Perché Xi Jinping non può rinunciare alla strategia “zero COVID”
Sta creando problemi e imbarazzi alla vigilia dell'importante Congresso del Partito comunista, ma difficilmente sarà modificata
di Guido Alberto Casanova
Questa domenica a Pechino si apre il Congresso del Partito comunista cinese, l’evento politico più importante del paese. Ci sono molte questioni su cui la dirigenza del partito dovrà esprimersi per segnalare in che direzione intende guidare il paese, e tra queste una delle più rilevanti sarà il mantenimento o meno della “strategia zero COVID”, che continua a creare enormi problemi in Cina.
Nelle ultime settimane il numero dei contagi ha ripreso a salire, e sebbene sia ancora molto limitato si è tornati a parlare di possibili lockdown, cosa che potrebbe mettere in imbarazzo Xi Jinping e la leadership del partito in un momento di celebrazione generale come dovrebbe essere il Congresso.
Negli ultimi giorni, in alcune zone di Shanghai sono ricomparse le recinzioni metalliche che erano state viste la scorsa primavera e che venivano usate per costringere i cittadini a rimanere chiusi in casa: alcuni analisti hanno parlato del rischio di un nuovo lockdown. La settimana scorsa invece a chi si trovava nello Xinjiang è stato impedito di lasciare la regione occidentale del paese, dopo lo scoppio di un piccolo focolaio nella regione.
Quello cinese non è stato l’unico governo ad adottare una politica di completa eradicazione del virus, ma l’intransigenza e l’autoritarismo con cui è stata applicata ha contraddistinto il modello di Pechino rispetto agli altri paesi. Nell’ultimo anno sono emerse innumerevoli storie di famiglie costrette alla fame durante i lockdown per mancanza di sufficiente cibo in casa, mentre lo scorso settembre il terremoto che ha colpito la città di Chengdu ha provocato almeno 74 morti tra i 21 milioni di residenti costretti a restare nelle proprie case.
I frequenti lockdown stanno inoltre creando gravi danni all’economia, la cui crescita quest’anno dovrebbe essere la più bassa da oltre trent’anni.
Da tempo quindi la decisione del governo di proseguire nella politica zero COVID, mentre quasi tutto il resto del mondo ha posto fine a gran parte delle restrizioni, è ampiamente criticata e considerata problematica. E per questo si erano create aspettative che durante il Congresso la strategia sarebbe stata modificata e allentata. Probabilmente non sarà così, e questo potrebbe creare nuovi problemi per Xi Jinping, che dovrebbe cominciare il suo terzo mandato da segretario del partito e presidente.
Come funziona la strategia zero COVID
La strategia zero COVID si concretizza in un’aggressiva azione di test di massa, tracciamento e messa in quarantena. Fin dall’inizio della pandemia, il governo fa ampio ricorso ai tamponi per identificare i nuovi contagiati e isolarli. In certi casi, alla popolazione di intere città e distretti viene richiesto di sottoporsi a un test per il COVID ogni 48 ore anche in assenza di sintomi.
I contatti dei contagiati, poi, devono essere messi in quarantena. La nozione di chi vada considerato come un contatto è molto espansiva e spesso arbitraria: può arrivare a indicare anche persone che non sono entrate in contatto diretto ma che semplicemente si siano trovate nello stesso edificio o nello stesso luogo con una persona risultata positiva. Tuttavia, nei casi in cui la situazione non ritorni sotto controllo e i contagi continuino ad aumentare, le autorità locali nell’ultimo anno sono ricorse sempre più spesso all’imposizione di duri lockdown per la popolazione.
L’intransigenza e, in alcuni casi, la violenza con cui questi lockdown sono stati imposti negli ultimi due anni è una delle caratteristiche principali della strategia zero COVID: il regime cinese ha spesso usato tutta la forza del suo apparato di polizia per tenere le persone chiuse in casa, commettendo anche ampi abusi.
L’obiettivo sanitario di questa strategia così radicale è quello di eradicare completamente il virus, eliminando sul nascere qualsiasi possibile focolaio e impedendo al virus di diffondersi. Inoltre, per evitare l’importazione dei contagi dall’estero, da due anni e mezzo la Cina è un paese dove è estremamente difficile entrare anche per chi ci lavora o per chi è cittadino e desidera rientrare.
Una battaglia politica
Da tempo gli analisti si chiedono come mai la Cina dopo i primi lockdown del 2020 non abbia mai davvero cambiato il proprio modello di gestione della pandemia, mentre in quasi tutto il mondo le restrizioni venivano prima allentate e poi eliminate. Con la comparsa delle varianti delta prima e omicron poi, tutti gli altri paesi hanno rinunciato a tentare di eliminare il virus e piuttosto hanno optato per la convivenza. La Cina invece continua a voler trattare il COVID come faceva nel 2020.
Esistono delle ragioni concrete per le preoccupazioni della dirigenza comunista, soprattutto nei mesi politicamente sensibili che precedono il Congresso. Innanzitutto, i due vaccini sviluppati da Sinovac e Sinopharm su cui si è basata la campagna vaccinale di Pechino si sono rivelati meno efficienti contro le nuove varianti rispetto ai vaccini a mRNA sviluppati da Pfizer e Moderna. Tanto che secondo quanto riportato recentemente dal Financial Times, tra 2020 e 2021 la Cina avrebbe richiesto a Moderna di condividere le sue proprietà intellettuali sul vaccino.
