di un facoltoso imprenditore di origini italiane, Henry Caruso.
«Il prossimo sindaco di Los Angeles sarà o una donna afroamericana o un uomo bianco», aveva premesso Dunia Elvir, giornalista del canale televisivo statunitense in lingua spagnola Telemundo, prima di rivolgere una domanda a entrambi riguardo alle attenzioni che, in caso di elezione, destineranno alle comunità latine. Caruso ha interrotto Elvir specificando di essere «italiano», e «cioè latino», in un passaggio del dibattito che è poi circolato molto e ha generato diversi commenti: tanto più in un contesto – quello americano in generale e californiano in particolare – in cui l’identità etnica è un tema molto presente e notoriamente controverso.
Negli Stati Uniti peraltro viene definita per varie ragioni storiche “identità razziale”, con una terminologia che è entrata nell’uso anche in Italia, sebbene sia controversa e criticata in quanto le razze umane non esistono.
Il tentativo di Caruso di puntualizzare le proprie origini è sembrato ad alcuni una prova di quanto sia attualmente percepito come uno svantaggio politico tra i Democratici essere bianchi a Los Angeles, una città con una numerosissima popolazione di altre etnie. Ad altri è sembrato un goffo e probabilmente inefficace tentativo di accattivarsi simpatie nel consistente elettorato di origini latine.
Altri commenti si sono soffermati sulle peculiarità dell’identità etnica degli italiani negli Stati Uniti e sulla sua evoluzione storica, fatta di fasi di violenze, ghettizzazione ed emarginazione – comuni a quelle subite da altre minoranze del presente e del passato – e di una successiva e graduale integrazione. «L’identità bianca è sempre stata elastica, e sicuramente ora comprende italiani bianchi come Rick Caruso», ha scritto il giornalista del Los Angeles Times Jamil Smith, sminuendo il senso di qualsiasi presunta parentela attuale tra un imprenditore italoamericano come Caruso e la popolazione latina di Los Angeles a cui la giornalista alludeva durante il dibattito.
Eppure, decenni prima di essere considerati parte integrante della popolazione bianca americana, gli italoamericani subirono per lungo tempo discriminazioni e violenze utili a comprendere l’elasticità dell’«identità bianca» citata da Smith. E la storia di come passarono da una condizione di emarginati a quella di americani bianchi mostra quanto i pregiudizi razziali siano variabili nel tempo ma sostanzialmente equivalenti negli effetti che provocano nella società americana in termini di ingiustizia sociale.
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Nel XVIII secolo, racconta lo storico statunitense Matthew Frye Jacobson nel libro degli anni Novanta Whiteness of a Different Color, la correlazione tra la «bianchezza» e il diritto di cittadinanza negli Stati Uniti era un fatto del tutto normale. Il Congresso aveva stabilito nel 1790 che, tra i migranti che arrivavano nel paese, «tutti i bianchi liberi» avrebbero potuto chiedere di diventare cittadini, a determinate condizioni.
Quel criterio subì una sostanziale revisione quando i massicci flussi migratori di persone provenienti da zone culturalmente molto diverse dell’Europa generarono crescenti paure nella popolazione americana. Questa situazione portò all’applicazione di una politica più restrittiva nell’attribuzione della «bianchezza». E in un linguaggio via via più diffuso – utilizzato, tra gli altri, da giornalisti, politici e funzionari che si occupavano di immigrazione – cominciarono a emergere distinzioni in «razze» nella considerazione di quei numerosi gruppi di migranti europei tutti apparentemente bianchi.
Gli italiani provenienti dal sud Italia e con la pelle più scura, in particolare i siciliani, subirono negli Stati Uniti discriminazioni razziali simili a quelle all’epoca diffuse nell’Italia settentrionale, racconta Jacobson. E in molte città quelle persone cominciarono a essere temute e disprezzate dalla popolazione, peraltro suggestionata da stereotipi razzisti sempre più diffusi nelle descrizioni giornalistiche degli italiani. In alcuni casi, come avvenuto ai danni di altre minoranze discriminate, agli italiani fu vietato accedere alle scuole e ai cinema, o far parte dei sindacati, e in chiesa fu loro impedito di utilizzare i banchi riservati ai bianchi.
