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  • Venerdì 7 ottobre 2022

Come Putin è diventato Putin

Oggi compie 70 anni, e in venti ha trasformato la Russia come nessuno avrebbe immaginato

di Eugenio Cau

(AP Photo/Emrah Gurel)
(AP Photo/Emrah Gurel)

Quando, nell’agosto del 1999, il presidente russo Boris Eltsin annunciò che il suo nuovo primo ministro e il successore alla presidenza sarebbe stato Vladimir Putin, milioni di russi non avevano idea di chi fosse. Non lo conoscevano bene nemmeno i giornalisti locali né tantissimi corrispondenti stranieri. Sapevano che Putin era stato nominato l’anno prima capo dell’FSB, cioè capo dell’intelligence, ma non avevano avuto rapporti con quel burocrate oscuro che non aveva mai fatto parlare di sé fino a quel momento. Nel giro di qualche mese, Putin sarebbe diventato presidente e avrebbe cambiato la Russia.

Vladimir Putin oggi compie 70 anni, e benché ormai di lui sappiamo moltissimo, e siano stati scritti libri e articoli, rimane difficile inquadrare la sua figura politica e la sua carriera. A questo proposito, circolano grossomodo due teorie.

Putin, che è al potere ininterrottamente dal 1999, come presidente e primo ministro, ha trasformato la Russia in una dittatura, in uno stato di polizia e in una potenza revanscista, che da anni cerca di sovvertire gli equilibri internazionali e che, con l’invasione dell’Ucraina, ha avviato la prima guerra su larga scala in Europa dai tempi della Seconda guerra mondiale. Alcuni biografi e studiosi sostengono che questo fosse il suo scopo fin dall’inizio. Cioè che Putin e il gruppo di potere che rappresenta avessero come obiettivo da sempre di riportare la Russia a essere la grande potenza dell’èra sovietica, anche a costo di eliminare le libertà democratiche degli ultimi decenni e di uno scontro con l’Occidente.

Altri sostengono invece che all’inizio della sua carriera politica, quando prometteva di trasformare la Russia in uno stato democratico e in un’economia dinamica, Putin fosse sincero, e che le cose siano cambiate gradualmente: che Putin, cioè, sia diventato il presidente autoritario ed espansionista che conosciamo soltanto nel corso degli ultimi decenni, e dopo alcuni eventi specifici.

Attualmente, Vladimir Putin è impegnato in una guerra d’invasione in Ucraina che sta andando sempre peggio per la Russia. Il suo regime è isolato a livello internazionale e l’economia russa rischia nei prossimi anni un grave tracollo a causa delle sanzioni occidentali. Queste difficoltà sempre maggiori stanno rendendo il suo regime via via più fragile, ma Putin continua a dominarlo saldamente: secondo vari esperti, il suo potere è centralizzato ed estremamente ampio, e dopo anni di regime tutti i contrappesi democratici sono di fatto stati eliminati.

La decisione di invadere l’Ucraina è stata sua, così come potrebbe essere sua la decisione di fermare la guerra: Putin è tuttora l’unica persona al mondo che potrebbe far finire la guerra domani, se lo volesse. Per questo è utile sapere chi è, e come è diventato il Putin che oggi conosciamo.

(ANSA / SERGEI ILNITSKY / PAL)

La Russia prima di Putin
La prima parte della vita di Vladimir Putin è relativamente banale. Nacque il 7 ottobre del 1952 a Leningrado, oggi San Pietroburgo, e nel 1975 entrò nel KGB, i servizi segreti dell’Unione Sovietica. Dopo un periodo di lavoro burocratico a Mosca, nel 1985 fu inviato sul campo. Putin sapeva il tedesco, e sperava di essere mandato come agente segreto a Berlino, che ancora verso la fine della Guerra Fredda era uno dei grandi centri dello spionaggio mondiale, o comunque in una città dove avrebbe potuto lavorare in maniera attiva. Invece fu mandato a Dresda, una città relativamente sonnacchiosa nella Germania dell’Est, segno che all’interno del KGB non era certamente uno degli agenti di punta.

Ci sono notizie scarse e contraddittorie su che tipo di lavoro Putin abbia fatto nell’ufficio del KGB a Dresda, ma si è trattato quasi certamente di lavoro burocratico, anche se è possibile che abbia partecipato a programmi di spionaggio industriale.

