Chi stabilisce se un’elezione sia stata libera?
Dopo i referendum farsa fatti dai russi in Ucraina se n'è tornati a parlare: un ruolo fondamentale è quello degli osservatori internazionali
di Luca Misculin
Ai referendum organizzati dalla Russia a fine settembre in quattro regioni dell’Ucraina orientale occupate con la forza hanno partecipato decine di quelli che il governo russo ha definito «osservatori elettorali indipendenti». La pratica di invitare persone dall’estero che possano comprovare la legittimità di un’elezione è nata nell’Ottocento ed è ancora oggi molto diffusa. Anche per questo la Russia ha voluto dare una parvenza di regolarità al voto, che in realtà si è svolto sotto lo sguardo e i fucili dei soldati russi ed è stato giudicato una farsa dalla stragrande maggioranza della comunità internazionale.
Anche gli osservatori che il governo russo ha definito indipendenti in realtà provenivano da paesi autoritari alleati della Russia e avevano comprovati legami col regime di Vladimir Putin. In realtà quello dell’osservatore elettorale è un ruolo dai contorni ben definiti, poco conosciuto ma estremamente delicato.
«In un caso grazie alle nostre attività abbiamo evitato una guerra civile. In un altro, ci è rimasto sulla coscienza un presidente ucciso pochi anni dopo la sua elezione: se non l’avessimo certificata facendo il nostro lavoro, paradossalmente, forse sarebbe ancora vivo», spiega una fonte interna all’Unione Europea che ha partecipato a moltissime missioni di osservazione elettorale in giro per il mondo.
Le prime elezioni che i governi occidentali ritennero di dovere controllare inviando osservatori indipendenti si tennero nel 1857 in Moldavia e Valacchia, una regione che oggi fa parte della Romania. Dopo la Seconda guerra mondiale il compito di organizzare queste attività è passato alle principali organizzazioni internazionali che si occupano di sicurezza, nell’ambito di rafforzare i rapporti reciproci fra governi.
Ogni macroregione ha la sua organizzazione che si occupa di osservare in maniera indipendente le elezioni: in Europa c’è l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE), nelle Americhe l’Organizzazione degli Stati americani (OSA), in Africa rientra nei compiti dell’Unione Africana. L’unica organizzazione internazionale che invia missioni elettorali un po’ in tutto il mondo è l’Unione Europea, che rispetto alle altre ha molte più risorse economiche per sostenere questa attività. Assieme alle grandi organizzazioni internazionali lavorano anche piccole e grandi organizzazioni non governative, internazionali o locali. Secondo una stima citata dall’Economist circa l’80 per cento delle elezioni che si tengono in giro per il mondo è controllato da osservatori elettorali provenienti dall’estero.
I principali compiti di un osservatore elettorale si ritrovano nei manuali di condotta delle varie organizzazioni internazionali (qui c’è il manuale dell’OSCE, qui quello dell’OSA) e anche in alcuni trattati internazionali, come il Documento della riunione di Copenhagen della conferenza sulla dimensione umana dell’OSCE, tenuto nel 1990 (PDF).
In estrema sintesi, l’obiettivo di un osservatore elettorale è accertarsi della regolarità delle elezioni che è chiamato a seguire. Per fare questo, fra le altre cose, deve assicurarsi che la campagna elettorale sia stata equa e bilanciata, che l’accesso al voto venga riconosciuto senza discriminazioni di genere o etnia, che non ci siano intimidazioni o violenze nei confronti degli elettori, che lo scrutinio e le operazioni di conteggio dei voti si svolgano senza brogli, e così via.
Alle missioni partecipano tipi diversi di osservatori. L’OSCE per esempio ha una divisione fra osservatori parte del core team, che iniziano a lavorare con mesi di anticipo e passano le giornate a parlare con giornali, politici e organizzazioni locali e ad analizzare la gestione del voto da parte del governo, e gli osservatori a lungo termine (LTO) e breve termine (STO). Nella missione dell’OSCE che ha osservato le recentissime elezioni in Bosnia ed Erzegovina c’era un core team da 15 persone, affiancato da 24 osservatori a lungo termine e circa duecento osservatori a breve termine.
