Cosa fanno i presidenti di Camera e Senato
Sono le cariche dello Stato più importanti dopo il presidente della Repubblica e hanno una grande influenza sui lavori parlamentari
Giovedì inizierà la nuova legislatura con l’insediamento dei parlamentari eletti lo scorso 25 settembre. Il loro primo compito sarà eleggere i presidenti e i vicepresidenti dei due rami del parlamento, Camera e Senato, in un passaggio istituzionale assai importante sul quale le discussioni e le trattative interne ai partiti vanno avanti da giorni. Dato che organizzano e regolamentano molti aspetti dei lavori parlamentari, i presidenti di Camera e Senato sono ritenuti figure fondamentali della vita istituzionale del paese e per questo rappresentano rispettivamente la terza e la seconda carica dello Stato (ma è una distinzione soprattutto formale), subito dopo la prima che è la presidenza della Repubblica.
Le presidenze dei due rami del parlamento differiscono sia per le modalità di elezione che per alcune funzioni. Il presidente della Camera può essere eletto al primo scrutinio con la maggioranza dei due terzi dei membri, al secondo e al terzo con la maggioranza dei due terzi dei votanti e infine dal quarto scrutinio in poi con la semplice maggioranza assoluta dei voti espressi. Invece per eleggere il presidente del Senato basta la maggioranza assoluta dei membri nei primi due scrutini e la maggioranza assoluta dei votanti nel terzo scrutinio. Se non basta neanche il terzo scrutinio si procede a una quarta votazione con un ballottaggio tra i due candidati più votati.
Per quanto riguarda le funzioni, sia il presidente del Senato che quello della Camera rappresentano le rispettive aule, ne regolano gli organi (come per esempio le commissioni) e ne applicano il regolamento. Nell’ambito dell’attività parlamentare dirigono la discussione, mantengono l’ordine, concedono la parola, stabiliscono l’andamento delle votazioni e proclamano i risultati. Inoltre presiedono le Giunte per il regolamento e le Conferenze dei capigruppo, due organi piuttosto importanti: il primo esamina e approva ogni modifica al regolamento della rispettiva camera, oltre a esprimersi sulle questioni di interpretazione; il secondo programma i lavori parlamentari e stabilisce quali argomenti verranno trattati durante le sedute, su indicazione dei gruppi parlamentari e del governo.
Dal loro ruolo all’interno di questi organi si capisce che i presidenti possono essere più influenti di quello che sembra guardando le dirette parlamentari, durante le quali si limitano per lo più a suonare la campanella o richiamare all’ordine. I regolamenti delle due camere, infatti, non si basano solamente sugli articoli scritti, ma vengono costantemente integrati da interpretazioni di quegli articoli e da consuetudini consolidate negli anni. E su modifiche e integrazioni al regolamento i presidenti hanno un grande potere decisionale, condiviso con i membri delle Giunte.
Questo fa sì che stabilire l’indirizzo da dare all’attività parlamentare sia in certi casi complesso e nient’affatto immediato, specie alla Camera dove il regolamento si presta di più a interpretazioni varie ed è meno lineare rispetto a quello del Senato.
Negli ultimi anni ci sono stati diversi esempi di presidenti di Camera o Senato che hanno adottato approcci interventisti influendo concretamente nel processo di approvazione delle leggi. Maria Elisabetta Alberti Casellati, la presidente uscente del Senato, ebbe per esempio un ruolo di primo piano nelle sedute che portarono all’affossamento del ddl Zan, quello contro l’omotransfobia. Approvò infatti la richiesta di voto segreto, che si sapeva avrebbe aumentato le possibilità che nella maggioranza di allora ci fossero dei “franchi tiratori”, senatori che votano contro le indicazioni di partito.
Con decisioni di questo tipo, il presidente di una Camera può insomma incidere sull’approvazione o sulla bocciatura della legge, così come può farlo per esempio posticipando una determinata discussione in modo da rendere un voto incompatibile con i lavori dell’aula. In altri casi può invece adottare la cosiddetta “ghigliottina”, una procedura parlamentare che impone un limite alla discussione di un provvedimento anticipando il voto finale. Uno strumento che fu usato per la prima volta alla Camera nel 2014 da Laura Boldrini, per impedire al Movimento 5 Stelle di fare ostruzionismo su un decreto che riguardava l’Imu e la Banca d’Italia.
