Perché in Italia non c’è un grande festival musicale
Rispetto ad altri paesi ci sono meno soldi e luoghi adatti, e una scarsa predisposizione del pubblico: ma forse non è solo un male
di Isaia Invernizzi
Negli ultimi vent’anni in molti paesi europei si è sviluppato un modello di festival musicale che finora nessuno è riuscito a replicare in Italia. Eventi come il Primavera Sound di Barcellona, il festival di Glastonbury nella campagna inglese a duecento chilometri da Londra, lo Sziget a Budapest e oltreoceano il Coachella a Indio, in California, hanno raggiunto dimensioni enormi e ogni anno si espandono con più musicisti, grossi sponsor, più biglietti venduti e quindi più possibilità di continuare a crescere. In alcuni casi hanno aggiunto anche edizioni in altri paesi e addirittura in altri continenti.
Si possono definire macrofestival, a cui band e cantanti non possono rinunciare per via di offerte economiche generose e della centralità che hanno assunto nella stagione dei concerti all’aperto. In tre giorni o al massimo in una settimana si può assistere a decine di live camminando ininterrottamente da un palco all’altro, dalle prime ore del pomeriggio fino all’alba. Nel cartellone ci sono talenti emergenti, musicisti alternativi molto di moda, reunion di band storiche, i dj più celebri, per un’offerta e un’esperienza complessiva per certi versi totalizzante.
I macrofestival si sono imposti perché hanno sfruttato tutte le opportunità di crescita offerte dall’inizio degli anni Duemila, come la disponibilità e il sostegno economico di città e comuni in cerca di rilancio, l’avvento delle piattaforme di streaming, la conseguente rinnovata rilevanza dei concerti, e la crescita delle compagnie aeree low cost che ha favorito gli spostamenti tra i paesi.
Ne è nato un nuovo genere di turismo, il turismo da festival, che ha dato una spinta notevole all’espansione dell’industria di questi appuntamenti ormai di portata mondiale e non più nazionale o continentale. Tutto ciò in Italia non è avvenuto e sono molte le ragioni che spiegano questa mancanza: ci sono ovviamente motivi economici, ma anche legati alla difficoltà di trovare luoghi adatti, alla scarsa disponibilità degli enti locali, e soprattutto a un mercato in cui i musicisti italiani danno molta più sicurezza di successo rispetto agli stranieri.
I promoter, cioè le persone che organizzano i concerti, da tempo discutono di questi limiti che hanno causato una sorta di emarginazione dell’Italia dal circuito europeo dei grandi eventi di musica dal vivo. Le scarse possibilità di entrare in questo mercato da un lato sono vissute con una certa frustrazione, e suscitano alcune preoccupazioni per quanto riguarda la sostenibilità dei festival di medie dimensioni già esistenti. Ma dall’altro questa situazione è vista anche come un’opportunità, una forma di tutela ed emancipazione rispetto a un modello che basa tutto sui numeri, quasi impossibile da imitare e sul cui futuro molti addetti ai lavori non sono fiduciosi, sia dal punto di vista economico sia da quello ambientale.
Uno dei problemi italiani, spiega Giuseppe Conte, che dal 2017 è tra gli organizzatori del Viva Festival in valle d’Itria, in Puglia, è che in Italia le persone sono poco abituate ai ritmi dei grandi festival, spesso visti come sfiancanti anche dal punto di vista fisico. «È molto difficile pensare di proporre musica dal primo pomeriggio fino a notte fonda, perché la maggior parte delle persone preferisce il singolo grande evento, il nome», dice. È per questo che qui funzionano molto meglio le rassegne, spesso chiamate erroneamente festival, cioè una serie di singoli concerti organizzati durante tutta l’estate in un solo luogo, solitamente un parco o una piazza. Sono più semplici da organizzare e più redditizie.
I veri festival, invece, con i concerti tutti concentrati in pochi giorni, sono costretti a fare i conti – letteralmente – con numeri più contenuti e con le relative conseguenze economiche: pochi biglietti e spettatori portano meno introiti e meno considerazione da parte degli sponsor.
Il Viva Festival, uno dei più noti e partecipati in Italia, nell’ultima edizione ha venduto oltre 11mila biglietti in tre giorni, di cui oltre 2.000 abbonamenti. Come in passato, anche nel 2022 la scelta dei nomi è stata piuttosto ambiziosa, e ha mischiato elettronica e jazz sperimentale con musicisti come Alfa Mist, Floating Points, Jon Hopkins, Moderat, The Cinematic Orchestra fino a Slowthai, rapper inglese tra i maggiori esponenti della scena grime.