Come riferito dalla storica statunitense Jennifer Guglielmo nel libro Are Italians White? How Race is Made in America, nella seconda metà dell’Ottocento la stampa descriveva gli italiani come una razza «dalla carnagione scura» e «dai capelli crespi», persone incivili e inclini alla criminalità. Questa cattiva reputazione era inoltre attestata dalla diffusione di insulti razzisti come «dago» o «guinea», un termine utilizzato per indicare le persone africane in schiavitù. Altri epiteti popolari erano «white nigger» («negro bianco») e «wop» («guappo», «cafone mangiaspaghetti»), attestati anche nei frasari di molta narrativa americana del XX secolo e di scrittori celebri come William Faulkner.
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Una delle ragioni per cui gli italiani erano di fatto contrassegnati come «neri» pur arrivando in America come «bianchi liberi», ha scritto sul New York Times il giornalista statunitense Brent Staples, era che accettavano lavori considerati all’epoca «da neri», come per esempio nei campi di canna da zucchero della Louisiana. O anche solo perché vivevano insieme agli afroamericani. Di conseguenza, spesso subirono in quei contesti gli stessi linciaggi e le stesse violenze subite dalla comunità di origine africana, peraltro oggetto di approfondimento nel libro Corda e sapone. Storie di linciaggi degli italiani negli Stati Uniti della storica italiana Patrizia Salvetti.
Un passaggio storico fondamentale nel processo di integrazione degli italiani nella popolazione bianca americana fu l’istituzione del Columbus Day, la festa nazionale dedicata all’esploratore italiano Cristoforo Colombo – si celebra ogni anno il secondo lunedì di ottobre – e inizialmente, nella seconda metà del XIX secolo, osservata soltanto in alcuni stati. Questa festa permise agli italoamericani di ottenere uno spazio nel mito di fondazione del paese e di cambiare progressivamente la narrazione fino a quel momento prevalente sul loro conto. Ma alla storia del Columbus Day è legato uno dei più conosciuti e sanguinosi linciaggi di massa della storia statunitense, avvenuto a New Orleans nel 1891 proprio ai danni di cittadini italoamericani.
Per provare a contestualizzare meglio quell’evento, Staples ha scritto sul New York Times che i linciaggi degli italiani avvennero in un momento in cui i giornali del Sud, definendo abitualmente gli afroamericani «demoni», «predatori» e «criminali nati», legittimavano indirettamente le frequenti impiccagioni e il rogo di quelle persone. E anche testate giornalistiche del Nord e quotidiani nazionali autorevoli giustificarono le violenze presumendo la colpevolezza delle vittime e sminuendo peraltro voci dissidenti come quella della giornalista afroamericana Ida B. Wells, che raccontò all’epoca che quei linciaggi erano fondati su false accuse di stupro usate contro i neri che avevano rapporti consensuali con donne bianche.
Alla fine della Guerra civile (1861-1865) i migranti italiani furono considerati in Louisiana una preziosa fonte di manodopera a basso costo in un momento in cui l’emancipazione degli schiavi neri aveva enormemente accresciuto la domanda nelle piantagioni dello stato. Ma i rapporti tra la popolazione e gli italiani peggiorarono progressivamente quando i migranti si opposero ai salari troppo bassi e alle condizioni di lavoro degradanti, e quando gli italiani cominciarono a sviluppare proficue attività di lavoro autonomo e relazioni sociali con gli afroamericani.