Putin pratica judo in una foto del 1971 (EPA PHOTO/STR ANSA-CD)

Putin rimase a Dresda fino alla caduta del Muro di Berlino, nel 1989, quando il KGB fu di fatto costretto a lasciare la Germania. Quando tornò nell’Unione Sovietica, dopo quasi cinque anni, la trovò profondamente cambiata: non soltanto sull’orlo del collasso, ma soprattutto attraversata da spinte e idee rivoluzionarie, democratiche, liberali.

Questo è un elemento piuttosto importante della biografia di Putin: poiché si trovava a Dresda, non visse mai le politiche di “glasnost” e “perestrojka”, cioè di “trasparenza” e “ricostruzione” che furono introdotte negli anni Ottanta nell’Unione Sovietica dal presidente Michail Gorbaciov e che portarono soprattutto in Russia alla diffusione di idee democratiche e liberali, all’allentamento della censura, e a un’estensione sempre maggiore della libertà d’espressione. Mentre l’Unione Sovietica si stava aprendo, Putin si trovava in Germania Est, dove invece il regime di Erich Honecker era rimasto eccezionalmente chiuso e retrogrado, ed era sotto molti punti di vista più sovietico della stessa Unione Sovietica.

Dresda, peraltro, essendo molto a oriente, era uno dei pochi posti della Germania Est in cui non era possibile ricevere la radio e la tv della Germania Ovest.

Anche per questo, secondo alcuni biografi, Putin a Dresda rimase isolato in una specie di bolla sovietica mentre il resto del mondo andava avanti, e questo potrebbe aver contribuito al suo sgomento una volta tornato nell’Unione Sovietica della “perestrojka”.

Putin tornò a San Pietroburgo e nel giro di poco tempo divenne assistente di Anatoly Sobchak, un professore di Diritto che nel 1991 divenne il primo sindaco democraticamente eletto di San Pietroburgo. Sobchak, grande oratore e personalità carismatica, era uno dei politici russi più famosi del tempo, e uno dei principali animatori del movimento liberale e democratico. Putin andò a lavorare nell’amministrazione di Sobchak, di cui divenne di fatto il principale collaboratore. Fu responsabile delle relazioni esterne e iniziò ad avere notevoli contatti con aziende e leader stranieri.

Putin ha sempre detto che, quando andò a lavorare per Sobchak, si dimise dal KGB. Varie ricostruzioni giornalistiche hanno però sostenuto che Putin in realtà si dimise anni dopo, e che in tutto il suo periodo a San Pietroburgo avesse mantenuto ampi legami e fedeltà con l’intelligence.

In quegli anni, crollò l’Unione Sovietica.

Dopo il fallito colpo di stato dell’agosto del 1991, Gorbaciov fu costretto a cedere il potere a Boris Eltsin, e nel giro di pochi mesi tutta l’Unione Sovietica si sgretolò. Quello che ne rimase, la Federazione Russa, fu colpita da una crisi economica senza precedenti, provocata in parte dall’incompetenza e dall’impreparazione della classe dirigente russa, e in parte dai pessimi consigli degli economisti occidentali ingaggiati dal governo per trasformare l’economia dirigista sovietica in un’economia di mercato.

Gli economisti occidentali sostennero una cosiddetta “terapia choc”, che consisteva, semplificando molto, nel liberalizzare il prima possibile tutta l’economia, rinunciando alla gradualità e alle cautele. La “terapia choc” era stata un successo in Polonia e in altri paesi ex sovietici, ma in Russia fu un disastro, anche a causa della corruzione e delle resistenze della classe politica ed economica locale.

Il risultato fu un impoverimento complessivo di tutta la Russia. Milioni di persone persero il lavoro da un giorno all’altro, l’inflazione si alzò moltissimo e il paese si trovò nel pieno di una crisi alimentare, che nei primi anni rischiò di lasciare senza cibo parte della popolazione. Le amministrazioni locali erano così disperate che scambiavano materie prime preziose, come petrolio e minerali, per derrate alimentari fresche. Putin fu peraltro la persona che organizzò questi scambi nella città di San Pietroburgo, e secondo accuse mai del tutto confermate ne approfittò per arricchirsi personalmente con atti di corruzione.

