Le cose che sappiamo dell’incendio nel carcere di Teheran
Dopo due settimane il Washington Post ha messo insieme testimonianze e analisi dei video sulle violenze a Evin
di Imogen Piper, Stefanie Le, Babak Dehghanpisheh - The Washington Post
Per oltre 40 anni il carcere di Evin a Teheran è stato il simbolo più visibile del governo autoritario della Repubblica Islamica, un complesso minaccioso costruito sulla paura e sul controllo assoluto. Le proteste raramente fanno breccia nelle mura della prigione. Ma la notte del 15 ottobre enormi incendi hanno devastato Evin, uccidendo almeno otto persone e ferendone 61, in base a quanto riferito dai mezzi di informazione statali. Le famiglie dei detenuti temono che il vero bilancio sia molto più alto.
Il disastro ha coinciso con le manifestazioni di protesta nazionali che hanno attraversato l’Iran nell’ultimo mese e con una brutale repressione da parte delle forze di sicurezza del paese, che hanno ucciso decine di manifestanti e arrestato diverse migliaia di persone. Alcuni dei detenuti sono stati portati a Evin, del quale i gruppi per i diritti umani hanno documentato una lunga storia di torture e altri abusi.
Video straordinari registrati la notte dell’incendio mostrano persone che urlano «Morte al dittatore» e «Morte a Khamenei», un riferimento alla Guida suprema dell’Iran, Ali Khamenei, e slogan dei manifestanti, mentre vengono sparati colpi d’arma da fuoco e le fiamme si innalzano sopra la prigione. Per capire cosa sia successo quella notte, il Washington Post ha analizzato decine di foto e video, ha parlato con attivisti, avvocati, ex detenuti e famiglie degli attuali detenuti, e ha consultato esperti di incendi dolosi, armi e audio forense.
For more than 40 years, Evin prison in Tehran has been the most visible symbol of the Islamic Republic’s authoritarian rule.
But on Oct. 15, massive fires tore through Evin, killing at least eight people and injuring 61, according to state media. https://t.co/hClb1r6iQE pic.twitter.com/S902ZHVcIr
— The Washington Post (@washingtonpost) October 26, 2022
I risultati sono evidenti: almeno un incendio sembra essere stato appiccato intenzionalmente in un momento in cui i prigionieri erano rinchiusi nelle loro celle. Il fuoco più letale è divampato vicino al luogo di questo incendio doloso. Mentre i detenuti cercavano di fuggire, le guardie e altre forze di sicurezza li hanno aggrediti con manganelli, munizioni da combattimento, pallini di metallo ed esplosivi.
Gli incendi
I disordini sono iniziati intorno alle 20:45, come mostra un video pubblicato da Mizan, il sito di notizie della magistratura iraniana. Il video sostiene che una rissa sia scoppiata nella sezione 7 e che i prigionieri abbiano poi dato fuoco a un vicino laboratorio di cucito. Le immagini satellitari analizzate dal Washington Post mostrano infatti ingenti danni al tetto dell’edificio di due piani al centro della prigione che ospita il laboratorio di cucito, nonché una sala religiosa chiamata Hussainiya al livello sottostante.
Ma non è stato l’unico incendio scoppiato nel carcere durante la notte, e probabilmente neanche il primo. Prima che le fiamme fossero visibili dall’esterno del laboratorio di cucito, i video mostrano almeno tre persone che lanciano liquidi infiammabili su un fuoco in cima a un edificio adiacente nella sezione 7, secondo Phillip Fouts, un investigatore antincendio certificato. Probabilmente l’incendio sul tetto non si è esteso, dice Fouts, per mancanza di materiale combustibile. Le immagini satellitari scattate in seguito mostrano danni minimi.
