La vita da film di Gigi Meroni
Il 15 ottobre del 1967 morì il numero 7 del Torino: un calciatore geniale, simbolo degli anni Sessanta, adorato dai suoi tifosi e incompreso da tanti altri
di Pietro Cabrio
Tra tifosi si dice che il Torino non perde mai quando gioca il 15 ottobre, e spesso è stato così negli ultimi vent’anni: non lo scorso anno, nel derby perso contro la Juventus, ma nel 2017 e prima ancora nel 2011, 2006, 2005, 2004 e nel 2003 le volte in cui il Torino ha giocato in quel giorno non è mai stato battuto
Questo mito calcistico si rifà al giorno del 1967 in cui, dopo una partita di campionato, l’allora fantasista del Torino Gigi Meroni, un giocatore amatissimo dal suo pubblico, morì investito mentre attraversava a piedi corso Re Umberto, la via in cui abitava. Fu un altro evento tragico nella storia di una squadra che diciotto anni prima aveva già dovuto sopportare una tragedia enorme come l’incidente aereo di Superga in cui morì il “Grande Torino”, la squadra italiana più forte dell’epoca.
Alla tragedia per la morte di quello che in fin dei conti era appena un ragazzo di 24 anni si aggiunse una circostanza improbabile e incredibile. A investire e uccidere accidentalmente Meroni la sera del 15 ottobre del 1967 fu un giovane tifoso del Torino, Attilio Romero, che adorava Meroni e che trentratré anni dopo del Torino sarebbe diventato il presidente.
Fin lì la vita di Meroni, seppur breve, era stata degna di un film e la sua affermazione nel calcio italiano era stata spettacolare e controversa, adorata e divisiva.
Era un esterno d’attacco imprevedibile, un numero 7 di grande qualità tecnica, spesso paragonato al fuoriclasse argentino Omar Sivori e soprannominato “la farfalla” per le sterzate sullo stretto e i dribbling con cui superava gli avversari. In un calcio come quello italiano, storicamente poco incline a produrre calciatori con quelle caratteristiche, Meroni rappresentò una novità ed entusiasmò soprattutto i più giovani.
«Quando ci giocavi contro provavi ad anticiparlo pensando a due-tre cose che avrebbe potuto fare, ma lui te ne faceva sempre un’altra» ricordò Sandro Mazzola, figlio di Valentino, capitano del Grande Torino e coetaneo di Meroni. E nel 1967, alla “Grande Inter” di Sandro Mazzola ed Helenio Herrera, Meroni fece perdere uno Scudetto segnando uno dei suoi gol più belli: un tiro a rientrare imprendibile, calciato con il corpo che andava all’indietro, che finì sotto l’angolino della porta.
Aveva imparato a giocare a calcio in un piccolo cortile di un palazzo nel centro di Como, dove era nato e cresciuto, orfano di padre, con la madre e due fratelli. Lì, in un rettangolo riempito di ragazzini, Meroni affinò un talento probabilmente innato. A diciassette anni fu notato dall’Inter mentre giocava per la Libertas San Bartolomeo, una piccola società comasca. Consapevoli di essersi trovati davanti a un calciatore di raro talento, i dirigenti dell’Inter si mossero rapidamente e nel giro di qualche giorno presentarono alla famiglia un contratto. Ma era un calcio diverso, l’Italia era diversa, e i genitori non ne vollero sapere di mandarlo da solo a Milano due volte a settimana.
Non se ne fece nulla e Meroni andò al Como, dove esordì in Serie B nel 1960. Dopo soli due anni venne acquistato dal Genoa, che era appena tornato in Serie A. Lì si formò come calciatore e iniziò a esprimere la sua creatività anticonformista, ispirato da una città che in quel momento stava vivendo un periodo culturalmente molto florido, di pari passo con l’affermazione di una generazione di artisti ricordata ancora oggi: quella di Fabrizio De André, Bruno Lauzi, Paolo Villaggio e Luigi Tenco (uno dei pochi che poi lo difesero dalle tante critiche dell’opinione pubblica).
Come tanti altri ragazzi della sua età in quegli anni che avrebbero poi cambiato la società italiana, all’epoca ancora legata per tanti aspetti alla rigidità e al conformismo del passato, Meroni aveva un modo di fare le cose che a tanti non piaceva. Portava i capelli lunghi quando ancora farlo era malvisto, e aveva un modo tutto suo di vestirsi, cosa vista con ancora più sospetto.
A Como aveva lavorato come disegnatore in un’azienda tessile e le cose imparate in quel periodo lo aiutarono poi a sviluppare un certo interesse per la moda e la pittura. Quando divenne abbastanza ricco da poterselo permettere, prese l’abitudine di disegnarsi da solo i vestiti per farli poi realizzare a un sarto di fiducia. E riempiva le sue case di quadri da lui stesso disegnati.
Il 1963 fu l’anno in cui iniziò a essere celebrato dai giornali, ma con la popolarità arrivarono le incomprensioni e gli attacchi pubblici. Quando fu convocato con la Nazionale italiana riserve, per esempio, fu costretto a tagliarsi i capelli per poter giocare. Quella volta lo fece, ma quando poi gli venne richiesto da Edmondo Fabbri, l’allora commissario tecnico, si rifiutò e per questo venne inizialmente escluso. In quel caso fu difeso da Tenco, che ci fece anche una canzone, Ognuno è libero, e anche dal suo allenatore al Torino, il burbero Nereo Rocco, che disse ironicamente: «Ho paura che se gli tagliamo i capelli non sappia più giocare, come Sansone. E poi è talmente un bravo ragazzo, nonostante l’apparenza».