Le missioni dell’Unione Europea hanno una struttura simile, ma sono guidate da un europarlamentare e più in generale c’è grande attenzione per rappresentare ai vertici la più ampia gamma possibile di nazionalità e sensibilità politiche.
In Europa c’è un accordo non scritto per cui le missioni di osservazione elettorale sono sempre guidate dall’OSCE, a cui si affiancano anche altri osservatori inviati dall’Unione Europea, dal Consiglio d’Europa e dalla NATO. Di solito l’OSCE e i suoi partner pubblicano due rapporti sulla regolarità del voto: uno poche ore dopo la chiusura dei seggi, basato soprattutto sulle analisi fatte in campagna elettorale e il giorno del voto, e uno più lungo e contestualizzato su tutto il periodo elettorale, a qualche settimana di distanza. Questo per esempio è il rapporto preliminare dell’OSCE sulle elezioni in Bosnia ed Erzegovina, concordato anche con i suoi principali partner internazionali.
Mentre i rapporti sono curati soprattutto dal core team e dagli osservatori a lungo termine, quelli a breve termine si occupano in particolare delle rilevazioni sul campo nel giorno del voto. Vengono divisi in piccoli gruppi, affiancati da un traduttore e un autista, e nelle ore di apertura dei seggi ne girano il più possibile per fare delle analisi a campione su come stia procedendo il voto. Alla fine del loro incarico di circa una settimana ricevono un piccolo rimborso spese.
«In sostanza il compito principale è quello di riempire un questionario in cui devi annotare quanti scrutatori o scrutatrici lavorano al seggio, quanto sono professionali, quanti rappresentanti di lista ci sono nei paraggi», spiega un’osservatrice a breve termine che ha lavorato a varie missioni per conto del Parlamento Europeo. «Le domande possono essere anche molto tecniche», aggiunge. Le risposte vanno girate in tempo reale al comitato centrale degli osservatori internazionali, se la tecnologia lo consente, oppure annotate.
Una indicazione molto importante che viene data a tutti gli osservatori elettorali è quella di non interferire mai nel processo elettorale, per questioni di rispetto dell’autorevolezza dello stato ospite e per mantenere una posizione credibile e indipendente. Anche in caso di palesi violazioni – una persona che scatta una foto alla propria scheda, o che si presenta al seggio con una scheda precompilata: due situazioni assai comuni per esempio nell’Europa orientale – le istruzioni sono quelle di prendere nota e far confluire tutto nel rapporto finale.
Agli osservatori viene comunque indicato di mantenere una certa flessibilità. Una persona che ha partecipato a diverse missioni dell’OSCE racconta per esempio che alle ultime elezioni in Macedonia del Nord in teoria le norme vietavano di presentarsi al voto armati o di fumare dentro al seggio. Mentre la prima indicazione veniva generalmente rispettata, la seconda molto meno.
Le ispezioni degli osservatori elettorali sono a sorpresa, e spesso capita che i presidenti di seggio non sappiano bene come comportarsi oppure non conoscano nemmeno l’esistenza della figura dell’osservatore elettorale. Anche per questo gli osservatori devono sempre essere riconoscibili – quelli dell’OSCE per esempio indossano una fascia bianca al braccio – e avere con sé documenti che provino chi sono e cosa fanno. Alcuni presidenti di seggio rimangono comunque diffidenti, perché vivono la presenza degli osservatori elettorali come un esame sulla propria attività. Altri si sciolgono presto: in Bosnia, racconta l’osservatrice del Parlamento Europeo, il presidente di un seggio ha insistito per offrirle dell’acqua e del cioccolato prima che andasse via.