Gli anni Novanta furono terribili per la Russia: la popolazione si impoverì e il paese perse il suo status di potenza mondiale.

Boris Eltsin rimase presidente per tutto il decennio, e benché fosse probabilmente un democratico sincero, fu del tutto incapace di guidare il paese nel momento più difficile, anche a causa del degrado progressivo delle sue condizioni di salute e della corruzione della sua famiglia e del suo entourage. In quel decennio nacque la classe dei cosiddetti oligarchi, cioè imprenditori che, approfittando della crisi economica, della corruzione e della completa dismissione dello stato, accumularono enormi ricchezze e ampio potere politico.

Nel 1995 in particolare l’amministrazione Eltsin mise in atto lo schema noto in inglese come “loans for shares”, cioè “prestiti in cambio di azioni”. Secondo questo schema, gli oligarchi investirono somme estremamente modeste per sostenere i bilanci dello stato che rischiava di andare in bancarotta (e per finanziare la campagna per la rielezione di Eltsin nel 1996), e in cambio ricevettero la proprietà di alcune delle più importanti aziende pubbliche del paese.

In questo modo personaggi come Boris Berezovsky, Mikhail Khodorkovsky, Roman Abramovich e Vladimir Gusinsky, tra gli altri, ottennero a prezzi stracciati il controllo di televisioni, giornali, miniere, riserve di gas, pozzi petroliferi. Ottennero, contestualmente, anche enorme potere politico, e la capacità di determinare, con la loro influenza e i loro beni, l’azione di Eltsin.

Una sorprendente ascesa
In questo contesto, in cui imperi economici e carriere politiche di vertice si costruivano in pochissimo tempo, la carriera di Putin fu eccezionale. Quando Sobchak perse le elezioni per il secondo mandato da sindaco di San Pietroburgo nel 1996, Putin si trasferì a Mosca ed entrò immediatamente nel governo nazionale, dove fece una carriera rapidissima: nel 1996 fu nominato vice capo del dipartimento per la Gestione delle proprietà presidenziali, cioè il dipartimento che gestiva le proprietà dello stato in Russia e all’estero; nel 1997 entrò nello staff del presidente Eltsin e nel 1998 fu nominato capo dell’FSB, i servizi segreti eredi del KGB. Di lì a due anni, avrebbe sostituito Eltsin alla presidenza.

Non è mai stato del tutto chiaro come Putin sia stato in grado di fare questa carriera così rapida, che pur non essendo completamente fuori dalla norma – specie in un periodo tumultuoso come gli anni Novanta in Russia – rimane straordinaria.

I suoi biografi concordano sul fatto che, con la fine del secondo mandato da presidente, Eltsin e la sua influente famiglia (che in Russia era nota al tempo come “la Famiglia”) stessero cercando un sostituto che potesse garantire i loro interessi economici e il loro status. In quegli anni, peraltro, furono avviate varie inchieste giudiziarie contro la presunta corruzione del presidente e di vari membri della Famiglia.

Sono state molte le persone che, nel tempo, si sono vantate di aver “scoperto” o perfino di aver “creato” Vladimir Putin. Tra queste l’oligarca Boris Berezovsky, che possedeva la televisione ORT (oggi Canale uno, il più importante in Russia) e che sostenne per anni di essere stato lui a favorire l’ascesa di Putin. Secondo la giornalista del Financial Times Catherine Belton, autrice del libro Gli uomini di Putin, un’altra figura fondamentale fu l’oligarca Sergei Pugachev (che però è la fonte principale del suo libro).

In ogni caso, a un certo punto tra il 1997 e il 1998 gli oligarchi e la Famiglia si convinsero che Putin, un burocrate umile e apparentemente malleabile, sarebbe stato la persona adatta per sostituire Boris Eltsin. Putin si trovò la strada per la presidenza di fatto spianata.

Putin e Eltsin, nel maggio del 2000 (AP Photo/Alexander Zenlianichenko, File)

Nell’agosto del 1999 Eltsin nominò Putin (allora un perfetto sconosciuto) primo ministro e disse che lo considerava il suo successore designato. Le elezioni presidenziali sarebbero state entro un anno, a luglio del 2000, e Putin entrò immediatamente in campagna elettorale, potendo disporre della carica di primo ministro e del pieno sostegno degli oligarchi (che controllavano tutti i media) e dell’apparato statale.