Eppure nelle immagini si vede un altro fuoco che divampa all’interno della sezione 7, vicino a dove i piromani avevano precedentemente alimentato le fiamme sul tetto. Questo secondo incendio sembra aver avuto origine all’ingresso della sezione 7, vicino a una postazione di guardia, secondo un ex detenuto che ha trascorso diversi anni nel carcere di Evin. Temendo ritorsioni, l’ex detenuto ha parlato con il Washington Post a condizione di mantenere l’anonimato.
Il Washington Post non può confermare come sia nato l’incendio all’interno della sezione 7, ma la sua vicinanza all’incendio doloso è eloquente. Ed è l’incendio all’interno della sezione 7 – di cui il governo in seguito ha accusato i detenuti senza fornire prove – ad aver fornito un pretesto per la caotica e brutale repressione dei detenuti che ne è seguita.
A detta dell’ex detenuto, i cancelli delle sezioni si chiudono ogni sera alle 17:00 dopo l’appello. Le famiglie degli attuali detenuti dicono che con le proteste del mese scorso i loro movimenti sono stati ulteriormente limitati. È quindi improbabile che i detenuti potessero accedere a una qualsiasi delle tre aree in cui sono scoppiati gli incendi.
Amnesty International ha riferito che gli spari e le urla nella sezione 7 sono stati uditi dai detenuti nelle sezioni vicine già alle 20,00, ben prima che fossero visibili le prime fiamme, e che «le autorità hanno cercato di giustificare la sanguinosa repressione dei detenuti con il pretesto di combattere le fiamme». La televisione di stato iraniana in seguito ha affermato che le forze di sicurezza stavano reagendo a un piano di fuga «premeditato» dei detenuti.
«È stato uno strano incidente accaduto in un momento in cui i detenuti in teoria dormono» ha detto Saleh Nikbakht, un avvocato che ha diversi clienti a Evin, al telefono da Teheran con il Washington Post: «una cosa grossa».
Videos from the night of the fire show people shouting “death to the Dictator” and “death to Khamenei,” a reference to Iran’s Supreme Leader, Ayatollah Ali Khamenei, and a rallying cry of demonstrators, as shots are fired and flames rise above the prison. https://t.co/hClb1r6iQE pic.twitter.com/0R8YKMXGH4
— The Washington Post (@washingtonpost) October 26, 2022
Come ha dichiarato il governo, la sezione 7 ospita condannati per rapine e reati finanziari, anche se l’ex carcerato ha detto al Washington Post che lì erano detenuti anche criminali più violenti. Dato altrettanto importante, la sezione 7 confina con la 8, dove sono detenuti dissidenti e prigionieri politici, e dove alla fine si è diffuso il fumo dell’incendio.
Una repressione letale
Mentre il fumo nocivo filtrava dalla sezione 7 nella 8, l’attivista per i diritti dei lavoratori Arash Johari, 30 anni, ha iniziato a tossire e ad annaspare, ha raccontato alla sua famiglia. Lui e il resto dei detenuti della sezione 8 hanno dovuto affrontare una scelta difficile: forzare i cancelli o soffocare. Hanno forzato i cancelli e si sono riversati nel cortile della prigione, dove – secondo i membri della famiglia che hanno parlato sotto anonimato per paura di ripercussioni da parte delle autorità – sono stati accolti da guardie infuriate a colpi di manganelli, proiettili e gas lacrimogeni.
Steven Beck, un esperto di audio forense, e dei ricercatori della Carnegie Mellon University, hanno analizzato separatamente i video forniti dal Washington Post e hanno scoperto che sono stati sparati più di 100 distinti colpi di arma da fuoco. Entrambe le analisi hanno identificato spari automatici «compatibili con un AK-47» così come altri che probabilmente provenivano da pistole e fucili. Mohammad Khani, un dissidente della sezione 8, è stato colpito al petto con dei pallini di metallo e ha preso un proiettile nel fianco, secondo un membro della famiglia che ha parlato sotto anonimato.
