Lo Smithsonian ha restituito alla Nigeria 29 “bronzi del Benin”
La grande istituzione museale statunitense sta facendo scelte molto concrete nel dibattito sulla riconsegna delle opere saccheggiate dal colonialismo
di Kelsey Ables - The Washington Post
Diversi “bronzi del Benin” che per decenni sono stati nei musei di Washington stanno infine per tornare in Nigeria, 125 anni dopo che le truppe britanniche li saccheggiarono dall’attuale Nigeria, 62 anni dopo l’indipendenza della Nigeria e i successivi appelli per il loro rimpatrio, e due anni dopo l’inizio di un dibattito americano sul razzismo istituzionale aveva rinnovato l’attenzione su quegli appelli.
Durante una cerimonia che si è tenuta martedì al Museo nazionale di arte africana dello Smithsonian (un’importantissima istituzione culturale statunitense che gestisce tra le altre cose diversi musei di Washington, ndr), i funzionari del museo hanno trasferito la proprietà di 29 bronzi e la National Gallery of Art ne ha consegnato uno ai rappresentanti della Commissione nazionale nigeriana per i musei e i monumenti. Nove rimarranno a Washington in prestito a lungo termine.
«Lo Smithsonian è lieto e onorato di dare, con questo trasferimento di proprietà, un piccolo contributo per ristabilire la dovuta giustizia e restituire la dovuta visibilità e i dovuti oggetti alla Nigeria» ha detto il segretario dello Smithsonian Lonnie G. Bunch III alla cerimonia. «Come istituzione siamo consapevoli di essere amministratori di queste collezioni. Non ne siamo proprietari».
Bunch ha sottolineato che la nuova politica di gestione delle collezioni dello Smithsonian prevede il rimpatrio di oggetti per motivi etici, il primo aggiornamento significativo dal 2001 da parte di un’istituzione nata 176 anni fa. «Ci auguriamo che la cerimonia di oggi sia di esempio per tutte le istituzioni culturali» ha detto.
Ngaire Blankenberg, direttrice del Museo nazionale di arte africana che lo scorso autunno aveva rimosso dalle opere esposte i bronzi del Benin, ha affermato che la scelta riflette un cambiamento nelle pratiche del museo. «Questo ritorno avvia l’inizio di una nuova era nelle nostre relazioni con la corte reale, con la Nigeria e con l’Africa e gli africani in generale» ha detto, definendolo «uno dei tanti passi» da intraprendere verso la creazione di «dinamiche di potere più eque fra chi possiede e chi interpreta».
Lai Mohammed, ministro nigeriano dell’informazione e della cultura, ha elogiato il provvedimento. «Restituendo i manufatti» ha detto «queste istituzioni stanno scrivendo insieme nuove pagine di storia. La loro coraggiosa decisione di restituire queste opere d’arte senza tempo è degna di emulazione».
Da Boston a Berlino, i bronzi del Benin sono diventati un simbolo internazionale delle politiche colonialiste delle istituzioni culturali occidentali. Sono al centro di un movimento mondiale che chiede il rimpatrio di manufatti saccheggiati o di dubbia acquisizione, come i marmi del Partenone, la tavoletta di Gilgamesh, la statua Moai dell’Isola di Pasqua. La cerimonia di martedì ha seguito altre simili avvenute in Europa nel 2021, in occasione delle quali l’Università di Cambridge e il Museo del Quai Branly a Parigi hanno rinunciato ai loro bronzi. Con il recente provvedimento il prestigioso Smithsonian, il più grande sistema museale del suo genere al mondo, spera di ispirare altri musei a fare altrettanto.
Il passaggio di martedì è stato solo una tappa di un viaggio lungo e complicato: il Museo di Storia Naturale dello Smithsonian ha ancora 20 bronzi del Benin, sottoposti di recente a valutazione, e l’istituzione ha molti altri oggetti di origini controverse, tra cui migliaia di resti umani. A detta di Bunch una valutazione completa dell’intera collezione di 155 milioni di oggetti non è in programma. Blankenberg ha dichiarato che il suo museo sta stilando un elenco di oggetti, ma senza aggiungere dettagli. In un’intervista dopo la cerimonia Bunch ha detto che a suo vedere il ritorno dei manufatti incoraggia la responsabilità internazionale. «Ci consente di essere più globali e di assicurarci che i nigeriani capiscano che lo Smithsonian sta facendo un lavoro che li aiuta. Ed è un aspetto importante, ora che siamo tutti molto più collegati dalla tecnologia. Il mondo dirà: “Queste sono le istituzioni che ci hanno trattato in modo equo, queste altre invece non lo hanno fatto”».
