Chi fu Enrico Mattei
Il presidente dell'Eni, ideatore di una politica energetica lungimirante e più giusta verso i paesi produttori, morì in un probabile attentato sessant'anni fa
Enrico Mattei, presidente dell’Eni, l’Ente nazionale idrocarburi, morì il 27 ottobre 1962. L’aereo su cui stava viaggiando da Catania a Milano, un bireattore Morane-Saulnier, precipitò alle 18,40 mentre era in discesa verso l’aeroporto di Linate, nella campagna di Bascapè, in provincia di Pavia. A bordo del velivolo, oltre a Mattei e a Irnerio Bertuzzi, ex pilota dell’aeronautica militare con due medaglie d’argento, una di bronzo e una croce al merito, c’era il giornalista di Life William McHale.
Il caso Mattei, celebre film del 1972 di Francesco Rosi con Gian Maria Volontè, presentò la tesi dell’attentato camuffato da guasto del motore. Un’inchiesta condotta dalla procura di Pavia e chiusa nel 2003 ha accertato che sull’aereo era stato piazzato un ordigno esplosivo. Non sono però stati mai individuati i mandanti.
Secondo le ipotesi più accreditate, a eseguire l’attentato sarebbero stati mafiosi italiani su mandato della mafia italoamericana. All’origine della decisione di uccidere il presidente dell’Eni ci sarebbero stati i pesanti contrasti con le cosiddette “sette sorelle”, cioè le sette grandi aziende petrolifere (Exxon, Mobil, Texaco, Standard oil of California, Gulf oil, l’anglo-olandese Royal Dutch Shell e la britannica British Petroleum) il cui potere era stato messo in discussione dall’Eni.
Mattei aveva anche ricevuto minacce dall’Organisation de l’Armée Secrète, l’organizzazione di estrema destra francese che, con attentati e omicidi, si era opposta all’indipendenza dell’Algeria, ottenuta proprio nel 1962. Mattei, in più occasioni, si era infatti schierato a favore dei movimenti di liberazione del paese nord africano e probabilmente finanziò anche il Fronte di liberazione nazionale. Nel centro di Algeri, nel 2021, è stato inaugurato un giardino che porta il suo nome. A lui è intestato anche il gasdotto che collega l’Algeria all’Italia, passando per la Tunisia.
Mattei non fu solo uno dei più grandi dirigenti d’azienda della storia italiana, ma anche protagonista del cosiddetto “boom economico” che caratterizzò gli anni a cavallo tra i Cinquanta e i Sessanta, quando l’Italia visse una forte crescita economica e tecnologica e divenne un paese industrializzato. Nel 1958 per la prima volta il numero di lavoratori dell’industria superò quello di chi era impiegato nell’agricoltura. Tra il 1951 e il 1963 il Prodotto interno lordo italiano crebbe in media del 5,9% ogni anno. Il picco ci fu nel 1961 con una crescita dell’8,3%. Dal 1953 al 1963 le spese per i consumi privati raddoppiarono, e molte di queste spese erano per spostarsi: auto e benzina.
Mattei fu anche ispiratore di una politica estera del dopoguerra che si distinse da quella di stampo più colonialista di altri paesi occidentali. Cattolico di sinistra, legato alla parte meno conservatrice della Democrazia Cristiana, fu anche fondatore nel 1956 del quotidiano Il Giorno, considerato all’epoca un giornale riformista, rivoluzionario nella grafica e nel linguaggio.
Enrico Mattei nacque ad Acqualagna, nelle Marche, oggi in provincia di Pesaro-Urbino, nel 1906. Primo di cinque fratelli, era figlio di un brigadiere dei carabinieri mentre sua madre era casalinga. Iniziò a lavorare giovanissimo in una conceria, a Matelica: prima come fattorino, poi come operaio, come vicedirettore e infine, a vent’anni, come direttore.
Nel 1928 la conceria fallì e Mattei si trasferì a Milano: vendeva vernici per un’azienda tedesca ma nel frattempo studiava chimica. Nel 1931 aprì una propria azienda chimica con tre operai. Era iscritto allora al partito fascista, probabilmente più per dovere che per convinzione, ma non fu mai attivo. Nel 1936 sposò la ballerina austriaca Margherita Paulus.
