L’economia cinese è ancora destinata a sorpassare quella americana?
Per molti anni si pensava che fosse solo questione di tempo, ma ora ci sono alcune ipotesi sorprendenti
Esperti, opinionisti e istituzioni internazionali ritengono da tempo che l’economia cinese sia destinata a sorpassare nel giro di qualche decennio quella statunitense, diventando così la prima al mondo. Il sorpasso è considerato praticamente da tutti un dato di fatto e solo questione di tempo. Tuttavia, la pandemia da coronavirus e le distorsioni che ha fatto emergere nell’economia cinese, soprattutto nel mercato immobiliare, negli ultimi tempi hanno allontanato la Cina da questo ambito traguardo: e alcuni analisti hanno cominciato a ipotizzare che non ci arriverà mai, e che non sia destinata a diventare la prima economia del mondo.
È ancora un’ipotesi piuttosto remota, ma è stata esposta già da alcuni esperti, che notano come alcune tendenze economiche di lungo periodo potrebbero essere sfavorevoli per l’economia cinese.
Secondo la Banca Mondiale, il Prodotto Interno Lordo (PIL) cinese quest’anno dovrebbe crescere soltanto del 2,8 per cento, meno dell’8,1 del 2021 e del 5 stimato dall’istituto in aprile per il 2022. Per la prima volta dopo 32 anni la Cina crescerà meno del resto dell’Asia, di cui per lungo tempo era stata considerata l’economia trainante. I motivi sono legati a una strategia “zero COVID” troppo rigida, le cui restrizioni hanno fatto molto male all’economia, e a enormi problemi di indebitamento del settore immobiliare, oltre che a un sistema ancora troppo dirigista che rischia l’isolamento della comunità internazionale.
La popolazione cinese è quattro volte più grande di quella americana. La sua economia potrebbe quindi potenzialmente superare quella americana in termini di dimensioni molto prima di eguagliarla in termini qualitativi, ossia di sviluppo ed equa distribuzione dei redditi. Il suo PIL pro capite dovrebbe ambire a essere solo un quarto di quello americano affinché il suo PIL totale diventi il più grande del mondo, secondo calcoli dell’Economist.
Sempre secondo il settimanale, usando la misura della “parità del potere d’acquisto”, un metodo che cerca di conteggiare i beni e servizi in ogni paese usando gli stessi prezzi internazionali, la Cina avrebbe sorpassato l’economia statunitense già nel 2016. Il PIL cinese ottiene il primo posto soltanto se viene conteggiato tenendo conto del fatto che con un certo ammontare di denaro in Cina e negli Stati Uniti, per esempio, si possono comprare quantità di beni e servizi molto diversi.
Ma secondo il metodo più comune di misurazione, e cioè guardando l’ammontare totale del PIL misurato in dollari, si nota che quello cinese è ancora dietro quello americano. Nel 2021 ha raggiunto i 17.700 miliardi di dollari, mentre l’economia americana vale 23mila miliardi di dollari.
Ci sono tanti rapporti usciti negli anni che cercano di stimare l’anno in cui la Cina avrebbe sorpassato gli Stati Uniti nel ruolo di prima economia mondale. La banca d’affari Goldman Sachs aveva stimato 11 anni fa che sarebbe successo nel 2026. Lo scorso anno la società di consulenza finanziaria Nomura aveva individuato il 2028 come l’anno del sorpasso, mentre JP Morgan il 2031.
Secondo Bloomberg, sulla sua attuale traiettoria, la Cina è destinata a superare gli Stati Uniti e rivendicare il primo posto dell’economia globale in circa un decennio. Ma viste le tante variabili in gioco Bloomberg ha costruito un modello su tre scenari: uno scenario base in cui la Cina farà le riforme di cui ha bisogno; un percorso più lento trascinato dalla riduzione della popolazione e dall’isolamento internazionale; e una crisi finanziaria, che allontanerebbe di parecchio il traguardo.
La crescita dell’economia cinese si trova di fronte a molte difficoltà. La prima è legata alla strategia “zero COVID” perseguita in questi anni di pandemia. Mentre ormai da tempo l’Occidente ha rinunciato all’utilizzo di ampie misure restrittive per contenere il diffondersi dei contagi, la strategia cinese prevede l’adozione di lockdown durissimi e immediati per eliminare del tutto ogni focolaio che si presenti nel paese. Questo piano aveva funzionato a lungo, consentendo ai cinesi di vivere una vita grossomodo normale mentre l’Occidente era colpito da successive ondate pandemiche, e soprattutto aveva salvato migliaia di vite nella prima parte della pandemia.