La direttrice della National Gallery Kaywin Feldman ha anche sostenuto che il rimpatrio creerà fiducia. «Al pubblico interessa molto come gli oggetti arrivano nei musei. È una domanda che ci viene fatta continuamente» ha detto dopo la cerimonia. «Penso che essere più trasparenti sulla provenienza e sulla storia di un oggetto possa davvero attirare il nostro pubblico e rendere l’istituzione più accessibile».
«Bronzi del Benin» è un termine generico per un ampio corpus di manufatti che risalgono almeno al Sedicesimo secolo. Comprende migliaia di oggetti realizzati con materiali diversi e raffiguranti vari soggetti, ad esempio busti commemorativi di re e animali. Si stima che di tali oggetti tra i tremila e i diecimila siano stati trafugati dagli inglesi, molti dei quali nel Regno del Benin (parte dell’attuale Nigeria, da non confondere con l’odierno stato del Benin) nel 1897 durante una rappresaglia, la fatale invasione britannica ora nota come “Spedizione punitiva”. Gran parte delle opere rubate – circa 900 – è tuttora al British Museum di Londra.
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Un recente studio condotto su 70 musei dal Washington Post ha rilevato che dei 56 che hanno pezzi del Benin, 16 sono impegnati in un processo di rimpatrio. I critici del movimento di rimpatrio si sono chiesti fino a che punto si spingeranno i musei e hanno espresso preoccupazioni sulla cura degli oggetti una volta restituiti. Parlando alla cerimonia di martedì a nome del sovrano dell’Oba [come viene indicata l’attuale rappresentanza di una cultura tradizionale relativa al popolo Edo che si ispira al vecchio Regno del Benin, ndr] il principe Aghatise Erediauwa ha definito queste critiche «arcaiche».
«La verità è che nessun argomento può trasformare le opere saccheggiate in opere non saccheggiate o le opere rubate in opere non rubate. Semplicemente non esiste base morale o legale a sostegno della detenzione ostinata della proprietà culturale che è stata saccheggiata durante le spedizioni militari o in negoziati iniqui, se vogliamo dirla tutta. Questa richiesta da parte di alcuni storici dell’arte e curatori non ha altro scopo che l’interesse personale» ha detto. «Siamo grati a voi e ad altri che stanno dalla parte della verità, e riconoscono quale sia il vero posto di queste opere».
Dopo la cerimonia Blankenberg ha fatto proprio questo sentimento. «Non siamo i guardiani del mondo. I musei occidentali non sono i custodi di tutte le cose del mondo» ha detto. «Ci sono così tante false premesse intorno al dibattito. La gente dice: “Oh no, se restituisci tutto, a questo museo non rimarrà niente”. Abbiamo dodicimila oggetti nelle nostre collezioni. E se tutto il nostro museo si basasse su oggetti rubati, allora francamente non dovremmo esistere».
Blankenberg non ha voluto commentare le scelte di altri musei sul collezionismo etico, ma ha affermato che la restituzione dei manufatti è avvenuta senza intoppi. «Non c’è niente di semplice nella de-accessione museale, né dev’esserci. È un processo faticoso. Ma non c’è stata resistenza o discussione» ha detto. «L’istituzione nel suo complesso è davvero impegnata a capire quale sia la cosa giusta».
I bronzi torneranno in Africa nelle prossime settimane. La loro destinazione finale dovrebbe essere il nuovo Museo Edo di arte dell’Africa occidentale di Benin City, in Nigeria, la cui inaugurazione è prevista nel 2025. E a Washington Blankenberg sta immaginando una mostra per avvicinare i visitatori alla storia dei bronzi.
«Non voglio soffermarmi troppo su questo particolare episodio di violenza coloniale come se fosse l’intera storia di queste incredibili opere d’arte» ha detto. «Dobbiamo essere in grado di capire che queste opere d’arte sono state create in un contesto e da un talento incredibili e tuttora esistenti».
© 2022, The Washington Post
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(traduzione di Sara Reggiani)