Perché nessuno voleva fare il ministro dell’Economia del governo Meloni
La leader di Fratelli d'Italia cercava un tecnico e molti hanno rifiutato, sia per motivi politici che per la crisi economica in vista
Dopo l’insediamento dei parlamentari e l’elezione dei presidenti di Camera e Senato, manca poco alla formazione del nuovo governo. La coalizione che ha vinto le elezioni, formata da Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia, sta trattando già da settimane per stabilire a chi andranno i vari ministeri. Ogni partito vuol far valere il peso guadagnato alle elezioni e ci sono state anche alcune tensioni tra Fratelli d’Italia e Forza Italia, poi rientrate.
Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d’Italia, il partito che ha preso più voti alle elezioni e che per questo potrebbe garantirle il posto da presidente del Consiglio, sta facendo però fatica a trovare un candidato per il ministero dell’Economia, un posto da sempre molto ambito e di potere perché è quello che ha maggiori possibilità di rendere fattibili le promesse elettorali. Sembra però che nessuno ambisca particolarmente a quel ruolo, sia per ragioni politiche sia per le decisioni difficili che l’incaricato dovrà prendere a strettissimo giro.
Meloni vuole far valere tutto il peso guadagnato da Fratelli d’Italia alle elezioni, cercando di riservare per sé le decisioni su chi includere nel proprio futuro governo e chi no. E tra le sue intenzioni c’è quella di formare un governo di «alto profilo», che sia allo stesso tempo politico ma con qualche ministero importante affidato a figure tecniche.
Per ministro tecnico si intende una figura dotata di competenze tecniche specialistiche che sia estranea alle forze politiche. Alcuni ministeri più di altri si prestano ad avere alla guida una figura tecnica. Quello dell’Economia ne è un esempio, perché servono competenze specifiche nella gestione delle finanze pubbliche, e un’ampia conoscenza del bilancio dello stato e del funzionamento della pubblica amministrazione. Il ministro dell’Economia deve anche avere un riconoscimento internazionale che gli consenta di presentarsi come autorevole e affidabile agli investitori, ossia quelli che ci prestano i soldi, e all’Unione europea, con cui deve periodicamente avere a che fare per la legge di bilancio.
Nel governo di Mario Draghi, che possiamo definire a cavallo tra il tecnico e il politico, il ministero dell’Economia era affidato a Daniele Franco, economista indipendente, già ragioniere generale dello Stato e direttore generale della Banca d’Italia. Anche Meloni vorrebbe un tecnico, una figura di alto profilo in grado di tranquillizzare l’Unione europea e gli Stati Uniti rispetto alla linea liberale e non dissennata sui conti pubblici del suo governo.
Da settimane circolano numerose indiscrezioni di stampa su nomi di tecnici che avrebbero rifiutato la proposta di Meloni: Fabio Panetta, membro del Consiglio direttivo della Banca Centrale Europa, Dario Scannapieco, amministratore delegato di Cassa Depositi e Prestiti, Domenico Siniscalco, banchiere e già ministro dell’Economia in due governi Berlusconi, ma anche lo stesso Daniele Franco, che ha incontrato recentemente Meloni.
Ognuno di loro avrebbe espresso perplessità o direttamente rifiutato perché preoccupato di diventare ministro proprio in un momento molto sfavorevole, alle porte di una recessione economica, tra i rincari delle bollette e i problemi di approvvigionamento energetico, l’inflazione e l’aumento dei tassi di interesse da parte della BCE, che hanno l’obiettivo di rallentare l’economia per fermare l’aumento dei prezzi.
Non solo, tra i governi europei e all’interno della stessa Commissione europea c’è diffidenza rispetto al prossimo governo guidato probabilmente da Meloni. Quindi molti vogliono evitare di ricoprire il ruolo che, per esempio, fu di Giovanni Tria nel governo Conte I, ossia di un ministro dell’Economia che ha finito per diventare un mediatore tra i fragorosi programmi, annunci sensazionali e toni accesi da una parte e la gestione prudente dei conti pubblici dall’altra.
Se Meloni non riuscirà a trovare a breve un tecnico di peso, dovrà necessariamente ripiegare su una figura politica, che sia contemporaneamente affidabile per lei e non indigesta per gli alleati della coalizione. Per questo, ormai viene ritenuto estremamente probabile il nome di Giancarlo Giorgetti, leghista e attuale ministro dello Sviluppo economico.
Indipendentemente da chi sarà, il nuovo ministro si troverà davanti sfide assai difficili. I successori di Mario Draghi alla presidenza del Consiglio e di Daniele Franco al ministero dell’Economia dovranno affrontare le stesse urgenze gestite fin qui dal governo uscente: trovare gli strumenti per attenuare gli effetti dei rincari energetici su famiglie, imprese, ospedali e sugli enti locali.
Il compito però sarà molto più arduo per il prossimo esecutivo, perché il governo Draghi aveva i soldi per farlo, grazie alle entrate fiscali inattese prodotte sia dall’inflazione che dalla crescita economica, che per esempio hanno fatto crescere notevolmente le entrate provenienti dai consumi e dall’IVA. Il ministro Franco è riuscito a trovare per il solo 2022 circa 60 miliardi da destinare al finanziamento dei tre decreti Aiuti contro i rincari dell’energia senza ricorrere a debito aggiuntivo. Ora però la crescita sembra in rallentamento, come hanno avvertito varie istituzioni internazionali, tra cui il Fondo Monetario Internazionale, quindi i soldi andranno trovati in altro modo.
È difficile pensare che il nuovo governo non rifinanzierà tutte le misure messe in campo finora. Secondo i calcoli di Gianni Trovati sul Sole 24 Ore, basta poco per arrivare a una legge di bilancio per il 2023 che proporrà spese aggiuntive fra i 30 e i 40 miliardi, circa il 2 per cento del PIL, senza contare le varie promesse elettorali della coalizione. A meno che non voglia imporre nuove tasse o ridurre spese esistenti, entrambi scenari politicamente inaccettabili per una coalizione che ha incentrato la campagna elettorale sulla riduzione dell’onere fiscale per i cittadini, è plausibile ipotizzare che il governo dovrà far ricorso al debito pubblico.
Il nuovo ministro dell’Economia avrà qualche settimana di tempo per concordare con la Commissione europea un nuovo obiettivo di deficit, ossia di debito aggiuntivo, che apra gli spazi di una legge di bilancio che altrimenti sarebbe impossibile da finanziare, ma senza deviare troppo dal percorso di riduzione del debito portato avanti da Draghi in questi due anni.
Prima ancora della legge di bilancio, il nuovo governo dovrà approvare anche un nuovo decreto, il decreto Aiuti quater, che dovrebbe rifinanziare tutte quelle misure contro i rincari dell’energia, come per esempio il taglio da 30,5 centesimi al litro delle accise sui carburanti (che scade a fine ottobre), i bonus per dipendenti e autonomi e i crediti d’imposta per le imprese. Per queste misure però, il governo Draghi lascia già pronti 9,5 miliardi di euro da poter usare.
Il nuovo ministro dell’Economia dovrà anche ottenere dalla Commissione europea la terza tranche del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), che vale circa 19 miliardi di euro e sarà condizionata al raggiungimento di 55 obiettivi entro il 31 dicembre di quest’anno. Meloni, che nel corso della campagna elettorale aveva fatto sapere più volte di voler cambiare il PNRR, nelle scorse settimane ha mostrato preoccupazione sui ritardi nella spesa dei fondi del piano, avviando una piccola polemica a distanza con Draghi.
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