Ma la comparsa della variante omicron e delle sue sottovarianti molto contagiose ha reso il mantenimento della strategia quasi impossibile, oltre che economicamente disastroso: la Cina deve ancora affrontare lockdown parziali o totali tutte le volte che in una città si rilevano anche pochi casi, mentre quasi tutto il resto del mondo ha ormai allentato le restrizioni.
Il regime cinese, tuttavia, si è ostinato a mantenere attiva la strategia: sia per ragioni politiche, perché la “vittoria” contro la pandemia è uno dei principali risultati del presidente Xi Jinping, sia per ragioni più pratiche, legate soprattutto al tasso relativamente basso di persone vulnerabili vaccinate.
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Il risultato di queste politiche è stato un rallentamento di vari settori economici importanti, soprattutto ad aprile, quando i lockdown sono stati più duri: in quel mese, le vendite al dettaglio sono calate dell’11,1 per cento, e la produzione industriale del 2,9. Nel corso del secondo trimestre, il tasso di disoccupazione dei giovani tra i 16 e i 24 anni è passato al 19,3 per cento, rispetto al 18,4 dell’inizio dell’anno.
Ma la congiuntura economica della Cina è molto difficile soprattutto per ragioni che sono già strutturali e per altre destinate a diventarlo.
Innanzitutto il settore immobiliare, che ha guidato la crescita cinese per tutti questi anni e che vale circa un quarto del PIL, è in grossa sofferenza. Tutto è iniziato con la crisi di Evergrande, un enorme gruppo cinese che si è rivelato essere la società di sviluppo immobiliare più indebitata al mondo. Dopo essere stata protagonista della grande crescita economica del paese, è entrata in crisi negli ultimi anni, a causa del rallentamento del mercato immobiliare in Cina e delle regolamentazioni più stringenti imposte di recente dal governo per il settore. La dirigenza di Evergrande, inoltre, nel corso degli anni aveva fatto scelte molto rischiose e investimenti pesanti anche in altri settori, dal calcio alle automobili elettriche all’industria agroalimentare.
Il tracollo finanziario di questa società ha mostrato quanto sia profonda la crisi di tutto il settore. Nonostante gli interventi pubblici per evitare una serie di fallimenti a catena che si sarebbero riversati sui cittadini, il settore immobiliare è risultato talmente indebitato che sta facendo fatica a trovare nuovi finanziamenti. Chi investe in un progetto immobiliare oggi, o l’ha fatto di recente, non è più sicuro che sarà effettivamente realizzato.
Molti immobiliaristi in difficoltà non hanno più le risorse necessarie per completare la costruzione e non riescono più a trovare nessuno che presti altro denaro. Questo ha contribuito a lunghi ritardi nelle consegne delle proprietà pre-vendute e un numero crescente di acquirenti ha minacciato di smettere di pagare i propri mutui.
Potrebbe sembrare una bolla momentanea, che durerà qualche anno e che poi ci dimenticheremo. Ma gli effetti negativi saranno invece assai più duraturi: gli investimenti nel settore si ridurranno per molto tempo e, poiché è proprio questo il settore che ha trainato tutta la crescita del paese in questi anni e che vale un quarto del PIL, c’è da aspettarsi che i contraccolpi sulle prospettive future siano importanti e arrivino piano piano a tutta l’economia.
La crisi del settore immobiliare, con tutte le conseguenze sul sistema economico, rivela come mai la Cina non stia affrontando gli aumenti dei prezzi che stanno invece pesando su tutto il resto del mondo. L’economia sta rallentando e manca quindi quella pressione sui prezzi che tipicamente li spinge al rialzo: i continui lockdown e la flessione del settore immobiliare hanno indebolito la domanda dei consumatori e limitato l’attività economica.