Nel 1943 lasciò la guida dell’azienda a due suoi fratelli e si unì alla Resistenza entrando a far parte del comando militare del Comitato di liberazione nazionale, in rappresentanza della Democrazia Cristiana. Sotto il suo comando le forze partigiane democristiane passarono da 2mila a 65mila unità. Il 29 aprile 1945, a Milano, sfilò alla testa delle formazioni partigiane che celebrarono la Liberazione. C’erano accanto a lui Luigi Longo, Ferruccio Parri, Raffaele Cadorna. Fu insignito della Medaglia d’oro della Resistenza e della Bronze Star dell’esercito americano.
Come molti altri ex comandanti partigiani, subito dopo la guerra venne incaricato di gestire un’azienda pubblica: l’Agip, l’Agenzia generale italiana petroli, fondata durante il ventennio fascista con l’obiettivo di cercare, acquistare, trattare e commerciare petrolio. Negli anni, l’Agip aveva scavato 350 pozzi in Italia, Albania, Romania, Ungheria senza mai trovare nulla di rilevante. L’azienda veniva chiamata “Associazione gerarchi in pensione” per sottolinearne l’inutilità.
Mattei però aveva saputo da un dirigente dell’Agip allontanato dall’azienda che nel 1944, nel lodigiano e precisamente nella zona di Caviaga, era stato trovato il petrolio. A causa dell’avanzamento del fronte di guerra e per il pericolo che il giacimento cadesse nelle mani degli angloamericani, la notizia era stata tenuta segreta e insabbiata.
Mattei andò a Caviaga, dove trovò attrezzature e macchinari fermi. Giorgio Valerio, presidente dell’azienda privata Edison, si offrì di comprare tutte le attrezzature per 60 milioni di lire. Era un’offerta molto allettante, ma Mattei decise di non vendere. Chiese prestiti alle banche, assunse i vecchi tecnici che erano stati licenziati e si batté per tenere in vita l’Agip e riprendere le trivellazioni a Caviaga. Il petrolio non c’era ma nel marzo del 1946 dal pozzo numero 2 uscì il metano. Il petrolio invece cominciò a essere estratto a Cortemaggiore, in provincia di Piacenza.
L’Eni iniziò a cercare ed estrarre metano in molte zone della Pianura Padana. In tempi estremamente rapidi, e senza intoppi, vennero realizzati impianti di estrazione in molte zone del settentrione. Mattei collegò tutto il paese con i gasdotti, distribuì quasi ovunque i benzinai Agip e fondò i primi grandi poli petrolchimici, come quello di Ravenna. Indisse un concorso per il logo e scelse il cane a sei zampe che sputa fuoco.
Affidò al regista Ettore Scola il compito di trovare uno slogan: venne creata la frase «Il miglior amico dell’italiano a quattro ruote». Fu Mattei a inventare le stazioni di servizio con i gabinetti, la pulitura dei vetri gratis, il controllo di olio e pneumatici.
Nel 1953 nacque l’Eni, di cui l’Agip divenne una delle colonne portanti. Quando nella seconda metà degli anni Cinquanta il giacimento petrolifero di Cortemaggiore stava per esaurirsi, Mattei iniziò a cercare accordi all’estero. Incontrò i dirigenti della Shell proponendo loro di aprire una raffineria in Tunisia, ma si sentì rispondere: «Trattiamo con i petrolieri, non con i venditori». L’Eni decise quindi di fare da sola.
Mattei andò nei paesi produttori e si offrì come partner, proponendo accordi molto diversi da quelli delle aziende americane e inglesi. Quelle che venivano chiamate le sette sorelle avevano imposto fin dagli anni Trenta contratti capestro (molto sbilanciati) con i paesi produttori, ottenendo in concessione giacimenti di petrolio o di gas, tenendo il 90% dei profitti e lasciando allo stato in cui si trovava il giacimento appena il 10 per cento. Dopo la Seconda guerra mondiale le cose erano progressivamente cambiate ma non accadeva mai che i produttori riuscissero a ottenere più del 50% dei profitti.
Mattei stravolse completamente il mercato proponendo di lasciare agli stati produttori il 75% dei profitti.
Nel 1957 l’Eni ottenne l’autorizzazione a cercare petrolio in tre zone dell’Iran. In un rapporto del Dipartimento di Stato americano datato 3 settembre 1957 si legge: «Gli obiettivi di Mattei in Italia ed all’estero dovrebbero destare preoccupazioni. Mattei rappresenta una minaccia per gli obiettivi della politica che gli Stati Uniti intendono perseguire in Italia».