Subito dopo l’annuncio di Eltsin, la Russia fu colpita da una serie di attentati.

A Mosca e in altre città, tra la fine di agosto e settembre del 1999, furono messe potenti bombe nelle cantine di condomini residenziali, che uccisero centinaia di persone e terrorizzarono la popolazione. La gestione di questa crisi terribile da parte del governo di Putin, che si mostrò deciso e rassicurante, accrebbe enormemente la sua popolarità. Le autorità incolparono immediatamente degli attacchi terroristici i guerriglieri separatisti ceceni, e Putin approfittò dell’occasione per dichiarare la Seconda guerra cecena, che condusse con estrema brutalità (dopo che la prima era stata persa da Eltsin).

Gli attentati agli appartamenti generarono anche enormi sospetti. Molti analisti stimati e rispettabili ritengono (con alcuni argomenti a loro favore) che a piazzare le bombe non fossero stati terroristi ceceni ma agenti dell’FSB, con l’intento di dare popolarità a Putin e far cominciare una nuova guerra.

Questa ipotesi è trattata in Russia come una teoria del complotto ma in Occidente ha un certo seguito e vari giornalisti e storici la ritengono plausibile. In almeno un caso, nella città di Ryazan, degli agenti dell’FSB furono effettivamente sorpresi da un inquilino a piazzare materiale esplosivo in un palazzo, ma l’allora capo dell’FSB Nikolai Patrushev, stretto alleato di Putin, disse che si era trattato di un’esercitazione e che la polvere esplosiva trovata nel palazzo era in realtà zucchero.

Grazie alla gestione decisa degli attentati agli appartamenti e della guerra in Cecenia, e con tutti i media schierati, la popolarità di Putin crebbe eccezionalmente, arrivando a sfiorare l’80 per cento. Ma per assicurarsi la vittoria elettorale, la Famiglia usò un ultimo stratagemma.

Il 31 dicembre del 1999, nell’annuale discorso di fine anno, il presidente Eltsin annunciò a sorpresa le dimissioni immediate, anche se il suo mandato sarebbe dovuto durare fino alla primavera. In questo modo Putin ottenne due vantaggi: poiché era primo ministro fu nominato presidente ad interim, cosa che gli diede enormi possibilità di manovra in campagna elettorale; inoltre le elezioni furono anticipate di cinque mesi, da luglio a marzo, cosa che impedì all’opposizione di organizzarsi.

Il discorso delle dimissioni di Eltsin, in realtà, fu piuttosto toccante, e riabilitò almeno in parte il presidente agli occhi di molti russi. Eltsin, ormai vacillante a causa dei suoi problemi di salute, chiese scusa per quel disastro economico, politico e sociale che erano stati gli anni Novanta in Russia, e soprattutto per aver infranto le speranze di modernizzazione, democrazia e benessere che milioni di russi avevano coltivato dopo il crollo dell’Unione Sovietica.

Voglio chiedervi perdono. Per i sogni che non si sono avverati, e per le cose che sembravano facili ma che si sono rivelate terribilmente difficili. Sto chiedendo il vostro perdono per aver fallito nel sostenere le speranze di coloro che hanno creduto in me quando dicevo che saremmo passati dal grigio, stagnante passato totalitario a un futuro luminoso, prospero e civilizzato. Ho creduto in quel sogno. Ho creduto che avremmo superato l’ostacolo con un solo salto.

Non ci siamo riusciti. In alcune cose sono stato ingenuo, e i problemi si sono rivelati molto più grandi di quanto pensassimo. Abbiamo avanzato tra errori e fallimenti. Molte persone sono state devastate da questi tempi di sconvolgimenti.

Voglio che sappiate – non l’ho mai detto prima, e voglio dirlo adesso – che il dolore di ciascuno di voi è stato il mio dolore, il dolore del mio cuore. Ho trascorso notti insonni, agitandomi a pensare cosa poteva essere fatto per rendere la vita più facile alle persone, anche di poco. […] Ora me ne vado. Ho fatto tutto ciò che ho potuto.

Fu l’ultima volta che un leader russo chiese scusa in questo modo.