Un altro elemento è la mancanza di adeguate strutture sanitarie per affrontare la pandemia come stanno facendo i paesi occidentali. Non solo la Cina ha meno dottori pro capite, ma rispetto alla media dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE, un gruppo di paesi sviluppati) il paese ha a disposizione appena un quarto dei letti in terapia intensiva in relazione alla popolazione. Questo problema poi si approfondisce nelle campagne, dove il numero di letti e di dottori è la metà rispetto alle aree urbane.
Tuttavia le nuove varianti hanno cambiato radicalmente l’andamento della pandemia e oggi in Cina circa 4 nuovi casi su 5 sono asintomatici, con appena una dozzina di casi gravi attivi in tutto il paese.
È quindi evidente che ci siano anche altre motivazioni che spingono la leadership cinese a non abbandonare la strategia zero COVID.
Per molto tempo, mentre nel resto del mondo la pandemia spingeva tanti paesi a imporre lockdown e restrizioni, la Cina ha vissuto in una condizione di apparente normalità con un’incidenza di contagiati praticamente nulla. Nei 18 mesi che hanno seguito la fase iniziale della pandemia, dopo che a Wuhan il virus era finalmente stato contenuto con enormi sforzi, in Cina erano stati registrati solo due decessi legati al coronavirus.
Questa relativa tranquillità è stata spesso messa in contrasto dalla propaganda di Pechino con le immagini tragiche provenienti dagli Stati Uniti o dall’Europa. Il confronto delle due situazioni, con appena 5.000 morti in Cina e oltre un milione negli Stati Uniti, è stato usato ripetutamente da Xi Jinping per argomentare la superiorità del modello politico cinese, dimostratosi come il più capace di intervenire con vigore per contenere la diffusione del virus e preservare il benessere della popolazione.
Questa narrazione, basata su un presunto eccezionalismo della dirigenza di Pechino, ha convinto molti cinesi che osservando ciò che avveniva fuori dai propri confini hanno rivalutato e apprezzato gli sforzi fatti dal governo. Se il prezzo del successo nella lotta alla pandemia era la possibilità che qualche comunità ristretta fosse sottoposta a lockdown, la popolazione si è mostrata favorevole a questo compromesso pur di mantenere una certa normalità quotidiana. Da questo punto di vista, la strategia zero COVID è stata un veicolo per rinnovare il consenso popolare del partito e le sue credenziali patriottiche.
Il dilemma di omicron
Questa narrazione ha tenuto fino alla fine dell’anno scorso. Con l’arrivo della variante omicron, però, il virus ha cominciato a evadere anche i più severi controlli cinesi e diffondersi ugualmente nel paese. Il caso più eclatante è stato quello di Shanghai, che la scorsa primavera è stata per circa due mesi in completo lockdown, ma non è stato l’unico. Gli abitanti di intere città e province sono stati rinchiusi in casa durante tutto il 2022.
Col diffondersi del lockdown duro, anche l’attitudine dei cinesi verso la strategia zero COVID è cambiata e sui social media sono iniziati a comparire video di proteste contro le chiusure. Non si tratta solo delle restrizioni imposte ai cittadini, che in molti casi hanno sperimentato per la prima volta sulla propria pelle tutto il potere coercitivo delle autorità, ma anche del peggioramento delle condizioni di vita di molti cinesi.
La chiusura di intere città industriali ha provocato enormi danni all’economia con sospensioni delle vendite, licenziamenti e perdita di reddito. La disoccupazione è aumentata, soprattutto tra i giovani, e gli investitori stranieri nel paese sono esitanti. Il mese scorso la Banca Mondiale ha quasi dimezzato le prospettive di crescita dell’economia cinese rispetto alle previsioni formulate ad aprile, portando la crescita attesa del PIL dal 5% annuo al 2,8%.
Non perdere la faccia
Nonostante la crescente insofferenza verso la strategia zero COVID, il governo continua a segnalare la propria intenzione di tenerla in vigore. Più volte negli ultimi mesi i media di stato e le autorità hanno espresso la necessità di proseguire con questa strategia di eradicazione, sebbene i danni economici si stiano rivelando molto ingenti.
A dispetto dei rischi per la stabilità socioeconomica del paese, l’applicazione rigida della strategia zero COVID è diventata un’esigenza per ogni funzionario locale, sulla base della quale viene valutata la fedeltà al partito e la lealtà verso Xi Jinping: nessun membro del partito a nessun livello può permettersi di disattenderla senza rischiare la propria carriera.
La strategia zero COVID è intrinsecamente collegata alla figura di Xi Jinping e alla sua determinazione a dimostrare che non c’è un modello di governance migliore per la Cina di quello offerto dal partito.
Riformarla o peggio abolirla in questo momento senza che cambino in maniera radicale le condizioni della pandemia equivarrebbe a smentire le promesse fatte dal segretario generale alla popolazione, poiché sarebbe come affermare implicitamente che i sacrifici richiesti ai cittadini cinesi in questi ultimi anni non sarebbero stati necessari se solo fosse stata adottata una politica meno rigida.
Un eventuale ripensamento agli occhi della dirigenza cinese sarebbe percepito come l’ammissione di un errore: è un messaggio di debolezza che Xi non può permettersi, soprattutto in questo momento delicato, in cui con il Congresso sta ridisegnando l’intera leadership del partito.