A settembre l’inflazione, ossia l’aumento generalizzato del livello dei prezzi, è stata pari al 2,8 per cento rispetto a un anno prima. L’inflazione di fondo, quella al netto dei beni energetici e alimentari, considerati i più volatili e imprevedibili, è scesa allo 0,6 per cento a settembre, rispetto a un aumento dello 0,8 per cento del mese precedente. Per fare un paragone, a settembre negli Stati Uniti i prezzi erano più alti dell’8,2 per cento rispetto all’anno prima e l’inflazione di fondo era pari al 6,6 per cento.
Questo fa capire come mai la Cina stia riducendo i tassi di interesse per cercare di stimolare l’economia e far ripartire i prestiti al settore immobiliare, mentre il resto del mondo li aumenta per combattere l’inflazione.
Questa divergenza potrebbe essere piuttosto dannosa per l’economia cinese, poiché potrebbe portare a una cosiddetta “fuga di capitali”: gli investitori, con mercati finanziari globalizzati come quelli odierni, vanno dove trovano investimenti più redditizi. Se la Cina offrirà ancora a lungo tassi di interesse più bassi rispetto agli altri, soprattutto rispetto al suo principale concorrente, ossia gli Stati Uniti, si espone al rischio che i capitali lascino il paese per dirigersi altrove.
Questo rischio è ben visibile anche dalla debolezza della moneta cinese rispetto al dollaro. Lo yuan da inizio anno ha perso oltre il 10 per cento del suo valore e un calo così notevole non si vedeva dal 1994. Questo potrebbe significare che molti investitori stanno vendendo yuan per dismettere i propri investimenti.
Ma oltre questi fattori congiunturali, per quanto seri e destinati a durare a lungo, ci sono anche dinamiche strutturali che potrebbero aver cambiato definitivamente il ritmo di crescita dell’economia cinese.
Infatti, il rallentamento generale della Cina, rispetto ai ritmi di crescita molto vivaci a cui si era abituati è comunque in corso da almeno un decennio, sebbene siano stati molti i tentativi del governo di arginarlo.
Non ci sono rimedi semplici e alla portata per impedire questa decelerazione, che è fisiologica ed era prevista. Molti analisti vedono una causa nell’invecchiamento rapido della popolazione per effetto dell’aumento del benessere e degli effetti perversi della politica del figlio unico, che hanno anticipato significativamente la transizione demografica da paese giovane a paese vecchio. L’invecchiamento della popolazione porterà con sé una serie di importanti implicazioni economiche e politiche, tra cui la diminuzione della forza lavoro, l’indebolimento dei consumi, il calo del risparmio delle famiglie e la crescita della spesa per la sicurezza sociale.
A seconda delle stime, la Cina potrebbe già non essere più il paese più popoloso del mondo, ed essere stata superata dall’India.
Nel lungo termine, l’invecchiamento della popolazione cinese potrebbe portare la forza lavoro a ridursi del 15 per cento nei prossimi 15 anni, secondo alcune stime citate dall’Economist. La società di consulenza Capital Economics ha stimato che il PIL cinese potrebbe avvicinarsi a quello americano o addirittura superarlo nel giro di una quindicina di anni, solo per tornare al secondo posto mentre si afferma il suo declino demografico. Ed è proprio per far fronte a questo scenario che nel 2015 è stata abolita la politica del figlio unico, anche se finora con scarsi risultati.
Rispetto ad altri paesi che stanno a loro volta sperimentando l’invecchiamento della popolazione, la Cina soffre del problema aggiuntivo di «essere invecchiata prima di essere diventata ricca», una condizione che rende ancora più difficile la sfida demografica, secondo un rapporto dell’ISPI.
Secondo Alessia Amighini, esperta di Asia dell’ISPI e autrice della pubblicazione, la Cina dovrà fare molti cambiamenti politici per continuare a registrare una robusta crescita economica: dovrebbe accelerare ulteriormente il ritmo della sua riforma di liberalizzazione dei mercati; proteggere i diritti di proprietà intellettuale e sostenere l’innovazione e l’aggiornamento industriale; considerare di abbandonare il sistema di registrazione delle famiglie, superando le principali barriere per l’urbanizzazione.
In più, di fronte a una popolazione sempre più vecchia, il governo dovrebbe anche cercare di bilanciare il fondo pensionistico, trasferendo più beni di proprietà dello stato, ritardando l’età pensionabile e unificando gli standard pensionistici per i diversi gruppi di pensionati. Solo se le riforme progrediranno in tal senso, l’economia cinese potrà restare su un sentiero espansivo.
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