Una differenza tra presidente della Camera e presidente del Senato sta nel fatto che quest’ultimo è di fatto il sostituto del presidente della Repubblica. Significa che se Sergio Mattarella non potesse esercitare le sue funzioni – perché dimissionario, per ragioni di salute o perché si trova all’estero – queste verrebbero assunte dal presidente del Senato, come stabilito dall’articolo 86 della Costituzione. Questo articolo ha fatto nascere la figura del presidente supplente della Repubblica, una qualifica di solito assunta dal presidente del Senato quando il presidente in carica è in viaggio all’estero. Nella storia repubblicana solamente una volta il presidente del Senato dovette sostituire il presidente in carica per impedimenti fisici, nel 1964, quando Antonio Segni ebbe un malore causato da una trombosi cerebrale. In seguito si dimise e venne sostituito da Cesare Merzagora.
Dal 1986 il presidente supplente può anche fregiarsi di un’insegna per il periodo in cui si trova in carica: è un quadrato bordato di azzurro con al centro il simbolo della Repubblica in argento. Molti di questi dettagli del cerimoniale, anche piuttosto minuziosi, furono decisi da Francesco Cossiga quando era presidente del Senato (Cossiga era assai appassionato di questioni militari, di informazione e di spionaggio e ci teneva particolarmente ai simboli).
In questa legislatura i presidenti avranno un elemento di novità con cui fare i conti, il numero dei parlamentari eletti ridotto a 600 (400 deputati e 200 senatori). Questa modifica, introdotta dal referendum costituzionale del 2020, ha già comportato una sostanziosa modifica al regolamento del Senato che tra le altre cose ha ridotto il numero di commissioni permanenti portandole da 14 a 10. Alla Camera, invece, nonostante l’imminente inizio della legislatura, non è stata approvata nessuna riforma del regolamento: la discussione si era arenata già lo scorso agosto, quando il presidente uscente Roberto Fico non era riuscito a mettere d’accordo le forze politiche nemmeno su un testo essenziale che introducesse poche modifiche indispensabili.
Un’altra novità, almeno nel dibattito politico dei giorni scorsi, è stata un’ipotesi di cui si è parlato brevemente sui giornali, secondo cui la presidenza di una delle due camere sarebbe potuta andare all’opposizione nonostante la netta vittoria della coalizione di destra. L’ipotesi sembra ormai remota, ma un paio di settimane fa se n’era parlato come di un’idea della leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, associata a un ulteriore tentativo di mostrarsi più istituzionale e disponibile al dialogo con l’opposizione.
L’idea ha perso concretezza in poco tempo, ma ha lasciato spazio ai commentatori per rivangare un’antica tradizione della Prima Repubblica: prima del 1992, infatti, era prassi concedere all’opposizione la presidenza di una delle due camere. Così, in un’epoca dominata politicamente dalla Democrazia cristiana, vennero eletti presidenti della Camera Sandro Pertini (socialista), Pietro Ingrao (comunista) e Nilde Iotti (comunista). Con il bipolarismo degli anni Novanta, e con la fine della Guerra fredda che fece cadere il tabù della sinistra comunista al governo, questa prassi venne abbandonata.
A rompere la tradizione fu il centrodestra di Silvio Berlusconi nel 1994. L’elezione al Senato si giocava tra il presidente uscente Giovanni Spadolini, esponente del Partito Repubblicano, che era all’opposizione, e Carlo Scognamiglio, di Forza Italia. Arrivati al quarto scrutinio ci fu un ballottaggio tra i due, che erano stati i più votati al terzo scrutinio, ma i 325 voti espressi e contati diedero un risultato di parità. In questo caso il regolamento dice che deve essere eletto il più anziano, ossia in quel caso Spadolini. Poi però un riconteggio convalidò una scheda inizialmente ritenuta nulla, in cui il voto era espresso con l’ultima parte del cognome in maiuscolo, “ScognaMIGLIO”.
Probabilmente era un modo codificato per rendere riconoscibile la provenienza del voto. Quella scheda valse l’elezione di Scognamiglio, non senza che in aula si creasse un gran caos, tra le proteste di chi si opponeva alla convalida della scheda e le esultanze di chi inneggiava a Scognamiglio scandendo «Presidente!». L’anziano senatore socialista Francesco De Martino, che presiedeva la seduta, richiamò all’ordine dicendo «non è mica la presa della Bastiglia!». Alla Camera venne eletta invece Irene Pivetti, della Lega Nord. Dopo quella legislatura, sia le maggioranze di centrodestra che quelle di centrosinistra hanno seguito la nuova tradizione di tenersi le presidenze di Camera e Senato.