Nel frattempo, tra gol, assist, giocate e colpi da campione, Meroni divenne un idolo per i tifosi del Genoa. Quando il presidente del Torino, l’industriale Orfeo Pianelli, arrivò a offrire 300 milioni di lire per il suo acquisto, la parte più popolare del tifo genoano protestò per strada contro la cessione, che però a quelle cifre fu inevitabile. Accadde lo stesso qualche anno dopo con i tifosi del Torino, quando la Juventus di Gianni Agnelli arrivò a offrire più di 700 milioni di lire per averlo, l’offerta più alta mai fatta per un calciatore in Italia.
Quando arrivò Meroni il Torino non vinceva uno Scudetto dal 1949 ed era una discreta squadra di metà classifica. Già al primo anno con lui in riuscì a portarsi fino al terzo posto in campionato e alle semifinali di Coppa delle coppe. In quella stessa stagione Meroni segnò otto gol e con le sue qualità da dribblomane e le sue incursioni in fascia contribuì a far girare meglio tutto l’attacco.
Nel frattempo continuava a essere chiamato “capellone”, “calimero”, “zingaro”. Veniva descritto come «il beatle italiano» e, come rivelò poi la sorella, c’era chi spediva vaglia postali alla famiglia a Como con i soldi per mandarlo dal barbiere. Su di lui però le critiche ebbero l’effetto opposto. In uno speciale Rai a lui dedicato, alla domanda sul perché tenesse così i capelli disse: «Perché tutti dicono di tagliarli e io me li tengo».
A Torino rifiutò l’appartamento consigliato dalla società e scelse di vivere in una mansarda in piazza Vittorio insieme alla compagna, Kristiane Uderstadt, giostraia di origini polacche conosciuta in un luna park a Genova. Per lui Uderstadt lasciò il marito, un assistente regista di Vittorio De Sica più vecchio di lei che l’aveva chiesta in sposa alla famiglia, come ancora si usava. A Como invece, dove le critiche erano ancora più insistenti, Meroni prese l’abitudine di girare in centro con una gallina al guinzaglio, come provocazione.
Da calciatore continuava a fare cose speciali, e nel 1966 erano in tanti a credere che si stesse avvicinando alla piena maturità calcistica. Quello però fu anche l’anno dei Mondiali in Inghilterra, che per l’Italia furono un disastro. La Nazionale debuttò con una vittoria contro il Cile in cui Meroni non venne fatto entrare; giocò invece la partita contro l’Unione Sovietica, l’avversaria meno adatta alle sue caratteristiche, in quanto composta perlopiù da giocatori ruvidi e di grande stazza. L’Italia perse 1-0 e nella partita successiva Meroni tornò in panchina, nonostante contro la Corea del Nord avrebbe avuto più occasioni per fare la differenza. L’Italia perse ancora e fu un’eliminazione a suo tempo storica. Al loro ritorno, i giocatori della Nazionale vennero accolti con un lancio di ortaggi e Meroni fu uno di quelli più bersagliati, anche se aveva giocato soltanto una partita.
Nella stagione successiva, per giunta, si ritrovò al Torino l’allenatore di quel Mondiale, Fabbri, che non lo stimava particolarmente. Lì però Meroni era amatissimo e fu Fabbri a doversi adattare. Ma quella sua stagione durò soltanto quattro partite.
Il 15 ottobre, una domenica, il Torino vinse 4-2 contro la Sampdoria. La sera alcuni compagni si riunirono come erano soliti fare per andare a cena. Meroni, che nel frattempo si era trasferito in corso re Umberto, era in compagnia del difensore Fabrizio Poletti quando attraversò la strada sotto casa per andare a chiamare la fidanzata. Nel farlo vennero investiti entrambi. Poletti se la cavò con un trauma alla gamba; a Meroni andò peggio, perché venne prima preso dall’auto del giovane Attilio Romero, e poi da un’altra che sopraggiungeva. Agli automobilisti coinvolti non venne poi riconosciuta nessuna colpa.
Meroni non morì sul colpo ma arrivò in ospedale in fin di vita e morì in serata. Per il calcio italiano e per il Torino fu un’altra tragedia da sopportare. Per clima e partecipazione, stampa e telegiornali paragonarono i suoi funerali a quelli per la strage di Superga.
Di quello che successe dopo al Torino si ricorda soprattutto la partita della settimana seguente, un derby. Nonostante fosse sfavorito, il Torino vinse 4-0 in casa della Juventus campione d’Italia. Tre gol li segnò Nestor Combin, un franco-argentino molto amico di Meroni che il giorno della sua morte, in ospedale, aveva avuto una crisi di nervi e durante la settimana era stato molto male. Giocò da indiavolato, arrivando a segnare addirittura due gol nei primi sette minuti. Poi, a venti dalla fine, il quarto e ultimo gol della partita fu segnato da una giovane riserva, Alberto Carelli, il giocatore a cui era stata data la maglia numero 7 lasciata da Meroni.
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