Sono nomi che si trovano nei cartelloni dei più grandi festival europei, con almeno diecimila persone sotto al palco durante i loro concerti. Qui è impensabile ottenere gli stessi risultati. «Siamo e saremo una realtà di nicchia, è inevitabile», continua Conte. «Senza grandi numeri è più difficile convincere gli sponsor e crescere di conseguenza. La nostra priorità al momento è continuare a coltivare un pubblico di appassionati con un’idea chiara di proposta musicale, cercando di far vivere alle persone un’esperienza appagante».
Secondo Conte, ed è l’opinione di molti altri promoter sentiti dal Post, tra le ragioni culturali che limitano lo sviluppo dei festival in Italia c’è anche la predisposizione del pubblico italiano ad affezionarsi a un solo artista o al massimo a un solo genere musicale. Michele Boroni, consulente della Prima Estate, festival nato quest’anno, organizzato nel parco BussolaDomani di Lido di Camaiore dall’agenzia D’Alessandro e Galli, dice che nei paesi anglosassoni e nel Nord Europa la musica ha un valore culturale diverso rispetto all’Italia, dove manca un po’ di curiosità e predisposizione a scoprire cose nuove.
Boroni ricorda quando, nel 2001, gli Stereophonics allora nei primi posti in classifica furono presi a bottigliate dai fan di Vasco Rossi all’Heineken Jammin’ Festival. «È un esempio estremo, ma dimostra che in Italia i grandi festival funzionano soltanto se c’è un grosso nome, che richiama la maggior parte delle persone. Meglio ancora se italiano. Tutto il resto è quasi un contorno. Questa impostazione ha finito per influenzare il lavoro degli organizzatori che hanno spinto verso un prodotto sempre più conforme alla domanda italiana, in un circolo vizioso che si autoalimenta».
Nel circolo vizioso sono comprese anche le radio, dove difficilmente trovano spazio musicisti stranieri non mainstream: gli ascolti condizionano i gusti, gli acquisti e quindi il mercato dei concerti. Il risultato è che i cantanti e le band italiane garantiscono un notevole ritorno economico, con investimenti e impegni più contenuti rispetto a una band straniera. Senza scomodare Vasco Rossi e Jovanotti, casi eccezionali, negli ultimi mesi i tour di diversi musicisti italiani sono andati molto bene. L’esempio più evidente è stato il tour di Blanco, di cui sono stati venduti tutti i biglietti prima della data di esordio.
Anche nei grandi festival europei i nomi sono importanti, eppure non fondamentali come in Italia, perché moltissime delle persone che acquistano il biglietto lo fanno con mesi di anticipo, senza sapere chi suonerà. La direzione artistica coerente e la vasta offerta finiscono per accontentare quasi tutti nonostante i prezzi dei biglietti spesso superino i 200 euro per un abbonamento di tre giorni. Nei festival nordeuropei più grossi può arrivare anche al doppio.
Il vantaggio rispetto a un normale festival è che oltre ai concerti si acquista un bene immateriale, cioè l’esperienza di partecipare a un grande evento di massa che influenza i gusti musicali e le mode. «In Italia si vive il concerto quasi come un’esperienza religiosa, di routine, mentre nei grandi festival europei si prende parte a un’esperienza totalizzante dall’apertura dei cancelli in poi: per chi ama la musica è il paese dei balocchi, un privilegio», dice Amedeo Lombardi, organizzatore dell’Home Festival di Treviso che si è tenuto dal 2010 al 2020, ora sospeso a causa di tre annate complicate a causa del maltempo e nell’ultima edizione per gli effetti della pandemia.
«La sfida dei promoter è mettersi nei panni di chi acquista un biglietto e capire quali sono le aspettative in termini di offerta musicale, qualità della fruizione e dell’ascolto, servizi, cibo, ospitalità, atmosfera. Tutte cose che in Italia sono spesso rimaste in secondo piano, anche se negli ultimi anni si sono viste molte eccezioni interessanti».
Il modello per eccellenza di questo genere di festival, l’esempio a cui i promoter guardano con più interesse e invidia, è il Primavera Sound di Barcellona. Nato nel 2001, nell’ultimo decennio è diventato un appuntamento di livello mondiale, passando da circa 8mila spettatori di vent’anni fa ai 500mila dell’ultima edizione, la prima dopo due anni di interruzione dovuti alla pandemia.
Dal 2005 viene organizzato nel Parc del Forum, un’enorme area attrezzata sul mare, vicino a uno dei porti turistici della città e ai quartieri periferici di Besòs e La Mina. È il luogo ideale per allestire dieci palchi, di cui almeno quattro di dimensioni paragonabili a quelli dei grandi concerti negli stadi, e ospitare decine di migliaia di persone.