Beck ha anche riconosciuto almeno due esplosioni «compatibili con granate». Amael Kotlarski, analista senior ed esperto di armi di Janes, il fornitore di servizi di difesa dell’intelligence, ha esaminato filmati e audio forniti dal Washington Post e ne ha dedotto che siano state usate granate assordanti, «a giudicare dal lampo e dall’esplosione» nel video.
«Johari ha detto di essere stato colpito alla testa con un manganello e che aveva le vertigini e la nausea» ha detto un suo familiare: «e che aveva la vista offuscata e gli usciva sangue dalla testa». Le esperienze di Khani e Johari quella notte non hanno potuto essere verificate ulteriormente dal Washington Post, ma erano coerenti con i risultati ottenuti da Amnesty, così come con le precedenti indagini condotte dal Washington Post che documentavano l’uso eccessivo della forza contro i manifestanti iraniani.
Per far fronte ai disordini, a Evin sono stati inviati rinforzi che comprendevano «forze di sicurezza, polizia giudiziaria, forze Basij e unità speciali di polizia», ha detto nel video della magistratura il funzionario del carcere Heshmatollah Hayat Al Ghaib. I Basij sono un corpo paramilitare delle Guardie rivoluzionarie (IRGC) e hanno assunto un ruolo di primo piano nella repressione violenta dei manifestanti. A detta del governo, poco prima di mezzanotte l’incendio a Evin è stato estinto e i disordini sedati, anche se fonti che hanno familiari e amici che vivono intorno alla prigione hanno dichiarato al Washington Post che gli spari si sono sentiti fino alle 2 del mattino di domenica.
Secondo un membro della famiglia di Johari, tre autobus pieni di detenuti della sezione 8, compreso Johari, sono stati inviati da Evin alla prigione di Rajai Shahr, circa 40 miglia a ovest. Il video della magistratura mostra gli autobus scortati da auto della polizia con luci rosse lampeggianti. A Johari era stata promessa una radiografia per le ferite alla testa nel carcere di Rajai Shahr, ma le autorità non hanno provveduto, ha detto la sua famiglia.
Domenica Khani ha contattato la famiglia per dire che era stato gravemente ferito. I suoi parenti si sono battuti per fargli ottenere cure mediche esterne e le autorità carcerarie alla fine hanno ceduto, portandolo in un vicino ospedale. La ferita da proiettile nel fianco di Khani era profonda circa due dita e ha richiesto un intervento chirurgico, ha detto un suo familiare, aggiungendo che prima di rispedirlo a Evin i medici non gli hanno ricucito correttamente la ferita né gli hanno somministrato degli antibiotici. Ora può camminare solo con l’aiuto di altri prigionieri politici della sezione 8.
Decine di altre famiglie sono accorse a Evin domenica mattina per avere notizie dei loro parenti. Sono state respinte dai soldati finché non si è formata una grande folla che ha iniziato a battere sul cancello chiedendo risposte. Molte madri, pensando che i loro figli fossero morti, gridavano di dolore. «Quando le famiglie si sono riunite per fare domande le guardie hanno insistito che le persone si avvicinassero una alla volta, o avrebbero dovuto picchiarle» ha detto il parente di Johari, che quel giorno ha parlato con le famiglie presenti al carcere. «Non facevano che ripetere “Andate a casa, vi contattiamo noi”».
Altrove altre famiglie avevano paure simili. Tra i detenuti a Evin ci sono Siamak Namazi ed Emad Sharghi, due dirigenti d’azienda iraniano-americani. Quando sabato notte sono scoppiati i disordini, Namazi è stato spostato dalla sezione 4 alla 2A, che è gestita dall’IRGC, secondo suo fratello Babak. Durante i disordini Namazi sentiva gli spari e l’odore del fumo, ha detto suo fratello al Washington Post in un’intervista telefonica da Dubai. «È importante che il presidente Biden capisca quanto ci siamo andati vicino. A rimanere uccisi potevano essere Siamak ed Emad» ha detto Babak. «È la prova dell’assoluta urgenza e pericolosità della situazione in cui si trovano».
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(traduzione di Sara Reggiani)