Cosa ci si aspetta dal terzo mandato di Xi Jinping
Oggi si apre il Congresso del Partito comunista che confermerà Xi alla sua guida, cambiando molte cose nella politica cinese
Si apre oggi nella Grande Sala del Popolo di Pechino il 20° Congresso Nazionale del Partito comunista cinese (PCC), che si tiene ogni cinque anni. Vi partecipano 2.300 delegati da ogni parte della Cina e vengono selezionati tutti i dirigenti che guideranno il partito per il prossimo quinquennio, compresi i vertici assoluti.
Soprattutto, quello che si apre oggi sarà il Congresso che confermerà Xi Jinping come segretario generale del Partito, presidente della Repubblica Popolare e capo delle Forze Armate per un inedito terzo mandato, in contravvenzione alle norme e alle regole che avevano garantito la stabilità della politica cinese negli ultimi quarant’anni: Xi diventerà il leader più longevo dai tempi di Mao Zedong.
La conferma sostanziale di Xi Jinping come leader del paese e del partito è data per scontata, ma ci potrebbero essere variazioni nella forma e nella definizione delle sue cariche: si è parlato di potenziali riforme costituzionali, possibili soltanto durante il Congresso nazionale, che potrebbero essere limitate oppure più sostanziali. A 69 anni il presidente cinese sembra aver completato la sua opera di accentramento del potere, trasformando nei dieci anni di presidenza le strutture e i processi burocratici del partito e dello stato.
In particolar modo dopo una riforma approvata nel 2018, che eliminava il limite di due mandati per la presidenza, Xi Jinping è potenzialmente nella condizione di governare a vita. Uno dei motivi di maggiore interesse di questo Congresso, che storicamente si limita a ratificare e rendere pubbliche decisioni prese in precedenza dai vertici del partito, è appunto verificare se Xi Jinping abbia intenzione di inserire un possibile erede fra i sette membri del Comitato permanente del Politburo, l’organo esecutivo ristretto attraverso cui il Partito governa la Cina.
I leader del passato avevano proceduto così, promuovendo nella cerchia ristretta un funzionario della nuova generazione destinato a succedere alla carica di segretario generale nel congresso seguente, dopo cinque anni. Xi aveva rotto questa consuetudine già nel 2017, quando contravvenendo a tutte le aspettative non aveva presentato nessuno che potesse sostituirlo: una chiara indicazione della volontà di proseguire al comando. Potrebbe oggi ripetere la stessa scelta: molti osservatori sottolineano come non sembri voler porre scadenze alla propria leadership.
L’accentramento del potere
La trasformazione politica della Cina da parte di Xi Jinping era cominciata immediatamente dopo la sua prima elezione, nel 2013, con l’avvio di una grande campagna contro la corruzione che ha portato alla rimozione di circa un milione e mezzo di funzionari di partito in tutto il paese, compresi sette fra ministri e componenti del Politburo (l’ufficio politico composto da 25 membri) e dodici fra gli alti generali.
I conseguenti processi pubblici e le condanne esemplari (due alti funzionari furono condannati a morte, con pena sospesa) servirono a definire nell’opinione pubblica cinese Xi come “uomo forte”, oltre che a eliminare potenziali avversari politici.
La sua gestione politica si sviluppò in modo sempre più verticistico, con gli organi burocratici del partito chiamati quasi unicamente a ratificare decisioni prese dall’alto. Benché la leadership cinese abbia sempre avuto una struttura rigidamente gerarchica, prima di Xi Jinping il presidente e segretario del partito aveva agito come un primus inter pares, condividendo buona parte delle decisioni. Con Xi questi processi di condivisione del potere sono stati fortemente limitati, se non eliminati.
Un altro momento fondamentale fu il Congresso nazionale del 2017, non solo per la mancata indicazione (implicita) di un erede, ma anche perché il Partito comunista votò per inserire all’interno della propria Costituzione la sua filosofia, chiamata “Il pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era”. In precedenza solo il fondatore del partito Mao Zedong e il leader che aveva introdotto le riforme economiche, Deng Xiaoping, figuravano tra i maggiori ideologi della dottrina.
L’anno seguente, il 2018, fu quello dell’abolizione del limite del doppio mandato alla presidenza: era stato inserito nel 1982 per volontà di Deng Xiaoping, come misura volta a eliminare le tentazioni di autocrazia e all’accentramento del potere su un leader piuttosto che sul partito. Il limite voleva evitare gli eccessi di concentrazione del potere dei tempi di Mao e i successivi problemi nella fase della successione. Jiang Zemin (presidente tra il 1993 e il 2003) e Hu Jintao (2003-2013) si erano adeguati, restando in carica un decennio e nominando nel secondo mandato un successore designato, che nel caso di Hu Jintao era stato ovviamente Xi Jinping.
La riforma del limite ai mandati è stata invece approvata il primo marzo 2018 durante la seduta annuale del Parlamento cinese, il Congresso nazionale del popolo: 2.964 voti favorevoli, due contrari, tre astenuti.
In questi anni Xi Jinping ha eliminato e perseguito non solo le espressioni di dissenso nel paese, ma anche il dibattito interno al partito. Questo ha finito con indebolire lo stesso Xi, secondo Wu Guoguang, ex membro del Partito oggi ricercatore presso l’università di Stanford in California citato da Reuters: «Il leader oggi teme che ogni auto-correzione rispetto a scelte precedenti possa essere utilizzata dagli avversari per attaccarlo». Sarebbe questa una delle spiegazioni della perseveranza nel proseguire con la strategia “zero COVID”, che sta rallentando l’economia cinese, o della rigidità delle scelte di politica estera.
Il Congresso che comincia oggi indicherà anche quanto Xi Jinping voglia rinnovare il gruppo di funzionari a lui più vicini che compongono il Politburo: una regola non scritta ma fin qui rispettata vuole che i membri non vengano confermati al raggiungimento dei 68 anni, età della pensione. Attualmente sono undici in questa condizione, compresi il capo dei diplomatici Yang Jiechi, il ministro degli Esteri Wang Yi e uno dei vice premier Liu He, considerato il consigliere più ascoltato sulle questioni economiche.