In Italia non esiste un luogo simile dedicato ai grandi appuntamenti musicali o in generale culturali: è un altro dei motivi che spiegano l’assenza di grandi manifestazioni. Ci sono spazi più piccoli dove è complicato offrire e gestire servizi richiesti dalla presenza di decine di migliaia di persone, o luoghi come palazzetti e stadi dove non è possibile allestire un festival con più palchi per naturali limiti acustici. I tentativi di proporre qualcosa di diverso e unico, come il Jova Beach Party, si scontrano con problemi logistici e ambientali.
Il Primavera Sound è l’appuntamento preferito dagli appassionati di musica alternativa e moderatamente di nicchia, ma da alcuni anni è frequentato da un pubblico più vasto grazie allo spazio concesso dagli organizzatori a generi più mainstream come l’hip hop e perfino il reggaeton. Gli italiani sono una delle nazionalità più rappresentate nel pubblico. «E non è un risultato casuale: sono serviti anni di investimenti in marketing su larga scala, con un approccio che ha costi notevoli e che può essere sostenuto soltanto da grosse organizzazioni» dice Dino Lupelli, tra i promotori di Linecheck, un festival che si tiene a Milano diventato negli ultimi otto anni una delle più importanti conferenze europee sull’industria musicale, dove gli organizzatori si confrontano sul futuro e sugli sviluppi del mercato.
«L’Italia è il paese delle piccole e medie imprese e questo si riflette anche nei festival, che sono di dimensioni più piccole e distribuiti sul territorio. Non possono richiamare decine di migliaia di persone perché non hanno luoghi e strutture adeguate. Vengono chiamati boutique festival e secondo me sono molto interessanti in prospettiva, perché più virtuosi rispetto alle grandi manifestazioni».
Tra i boutique festival più riusciti in Italia ci sono lo Ypsigrock, che si tiene a Castelbuono, in Sicilia, e il Beaches Brew, organizzato a Marina di Ravenna, sulla riviera romagnola. Entrambi hanno sfruttato alcune delle caratteristiche dei grandi festival europei: hanno aperto canali di promozione con l’estero e oltre a un’offerta musicale coraggiosa hanno puntato sull’ospitalità e sull’atmosfera.
Lo Ypsigrock viene organizzato da 25 anni in piazza Castello a Castelbuono, un paese di novemila abitanti nell’entroterra di Cefalù, in provincia di Palermo. Ogni serata può ospitare un numero di spettatori relativamente basso, 2.500, e buona parte del pubblico arriva da altri paesi, soprattutto dal Regno Unito. «È merito di un lavoro di comunicazione fatto negli ultimi anni attraverso social e magazine specializzati», spiega Vincenzo Barreca, fondatore dello Ypsigrock.
Le persone affrontano un viaggio impegnativo perché a parità di offerta artistica con altri festival, a Castelbuono possono ascoltare buona musica e vivere i tempi e le abitudini di una piccola comunità ben disposta ad accogliere un pubblico attento e consapevole. «La sera vedi un bel concerto, in un clima rilassato, e la mattina fai colazione con granita e brioche», scherza Barreca. Allo Ypsigrock quest’anno hanno suonato i Flaming Lips, 2manydjs, cioè i Soulwax in formato dj set, i DIIV, Penelope Isles.
Barreca, tuttavia, spiega che un numero di spettatori così contenuto non consente di avere grandi margini: è molto importante fare sold out, cioè vendere tutti i biglietti, per garantire la sostenibilità economica e quindi la sopravvivenza. Con numeri così bassi, inoltre, bisogna lavorare molto in fase di programmazione per trovare musicisti a cachet accessibili. È un impegno gravoso, che dura tutto l’anno, e quasi sempre sostenuto dal volontariato.
Uno dei grossi limiti dei boutique festival, e in genere dei festival italiani, consiste proprio nel giro di affari che è troppo piccolo per creare una vera industria dell’intrattenimento da festival. Con meno soldi c’è meno possibilità di fare promozione, di assumere personale, e di attirare sponsor. In sostanza, di crescere. «Organizzazioni come la nostra fanno parte di un circuito economico molto limitato, nemmeno paragonabile a quello dei grandi festival», continua Barreca. «Non dimentichiamo che almeno nelle fasi iniziali all’estero hanno usufruito di un grande sostegno da parte delle istituzioni, che in Italia non c’è».