Mattei strinse accordi con Marocco, Tunisia, Egitto nonostante l’ostruzionismo praticato in ogni modo dalle sette sorelle. Non è un caso che il governo italiano in quegli anni perseguì una politica chiamata “neoatlantismo”: il paese era ben radicato all’interno del patto atlantico (la NATO) e delle nazioni occidentali, ma aperto alla collaborazione con i cosiddetti paesi non allineati (che non facevano cioè parte né del blocco occidentale né di quello sovietico) affacciati sul Mediterraneo.
L’Eni e Mattei divennero molto influenti e potenti. Le politiche che gli avversari definivano “terzomondiste” erano sostenute dal Giorno, che allora era un quotidiano molto diffuso. L’Eni divenne una sorta di Stato nello Stato, con una propria flotta aerea.
Mattei, che era sempre circondato dalla sua guardia personale, composta da ex partigiani, utilizzava probabilmente in maniera disinvolta parte dei ricavi dell’azienda per conquistare il favore dei partiti politici. Disse: «i partiti per me sono come taxi. Salgo, pago la corsa e scendo». Su sua idea venne anche fondata Metanopoli, alle porte di Milano, una sorta di città ideale per dipendenti dell’Eni con complessi abitativi, impianti sportivi e centri di studio e di ricerca.
Nel 1960 Mattei fece qualcosa che nemmeno le aziende concorrenti avrebbero potuto immaginare: strinse un accordo con l’acerrimo nemico dell’Occidente, l’Unione Sovietica, per ottenere un notevole quantitativo di petrolio. Il New York Times accusò Mattei di essere filosovietico e l’Italia di non rispettare i patti del dopoguerra e mettere così a rischio i futuri equilibri politici.
Quando morì, Mattei stava concludendo un accordo con l’Algeria: negli anni precedenti aveva sostenuto con forza i movimenti di liberazione e indipendentisti. L’Eni aveva ospitato nei propri centri di istruzione molti algerini, per formare la classe dirigente del paese, e fece da consulente informale della delegazione algerina ai negoziati di Évian, che sancirono l’indipendenza del paese.
Dopo la morte di Mattei le trattative con l’Algeria si bloccarono. Eugenio Cefis, che era stato il grande oppositore di Mattei nel consiglio d’amministrazione e aveva poi lasciato l’azienda proprio in disaccordo con la politica industriale (una versione sostenne però che fu Enrico Mattei a volerlo allontanare perché Cefis teneva costanti contatti con le sette sorelle), assunse la guida dell’Eni.
La prima inchiesta sulla morte di Enrico Mattei si concluse nel 1966. Il giudice pavese Antonio Borghese decretò il «non doversi procedere in ordine ai reati rubricati a opera di ignoti perché i fatti relativi non sussistono». Venne ipotizzata una manovra mal eseguita e addirittura si disse che poteva trattarsi di un suicidio da parte del pilota, per una delusione d’amore. Anche una commissione d’inchiesta voluta dal governo concluse che l’aereo era precipitato probabilmente per un’avaria.
Eppure alcuni contadini di Bascapè, intervistati nelle ore successive all’incidente, avevano detto di aver visto l’aereo incendiarsi in volo. L’inchiesta concluse invece che il velivolo era esploso solo dopo essere precipitato a terra.
Un brigadiere dei carabinieri che all’epoca comandava la polizia giudiziaria alla pretura di Corteolona disse anni dopo che nel luogo in cui era precipitato il velivolo c’erano persone «in borghese, che non appartenevano all’Arma o alle forze di polizia, che ho poi ritenuto, diversi giorni dopo, potessero far parte dei servizi di sicurezza […]. Io ricordo che tali persone mi avevano dato fastidio perché il lavoro di ricerca era stato già fatto da noi e non capivo perché essi si sovrapponessero alle indagini svolte prioritariamente da noi dell’Arma: se io fossi stato il comandante li avrei allontanati, salvo che non fossero esecutori di ordini superiori».
Nel 1986, nel corso di un convegno di ex partigiani bianchi, cioè cattolici vicini alla Democrazia Cristiana, il leader della DC Amintore Fanfani disse che la morte di Mattei aveva rappresentato il primo gesto terroristico nel nostro paese.