Le ostilità nei confronti degli osservatori elettorali possono raggiungere scale molto maggiori. Le missioni vengono organizzate su invito degli stati che tengono le elezioni, ma ultimamente ci sono stati diversi casi in cui governi autoritari o illiberali si siano rifiutati di invitare osservatori elettorali per certificare la legittimità del voto.
Nel 2021 per la prima volta un paese membro dell’OSCE, la Russia, si è rifiutata di fatto di ospitare gli osservatori elettorali della stessa OSCE in occasione delle elezioni parlamentari, stravinte dal partito di Vladimir Putin fra molte denunce di brogli e repressione delle forze di opposizione. L’OSCE aveva chiesto di poter inviare in Russia 500 fra osservatori a lungo e breve termine, ma la Russia aveva imposto un limite arbitrario di 60 persone citando restrizioni per la pandemia.
Più di recente alle elezioni presidenziali brasiliane il presidente uscente Jair Bolsonaro, di estrema destra, non ha invitato osservatori elettorali dall’Unione Europea ma ha accolto una piccola delegazione dell’OSA, un’organizzazione in cui il peso specifico del Brasile è piuttosto ingente.
In posti del genere spesso esistono già delle organizzazioni indipendenti che cercano di monitorare il processo elettorale per prevenire dei brogli. Il Consiglio d’Europa per esempio ha messo in piedi un coordinamento per sostenere alcune ong che si occupano di trasparenza elettorale in paesi assai poco liberi come la Bielorussia e l’Azerbaigian.
Il lavoro delle ong locali che si occupano di monitorare le elezioni è spesso in grado di produrre rapporti molto capillari, ma che raramente riescono a uscire dai confini nazionali. «Gli osservatori elettorali che vengono dall’estero non hanno una distribuzione così ampia e spesso non possono fare affermazioni categoriche sulla qualità del processo elettorale», ha spiegato a EuObserver Laura Thornton, un’esperta di osservazione elettorale, «ma possono fornire una copertura essenziale per le organizzazioni nazionali e hanno accesso a livelli più alti del potere».
Anche per questo a volte la presenza degli osservatori internazionali diventa parte della campagna elettorale, e anche qualcosa di più. «Alle penultime elezioni presidenziali in Colombia l’opposizione insistette per averci, e in generale è un atteggiamento che di recente hanno molti paesi del Sud America», spiega una fonte interna all’Unione Europea che ha partecipato a moltissime missioni di osservazione elettorale.
La stessa fonte racconta che durante le elezioni presidenziali del 2017 in Honduras l’opposizione di sinistra accusò il presidente uscente Juan Orlando Hernández, conservatore, di avere vinto grazie a brogli nel sistema informatico che conteggiava i voti. Gli osservatori elettorali dell’Unione Europea però certificarono che l’opposizione si sbagliava e che un guasto al sistema informatico c’era stato ma soltanto per ragioni tecniche, e senza conseguenze sul voto finale. A capo della missione dell’Unione Europea era l’europarlamentare portoghese di sinistra Marisa Matias, che nonostante le pressioni del suo partito certificò la legittimità della vittoria di Hernández. «Abbiamo davvero evitato una guerra civile», dice la fonte interna all’Unione Europea: «il fatto che proprio una europarlamentare di sinistra avesse certificato il voto diede ancora più valore al nostro lavoro».
In un altro caso, nel 2016, la missione dell’Unione Europea certificò la legittimità dell’elezione a presidente di Haiti di Jovenel Moïse. Era stato eletto per la prima volta presidente del paese caraibico col partito di centrodestra Tèt Kale alle elezioni del 2015, poi annullate per brogli. Era stato rieletto l’anno successivo e aveva iniziato a governare il 7 febbraio del 2017. Moïse è stato poi ucciso nel luglio del 2021 durante un attacco armato alla sua casa. «Ogni tanto ci penso ancora: se non avessimo fatto bene il nostro lavoro, non sarebbe stato eletto e quindi forse sarebbe ancora vivo», racconta la stessa fonte.