I giornali cominciarono a descrivere negativamente gli italiani, persone considerate «disgraziatamente povere e non qualificate», «affamate e completamente indigenti» e «anelli di una catena evolutiva discendente», come scrisse il New York Times in diversi articoli usciti tra il 1874 e il 1887. «Da quando esiste New York non è mai esistita tra gli immigrati che si sono riversati qui una classe così bassa e ignorante come quella degli italiani del sud che hanno affollato i nostri moli durante l’ultimo anno», scrisse il New York Times in un editoriale del 1882 intitolato I nostri futuri cittadini.
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In questo contesto nazionale e locale, nell’autunno del 1890 il capo della polizia di New Orleans David Hennessy fu assassinato mentre tornava a casa. Hennessy aveva molti nemici, come raccontato dallo storico John V. Baiamonte Jr., e una volta era stato accusato e processato per l’omicidio di un suo rivale.
Sulla base di una testimonianza incerta, 19 italiani – per lo più appartenenti alla comunità siciliana della città – furono accusati dell’omicidio di Hennessy. I primi nove tra loro a essere giudicati furono assolti dalle accuse principali per mancanza di prove o per vizi procedurali, in un processo molto controverso a causa del sospetto che la giuria fosse stata corrotta dalla criminalità organizzata italiana.
Il 14 marzo 1891 una folla di migliaia di persone – almeno 3 mila, secondo i resoconti dell’epoca – assalì la prigione della città in cui i migranti italiani accusati dell’omicidio erano in attesa di un’altra sentenza, e ne uccisero undici. Utilizzando gli stereotipi razzisti già diffusi da decenni, i giornali scrissero che al linciaggio aveva partecipato «la parte migliore» della società di New Orleans e che erano morti «siciliani furtivi e codardi», «discendenti di banditi e assassini, che hanno trasportato in questo paese passioni illegali e pratiche spietate».
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Come documentato e raccontato da Salvetti, il linciaggio degli italiani a New Orleans provocò nelle relazioni diplomatiche tra Italia e Stati Uniti una crisi che portò al ritiro dei rispettivi ambasciatori e, in seguito, al pagamento di un risarcimento alle famiglie italiane delle vittime da parte del governo americano. Governo che probabilmente non avrebbe fatto niente se le vittime fossero state nere, ha aggiunto Staples.
Dopo essersi impegnato attivamente per la risoluzione dell’incidente diplomatico, nel 1892 il presidente americano Benjamin Harrison dichiarò inoltre il Columbus Day festa nazionale una tantum, in occasione del 400° anniversario del viaggio di Cristoforo Colombo. Questa celebrazione, poi diventata festa nazionale stabile nei decenni successivi, permise agli italoamericani di ridefinire di fatto il mito di Colombo come quello del primo migrante della storia, sebbene Colombo non avesse mai messo piede nel Nord America né fosse rimasto poi a vivere nelle terre da lui “scoperte”.
Nonostante l’intervento del presidente Harrison e prima che il mito di Colombo si estendesse in tutto il paese, la reputazione degli italiani negli Stati Uniti rimase tuttavia a lungo condizionata negativamente dalle descrizioni diffamatorie circolate dopo il linciaggio di New Orleans. Il politico di Boston Henry Cabot Lodge, influente senatore repubblicano tra il 1893 e il 1924 nonché amico del presidente Theodore Roosevelt, utilizzò i fatti di New Orleans come argomento a sostegno di politiche nazionali che regolassero l’immigrazione di persone provenienti da determinate parti dell’Europa.
I flussi di migranti provenienti dall’Italia e da altri paesi dell’Europa meridionale e orientale furono limitati attraverso l’approvazione da parte del Congresso di diverse leggi specifiche negli anni Venti, che estesero progressivamente le categorie di persone non ammesse negli Stati Uniti. Con l’Immigration Act del 1924, in particolare, il numero massimo di nuovi ingressi ammessi per ciascuna nazionalità di provenienza fu calcolato in proporzione alla quota di popolazione di quella nazionalità già presente negli Stati Uniti stando ai dati di un censimento del 1890.