Presidente Putin
Putin vinse le elezioni presidenziali di marzo del 2000 con ampissimo margine, e da allora non ha più abbandonato il potere. È in questo momento, inoltre, che le due teorie sulla vita di Putin divergono tra loro.

Nei suoi primi mesi (e poi anni) da presidente, Putin si presentò come un leader moderno e liberale, che voleva trasformare la Russia in una democrazia compiuta e in un’economia di mercato dinamica e florida. Durante il suo primo mandato, mantenne al loro posto buona parte dei ministri e dei consiglieri liberali dell’amministrazione Eltsin. In politica estera, soprattutto, ottenne molti consensi in Occidente quando fu il primo e più sensibile sostenitore degli Stati Uniti dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001 a New York e Washington (era una posizione comunque interessata, perché Putin era impegnato in una speculare “guerra al terrorismo” in Cecenia).

Al tempo stesso, però, oltre ai ministri liberali Putin portò al Cremlino una serie di altre figure, quasi tutti commilitoni e collaboratori provenienti da San Pietroburgo, molti con un passato nel KGB, che divennero i suoi consiglieri più stretti e fidati. All’interno del Cremlino, durante il primo mandato di Putin, gli scontri tra la componente liberale dell’amministrazione e quella più conservatrice e securitaria, composta dal gruppo di San Pietroburgo, furono costanti.

L’idea che molti studiosi si sono fatti è che alla fine degli anni Novanta, mentre Putin faceva la sua carriera eccezionale che l’avrebbe portato alla presidenza, oltre agli oligarchi e alla Famiglia ci fosse un’altra entità che si stava curando della sua crescita: quel che restava del KGB, che aveva cominciato a vedere in quel burocrate di livello medio-basso una possibile risorsa per tornare al potere.

Chi sostiene che Putin non abbia avuto una svolta illiberale e autoritaria, ma che ricostituire un regime fosse il suo obiettivo fin dall’inizio, ricorda appunto come i legami del presidente russo con gli apparati del KGB prima e dell’FSB poi – cioè della parte più conservatrice, nazionalista e nostalgica dell’establishment russo – non si siano mai davvero interrotti.

Un episodio molto citato risale al dicembre del 1999, quando Putin, da poco nominato primo ministro da Eltsin, tenne un discorso davanti agli ufficiali dell’FSB a Mosca. Ricordando il suo passato da agente del KGB disse: «L’obiettivo di infiltrare i più alti livelli del governo è stato raggiunto». Era una battuta, e tutti risero, ma a posteriori, negli anni successivi, molti l’hanno presa con maggiore serietà.

Putin nel 2004 (AP Photo/Alexander Zemlianichenko, Pool, File )

I primi due grossi atti di Putin da presidente (subito dopo aver concesso a Eltsin e alla Famiglia immunità completa da tutte le inchieste giudiziarie) riguardarono i media e gli oligarchi.

Nel giro di pochi mesi, usando metodi non ortodossi e coercitivi, Putin prese possesso dei media russi, soprattutto la televisione, che erano dominati dai due oligarchi Boris Berezovsky e Vladimir Gusinsky. Entrambi avevano sostenuto apertamente Putin durante la campagna elettorale per la presidenza, ma nel giro di pochi mesi si trovarono accusati di reati non sempre solidissimi, minacciati di finire in prigione (Gusinsky vi trascorse un breve periodo) e infine costretti a scappare all’estero. Entrambi cedettero i loro canali televisivi e altre attività a imprenditori fedeli a Putin, o ad aziende di stato facilmente controllabili.

La seconda mossa fu contro un altro oligarca, Mikhail Khodorkovsky, che in quel momento era la persona più ricca di tutta la Russia. Durante il periodo dei “loans for shares”, Khodorkovsky aveva comprato per una cifra stracciata l’azienda petrolifera Yukos, che in poco tempo aveva trasformato (anche grazie a investimenti e all’introduzione di tecniche manageriali occidentali) in una delle più importanti società petrolifere del mondo. Comprata per appena 300 milioni di dollari, Yukos era arrivata in pochi anni a valerne decine di miliardi. Khodorkovsky era diventato un personaggio pubblico famoso, e aveva cominciato ad acquisire sempre più influenza politica.