Nel 1994 un ex mafioso divenuto collaboratore di giustizia, Gaetano Iannì, disse che «per l’eliminazione di Mattei c’era stato un accordo tra gli americani e Cosa Nostra». Qualche mese dopo il pentito Tommaso Buscetta spiegò ai magistrati che «il primo delitto “eccellente” di carattere politico ordinato dalla Commissione di Cosa Nostra, costituita subito dopo il 1957, fu quello del presidente dell’Eni Enrico Mattei. In effetti fu Cosa Nostra a deliberare la morte di Mattei, secondo quanto mi riferirono alcuni dei miei amici che componevano quella Commissione».
La richiesta di uccidere Mattei arrivò secondo Buscetta dalla mafia americana, «che chiese questo favore a nome della Commissione degli Usa e nell’interesse sostanziale delle maggiori compagnie petrolifere americane».
Nel 1996 a Pavia venne riaperta l’inchiesta. Il pubblico ministero Vincenzo Calia fece riesumare le salme di Mattei e del pilota Irnerio Bertuzzi. Nelle 450 pagine redatte a conclusione dell’inchiesta si legge che le perizie hanno «permesso di ritenere inequivocabilmente provato che l’I-SNAP precipitò a seguito di una esplosione limitata, non distruttiva, verificatasi all’interno del velivolo».
La carica esplosiva, scrisse il magistrato, «equivalente a circa cento grammi di Compound B, fu verosimilmente sistemata dietro il cruscotto dell’aereo, a una distanza di circa 10-15 centimetri dalla mano sinistra di Enrico Mattei, e probabilmente fu innescata dal comando che abbassava il carrello e apriva i portelloni di chiusura dei suoi alloggiamenti». E ancora: «È infatti provato che l’esplosione si verificò durante il volo e non in coincidenza o dopo l’impatto col suolo; che il serbatoio, i motori e la bombola d’ossigeno non esplosero».
Mattei arrivò in Sicilia il 26 ottobre. Quella notte l’aereo venne portato in un’area militare. L’esplosivo, secondo le ricostruzioni, venne piazzato mentre l’aereo si trovava nell’Officina Grandi Riparazioni dell’aeroporto di Catania. Scrisse ancora il pubblico ministero Vincenzo Calia: «L’esecuzione dell’attentato venne decisa e pianificata con largo anticipo, probabilmente quando fu certo che Enrico Mattei, nonostante gli aspri attacchi e le ripetute minacce, non avrebbe lasciato spontaneamente la presidenza dell’ente petrolifero di Stato».
L’inchiesta aperta nel 1996 venne chiusa sette anni dopo: erano state effettuate dodici nuove perizie e ascoltate 612 testimonianze. C’è la certezza, data dall’inchiesta, che a uccidere Enrico Mattei, Irnerio Bertuzzi e William McHale sia stato un attentato. Restano sconosciuti i nomi dei mandanti.
Qualche anno fa il magistrato Vincenzo Calia ha detto: «Mattei si poneva come obiettivo l’autonomia energetica dell’Italia, la sua scomparsa azzerò quel progetto industriale e il nostro paese tornò a dipendere dai grandi produttori internazionali». Durante le indagini, Calia trovò peraltro due appunti dei servizi segreti che indicavano Eugenio Cefis, che subentrò a Mattei nel ruolo di presidente dell’Eni, come il fondatore, insieme a Licio Gelli, della loggia massonica segreta P2.
Alla morte di Mattei è collegata la scomparsa del giornalista del quotidiano L’Ora di Palermo Mauro De Mauro. Nel 1970 De Mauro era stato incaricato dal regista Francesco Rosi di raccogliere elementi sulla morte di Mattei per collaborare alla realizzazione del film che sarebbe poi uscito nel 1972. De Mauro scomparve il 16 settembre 1970. Di lui non si è più saputo nulla.
Un’inchiesta giudiziaria aperta nel 2001 ha portato a un processo che si è concluso dieci anni dopo. Nel 2011, il processo della Corte d’Assise di Palermo che si concluse senza alcuna condanna confermò che con la scomparsa di De Mauro la mafia volle coprire i mandanti dell’attentato del 1962. I giudici della Corte d’Assise aggiunsero nella loro sentenza che la morte di Mattei fu un attentato eseguito dalla mafia «su input di una parte del mondo politico».