L’obiettivo delle leggi era preservare una certa composizione demografica del paese e favorire l’immigrazione dall’Europa nord-occidentale, riducendo nel frattempo quella dai paesi dell’Europa meridionale e orientale, che era stata prevalente nei decenni precedenti. Ma quelle leggi non furono comunque sufficienti a ridurre significativamente la percentuale complessiva di italiani sul totale dei migranti. E quando il sistema di quote restrittive fu abolito dall’Immigration and Nationality Act del 1965, gli italiani erano comunque diventati il secondo gruppo più numeroso d’America – oltre 5 milioni di migranti, arrivati tra il 1820 e il 1966 – dopo la Germania.
Nel corso degli anni la loro presenza era costantemente cresciuta anche in termini di partecipazione politica, come peraltro dimostrato dagli italoamericani che lavorarono alla campagna per l’abolizione delle restrizioni all’immigrazione nel 1965. E anche al di fuori della politica le condizioni economiche degli italoamericani migliorarono di pari passo con quelle del resto del paese. In tanti riuscirono a ricevere un’istruzione dello stesso livello di quella dei cittadini americani bianchi e a sfruttare le opportunità di lavoro emerse per gran parte di quella popolazione fin dalla fine della Seconda guerra mondiale.
I più giovani lasciarono i quartieri delle grandi città popolati quasi esclusivamente da italoamericani, preferendo vivere in altre aree urbane e nelle periferie. E la condivisione della religione cattolica favorì relazioni e matrimoni con persone di altri gruppi etnici, e successivamente anche con persone di altre fedi ma che godevano di privilegi tipicamente concessi alle persone bianche. Nel frattempo, sempre più italoamericani di seconda e terza generazione apportarono contributi significativi alla vita e alla cultura americana del Novecento: da Frank Sinatra a Joe DiMaggio a Martin Scorsese, per citarne solo alcuni.
Nel 2020, secondo stime dell’ufficio del censimento americano, poco più di 16,5 milioni di persone riferivano di avere origini italiane parziali o complete (circa il 5,1 per cento della popolazione americana). Considerando che l’ascendenza riportata nel censimento è un dato auto-riferito dalle persone e difficile da verificare, si ritiene che un certo declino nel riferire origini italiane – declino riscontrato a partire dagli anni Duemila – possa essere semplicemente effetto della crescente assimilazione culturale degli italoamericani nell’identità più ampia dei bianchi americani.
L’integrazione degli italoamericani nella popolazione americana bianca è indirettamente confermata anche dall’evoluzione della percezione storica del Columbus Day. A lungo considerata una celebrazione fondamentale nella costruzione dell’identità italoamericana negli Stati Uniti, in anni recenti la festa è stata spesso associata in molti contesti non più al mito della fondazione del paese ma al passato coloniale e razzista dei paesi occidentali.
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Queste considerazioni, come dimostrano in parte anche le molte critiche ricevute da Caruso, rientrano nelle più ampie e dibattute espressioni americane della cosiddetta identity politics, quell’approccio alla teoria e all’azione politica che interpreta la realtà e i suoi problemi principalmente sulla base delle identità etniche, religiose, di genere, di orientamento sessuale. Approccio che si è straordinariamente diffuso e radicalizzato nella sinistra anglosassone negli ultimi dieci anni, arrivando secondo alcuni critici ad ottenere in certi contesti risultati in contraddizione rispetto a quelli iniziali, e cioè ad acuire le divisioni sociali e la frammentazione del dibattito politico.
La complicata e ambigua storia dell’identità etnica degli italoamericani in questo contesto frammentato riemerge ogni tanto in circostanze meno ufficiali e rituali del dibattito politico a cui ha preso parte Caruso, ma comunque significative. È argomento di riferimenti quotidiani e battute umoristiche, per esempio, come nel caso di una recente puntata del celebre programma televisivo Saturday Night Live. Parlando di presunte accuse rivolte al nuovo governo italiano di diffondere idee sulla «supremazia bianca», il conduttore Colin Jost ha concluso scherzando: «Assurdo. Adesso contiamo gli italiani come bianchi?».