Negli ultimi anni c’è stato un leggero miglioramento: sembra che comuni e amministrazioni siano più disposte a concedere autorizzazioni e permessi. C’è meno ostilità rispetto al passato, anche se le procedure rimangono complicate e lente. La differenza rispetto ai festival europei rimane economica. Primavera, Glastonbury e Sziget oggi si sostengono autonomamente: nei primi anni, invece, hanno ricevuto un significativo aiuto economico da parte delle istituzioni. Conte, di Viva Festival, dice che è complesso spiegare a un comune o a una Regione quale sia l’indotto e il ritorno per il territorio, mentre in Europa vengono garantiti soldi oppure servizi di trasporti, agevolazioni e accordi con albergatori e commercianti.
«In un paese come l’Italia ottenere tutte le autorizzazioni è sempre una conquista», spiega Chris Angiolini, il promoter che cura l’organizzazione del Beaches Brew, un festival che si tiene nello stabilimento Hana-Bi, a Marina di Ravenna. «Noi giochiamo in casa, per cui siamo agevolati. Ma è anche un limite, perché non possiamo pensare di spostarci o ingrandirci. Il nostro obiettivo è comunque mantenere una dimensione sostenibile anche dal punto di vista della vivibilità».
Uno dei punti di forza del Beaches Brew è il cosiddetto scouting, la scoperta di nuovi musicisti quasi tutti stranieri per la prima volta in Italia. Angiolini racconta che quest’anno è stato fermato da un amico prima del festival: “Non conosco nessuno, ci vediamo là” è una delle frasi che si sente ripetere più spesso prima del festival. Negli ultimi anni sul palco del Beaches Brew hanno suonato per la prima volta in Italia, tra gli altri, i King Gizzard & the Lizard Wizard, band australiana ormai di culto nel genere rock sperimentale e psichedelico, e gli americani Khruangbin. Circa il 40 per cento del pubblico arriva dall’estero. «Abbiamo scelto una visione e una dimensione che deve essere percepita come unica dalle persone che vengono qui», continua Angiolini. «È più facile nel momento in cui scegli di rivolgerti alle nicchie, a un pubblico adulto e consapevole».
Il Beaches Brew è gratuito e per questo ha budget più limitati rispetto ai festival a pagamento. È una scelta che consente di osare di più nella scelta dei musicisti. Il modello a cui si ispira non sono i grandi festival con decine di migliaia di persone, ma realtà come Le Guess Who? che dal 2007 si tiene a Utrecht, nei Paesi Bassi. Propone musica indipendente e d’avanguardia con musicisti, per lo più poco conosciuti, provenienti da tutti i continenti. Non richiama grandi folle e il pubblico è più adulto rispetto a quello dei grandi festival.
Angiolini sostiene che in futuro sia inevitabile un ripensamento generale su ambizioni e costi dei grandi festival. Dice che bisogna tornare con i piedi per terra, con scelte più sostenibili del punto di vista economico e ambientale. Per farlo, però, va sensibilizzato anche il pubblico: «I tour sono essenziali per i musicisti. È il modo con cui si sostengono, perché le persone acquistano meno la musica e le piattaforme di streaming pagano pochissimo. Questo ha contribuito a causare un aumento dei costi e oggi organizzare un grande concerto o un festival costa centinaia di migliaia di euro. Le ragioni di questi aumenti sono diverse: i due anni di stop forzato, l’aumento del costo delle maestranze alla ripartenza, e in ultimo il problema energetico. Quindi il calo delle vendite e lo streaming sono gli elementi scatenanti, ma negli ultimi due anni la situazione si è aggravata considerevolmente».
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Lo stesso Primavera Sound, ingrandendosi a dismisura, ha portato nuovi problemi a una città, Barcellona, già al centro di grandi cambiamenti. La crescita del Primavera, in particolare a partire dal 2018, ha alimentato una certa deriva presenzialista e per certi versi performativa del pubblico, più eterogeneo rispetto al passato, e ha portato Barcellona e le sue istituzioni a interrogarsi sui vantaggi di ospitare così tante persone in così pochi giorni. Il Primavera Sound è stato così coinvolto nelle discussioni sulla turistificazione della città e sull’impatto di piattaforme come Airbnb.
In un articolo pubblicato nel numero della rivista Passenger dedicato a Barcellona, il giornalista spagnolo Nando Cruz ha definito i macrofestival come il Primavera Sound «mostri insaziabili». La cosa più difficile per questi macroeventi musicali, dice Cruz, non è definire un marchio, imporlo sul mercato, mantenere appeal nel corso degli anni o rinverdire l’età del pubblico. La cosa più difficile è capire quando smettere di crescere. «Ma siamo davvero sicuri che sia necessario organizzare manifestazioni così grandi?», si chiede Lupelli di Linecheck. «Se esaminiamo parametri diversi dai soldi e dai numeri forse ci accorgiamo che non sono modelli su cui vale la pena puntare in futuro».
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