Cos’è questa storia del “declino del 69 per cento degli animali”
Lo ha segnalato un nuovo rapporto molto citato sulla biodiversità nei vertebrati dal 1970 a oggi, ma interpretarne i risultati non è semplice
Mercoledì 12 ottobre il WWF e la Zoological Society di Londra hanno diffuso la nuova edizione del Living Planet Report, il loro rapporto biennale sullo stato delle specie animali che popolano il nostro pianeta. Il documento segnala una marcata riduzione di specie tra le popolazioni di vertebrati, ma come avviene spesso la pubblicazione dei risultati è stata comunicata con approssimazione dai mezzi di comunicazione.
Il rapporto dice che tra il 1970 e il 2018 è stato rilevato un calo medio del 69 per cento delle popolazioni di vertebrati tenute sotto controllo da vari gruppi di ricerca, in termini di abbondanza relativa delle specie. Con questa definizione si intende la misurazione di quanto sia rara o abbondante una determinata specie rispetto ad altre, che condividono lo stesso ecosistema. Se sappiamo che in una popolazione ci sono 4 specie diverse e 200 animali, possiamo valutare la loro distribuzione relativa. In una popolazione ci potrebbero essere 50 animali per ciascuna delle specie (quindi 4 x 50 = 200), mentre in un’altra popolazione una specie potrebbe essere preponderante rispetto alle altre (170 di una specie + 8 di un’altra e così via fino ad arrivare a 200).
Il sistema serve per comprendere quanto sia diffuso un particolare organismo rispetto al numero complessivo degli organismi che popolano una certa zona. L’abbondanza relativa delle specie è un indicatore importante della biodiversità, perché consente di comprendere le variazioni negli ecosistemi.
Il rapporto da poco pubblicato è sicuramente preoccupante e non deve essere sottovalutato, ma è importante ricordare che deriva da analisi statistiche realizzate sulla base di dati molto difficili da raccogliere e talvolta incompleti. Tenere sotto controllo grandi popolazioni di animali non è semplice e le oscillazioni nel numero di specie che li compongono possono derivare da numerosi fattori, non necessariamente legati a un declino irreversibile.
Le informazioni contenute nel nuovo rapporto sono inoltre riferite ai soli vertebrati – quindi mammiferi, uccelli, rettili, anfibi e pesci – mentre non prendono in considerazione tutti gli altri animali, che costituiscono la maggioranza delle specie. Il lavoro di ricerca ha riguardato le popolazioni di vertebrati appartenenti a oltre 5.300 specie ed è basato sugli studi scientifici che se ne sono occupati negli ultimi 50 anni circa.
Alcune di queste ricerche sono state effettuate in lunghi periodi di tempo, con raccolte di dati che magari nei primi anni non erano molto accurate (per esempio a causa delle scarse risorse disponibili o di limitazioni tecnologiche) e che si sono affinate solo nel corso del tempo, portando a rilevare differenze già esistenti ma inizialmente difficili da apprezzare.
A ogni edizione, gli stessi autori del rapporto ricordano queste circostanze e invitano a non focalizzarsi troppo su un unico dato, come il 69 per cento comunicato nel nuovo studio. Questo “Living Planet Index” indica infatti la riduzione in termini di biodiversità, cosa diversa dal calo assoluto di animali. Il 69 per cento è un dato medio basato sui trend riscontrati da diversi studi su varie popolazioni di animali, semplificando molto può essere paragonato agli indici azionari che indicano come sta andando una borsa in un certo periodo. Qui c’è una spiegazione più articolata.
Il Living Planet Index ha lo scopo di capire come cambino le popolazioni di animali nel corso del tempo, non ha l’obiettivo di calcolare quanti esemplari siano presenti in termini assoluti, come spiegano i suoi stessi autori. A ciò si aggiunge che i dati impiegati derivano dagli studi disponibili su determinate specie e popolazioni e non su analisi a campione che riguardino specie più significative di altre, per determinare l’andamento generale del numero di vertebrati nel corso del tempo.
C’è quindi il rischio che alcuni studi dedicati a specie in popolazioni di animali altamente in pericolo, quindi con un’alta percentuale di riduzione degli esemplari, possano influire sul dato relativo complessivo. È una preoccupazione condivisa da numerosi gruppi di ricerca e molto dibattuta, che mostra quanto sia difficile fare stime accurate sullo stato di salute della biodiversità, cioè la grande varietà di organismi viventi negli ecosistemi.
Il fatto che sia difficile produrre stime accurate non significa naturalmente che iniziative come il Living Planet Report siano inutili, semmai mostra quanto sia importante sviluppare nuovi metodi per compiere osservazioni e censimenti delle popolazioni di animali, in modo da avere dati più accurati su cui lavorare. Secondo vari gruppi di ricerca, inoltre, il rapporto sottostima l’effettiva perdita di biodiversità perché comprende pochi dati sugli anfibi, più difficili da osservare e tenere sotto controllo rispetto ad altri animali. Problemi analoghi si sono presentati nelle ricerche sull’effettivo declino degli insetti, che sono invertebrati e non rientrano nei conteggi del Living Planet Index.
Le principali cause della perdita di biodiversità negli ultimi 50 anni sono le attività umane, a cominciare dagli allevamenti e dalle coltivazioni che hanno via via sottratto spazi alle specie selvatiche. Gli effetti del riscaldamento globale stanno complicando ulteriormente le cose, compromettendo gli equilibri in numerosi ecosistemi e riducendo le possibilità di sopravvivenza per numerose specie.