Il Partito comunista cinese uscito dal Congresso è molto diverso da quello di prima
Lo si vede soprattutto da alcune nomine dettate più dalla fedelta a Xi Jinping che dal merito, come quella di Li Qiang
di Guido Alberto Casanova
Domenica il Partito comunista cinese (PCC) ha rivelato i nomi dei sette funzionari che per i prossimi cinque anni siederanno all’interno del Comitato permanente del Politburo, l’organo di comando attraverso cui il PCC governa il paese. Le nomine sono arrivate il giorno successivo alla chiusura del XX Congresso del partito, un evento politico chiave durante il quale il segretario generale Xi Jinping ha consolidato il proprio potere per ottenere un terzo mandato e per collocare persone a lui fedeli in posizioni chiave.
Le nomine hanno fatto molto discutere, poiché si tratta di un chiaro e netto segnale di dominio politico per Xi. Tutte le persone che comporranno il prossimo Comitato permanente sono suoi alleati, che negli anni hanno servito sotto di lui o che godono di stretti legami personali. Cai Qi e Ding Xuexiang, rispettivamente i numeri 5 e 6 della nuova dirigenza, sono stati suoi collaboratori e sottoposti mentre Li Xi, il numero 7, avrebbe rapporti personali pluridecennali con la famiglia di Xi Jinping. Gran parte dell’attenzione però si è concentrata su Li Qiang, l’attuale segretario del partito a Shanghai, cioè un amministratore locale, e fedele alleato di Xi, che è diventato il numero 2 della dirigenza del PCC immediatamente dietro al segretario generale.
Secondo la corrispondenza tra istituzioni pubbliche e di partito vigente in Cina, ciò significa che Li Qiang dovrebbe diventare il prossimo premier cinese, una posizione che assumerà formalmente la prossima primavera, sostituendo Li Keqiang. Sempre in primavera, Xi Jinping sarà invece confermato presidente per il terzo mandato consecutivo: la carica di presidente va di pari passo con quella di segretario generale del partito, ma la più importante è quest’ultima, perché è il partito che detiene il potere effettivo.
Benché della sua nomina si parlasse da un po’ (per esempio in queste indiscrezioni del Wall Street Journal di qualche giorno fa), la notizia della promozione di Li Qiang ha destato molta attenzione tra gli osservatori della politica cinese. Il principale motivo ha a che fare con lo strettissimo legame tra lui e Xi Jinping. «I rapporti personali sono il collante maggiore nella lotta tra fazioni», dice Filippo Fasulo, analista dell’ISPI che si occupa di Cina. «Li Qiang infatti è stato uno stretto collaboratore di Xi Jinping nella provincia del Zhejiang, che è il serbatoio principale della fazione di Xi», cioè del gruppo di potere all’interno del Partito comunista che fa riferimento a lui, e che oggi è di gran lunga il più potente.
La lealtà di Li verso il segretario generale sembra essere fuori questione come dimostrato dal durissimo lockdown di Shanghai, imposto in ottemperanza alla strategia “zero-Covid” di cui Xi Jinping si è fatto promotore. Sebbene i costi per la cittadinanza siano stati altissimi e l’immagine del partito ne abbia sofferto molto (sia per via delle inefficienze nella distribuzione dei beni di prima necessità sia per la rabbia generata tra la popolazione), l’ortodossia con cui Li ha applicato il lockdown a Shanghai sembra essere stata reputata da Xi come credenziale dell’indiscutibile fedeltà del proprio alleato.
La dipendenza politica di Li Qiang da Xi Jinping rompe gli schemi istituzionali cinesi in almeno due modi. La prima convenzione infranta ha a che fare con l’esperienza amministrativa. Negli ultimi decenni una delle caratteristiche di chi veniva designato come nuovo premier era quella di aver occupato la carica di vice premier per i 5 anni precedenti alla propria nomina. Li Qiang però non ha mai ricoperto tale carica e a quanto risulta dal suo curriculum non ha neanche mai servito in una posizione amministrativa del governo centrale.
Il secondo modo in cui la nomina di Li rompe gli schemi consolidati riguarda invece una prassi più informale. In quanto espressione di un partito da 96,71 milioni di iscritti e di un paese di 1,41 miliardi di abitanti, la dirigenza negli ultimi tre decenni si era sempre premurata di selezionare un segretario generale e un premier che potessero incarnare sensibilità ed esigenze politiche differenti. Per lo meno dal punto di vista delle esperienze personali, le due figure avevano estrazioni diverse e in alcuni casi erano anche portavoce di fazioni diverse all’interno del partito. Era successo negli ultimi dieci anni, con Xi Jinping e Li Keqiang che facevano parte di due fazioni differenti.
Con la nomina di Li Qiang si mette fine a questa divisione informale tra segretario generale e premier, dal momento che l’origine sostanziale del potere e dell’autorità di cui Li verrà investito è proprio il suo rapporto con Xi.
Le discontinuità rappresentate da Li Qiang rispetto alle consuetudini illustrano un’evoluzione nel modo in cui il PCC governa sé stesso.
Innanzitutto, il concetto di meritocrazia su cui si fondava parte della legittimità del partito ha subìto un netto ridimensionamento: benché imperfetta e spesso politicizzata nella propria applicazione, la meritocrazia del sistema politico cinese si basava sulla valutazione dei risultati raggiunti dagli amministratori del partito e sulla promozione dei migliori al livello superiore. Una volta arrivati al vertice dopo molteplici promozioni, i funzionari avevano accumulato abbastanza esperienza per poter dirigere il paese. Con Xi Jinping questo meccanismo si è inceppato e il criterio fondamentale per la selezione dei funzionari è diventato quello della fedeltà al segretario generale.
La seconda metamorfosi del partito messa in evidenza dalla nomina di Li Qiang è il declino della leadership collegiale, uno dei princìpi più importanti su cui si è costruita la Cina dopo la morte di Mao Zedong nel 1976. Da anni la concentrazione del potere politico nelle mani di Xi Jinping ha minato le fondamenta di questo principio: attraverso l’eliminazione delle correnti interne, Xi è riuscito ad accumulare per sé e per la propria cerchia un numero sempre crescente di cariche.
Ciò ha fatto venire meno quel meccanismo di “democrazia interna al partito”, che per almeno tre decenni aveva regolato la vita del PCC: si trattava di un patto di rappresentanza, secondo il quale nella dirigenza doveva vigere un sistema di controlli e contrappesi tra le varie anime del partito. L’obiettivo, oltre ovviamente a evitare il concentramento del potere, era quello di portare ai massimi vertici voci diverse per rendere il partito più pluralista e quindi capace di adattarsi e reagire a ogni tipo di sfida.
La Cina che è uscita dall’ultimo Congresso è un paese che sempre di più si sta allontanando dal paradigma politico consolidatosi nell’epoca post-maoista. Sebbene le strutture collegiali del partito non siano state accantonate, esse sono state svuotate dall’interno attraverso nomine schiacciate sulla figura del segretario generale. Con la nuova dirigenza di partito Xi Jinping ha dato una svolta alla politica cinese, posizionando se stesso al centro del sistema.
In questo senso anche la discussa rimozione dell’ex presidente Hu Jintao dall’aula del Congresso nell’ultimo giorno di lavori ha assunto un valore simbolico. Hu ha quasi 80 anni ed è probabile che la sua rimozione sia stata provocata da un problema di salute. Nonostante questo, si è comunque trattato di un’umiliazione per un ex presidente, che ha mostrato in maniera molto evidente il completo dominio di Xi sul partito.