Appena Putin arrivò al potere, lo stato russo avviò una serie di indagini contro Khodorkovsky per evasione fiscale. Il processo che ne seguì fu seguitissimo e di fatto truccato contro l’oligarca, che fu spossessato di tutte le sue aziende e condannato a nove anni di carcere. Il processo contro Khodorkovsky fu un avvertimento per gli altri oligarchi, che da quel momento in poi non avrebbero più sfidato Putin, e un segnale del fatto che il nuovo presidente, in pochi anni, era già riuscito a mettere sotto controllo il sistema giudiziario.

Il processo fu seguito con scandalo in Occidente, ma con molta più tranquillità in Russia, dove gli oligarchi erano odiati e ritenuti parzialmente responsabili del dissesto economico degli anni Novanta.

Mikhail Khodorkovsky nel 2004 (Oleg Nikishin/Getty Images)

Questo non significa che Putin sia sempre stato sicuro e perfettamente in controllo della situazione. Durante i suoi primi anni alla presidenza ci furono due gravissime crisi (l’affondamento del sottomarino nucleare Kursk, in cui morirono tutte le 118 persone a bordo, e la crisi degli ostaggi al teatro Dubrovka di Mosca, in cui morirono quasi 200 persone a causa di un tentativo di salvataggio disastroso) in cui si mostrò tentennante, indeciso e poco efficace, e fu accusato di una pessima gestione.

Ma il primo mandato di Putin fu un enorme successo, soprattutto dal punto di vista dell’economia. La sua amministrazione fece approvare alcune riforme importanti e necessarie, e trasse beneficio dall’eccezionale aumento del prezzo del petrolio che si verificò in quegli anni. L’economia russa, dopo un decennio di crisi e stagnazione, ricominciò a crescere rapidamente e gran parte della popolazione recuperò man mano un certo benessere, dopo i molti stenti degli anni Novanta.

Putin ottenne facilmente un secondo mandato alla presidenza, nel 2004, con il 71 per cento dei voti.

Il secondo mandato di Putin fu quello in cui le cose cominciarono a cambiare. In poco tempo, gran parte dei consiglieri liberali che ancora avevano mantenuto un certo potere fu mandata via e sostituita dagli uomini fidati di Putin, i pietroburghesi e gli ex KGB.

Nel 2004 l’economista liberale Michail Kasyanov, che era stato il primo ministro di Putin durante tutto il suo primo mandato, si dimise in polemica con la politica economica del presidente. Il giornalista russo Mikhail Zygar, autore del libro All the Kremlin’s Men, racconta un episodio apocrifo in cui Igor Sechin, storico assistente di Putin dai tempi di San Pietroburgo e figura centrale del regime, avrebbe detto a Kasyanov subito dopo le dimissioni: «Grazie per averci mostrato come si governa il paese. Ora ci pensiamo noi».

Il secondo mandato fu anche quello in cui cambiò l’atteggiamento di Putin in politica estera. Putin si era ormai convinto che l’Occidente non stesse dimostrando alla Russia il rispetto che meritava, che la stesse trattando da potenza minore e che anzi si stesse approfittando della sua debolezza per espandere la propria influenza.

Nel febbraio del 2007, all’annuale conferenza sulla Sicurezza di Monaco, Putin tenne un celebre discorso che sorprese tutti i presenti e pose fine all’immagine idealizzata e tutto sommato positiva che molti leader mondiali avevano di lui. Davanti a una platea che comprendeva la cancelliera tedesca Angela Merkel, il segretario americano alla Difesa Robert Gates e altri dignitari internazionali, Putin accusò gli Stati Uniti di voler creare un mondo «unipolare» in cui «c’è un solo padrone, un solo sovrano». Condannò inoltre la NATO per aver accolto nell’alleanza vari paesi ex sovietici, un’«espansione» che Putin riteneva una diretta provocazione contro la Russia.

Questi argomenti sarebbero diventati ben noti negli anni successivi, e via via espressi con maggiore radicalismo e cupezza.

Quando Medvedev era un riformista
Verso la fine del suo secondo mandato, poiché la costituzione russa gli impediva di ricandidarsi, Putin cominciò a progettare un modo per rimanere al potere. Decise di affidare la presidenza a un suo collaboratore fidato e di tenere per sé la carica di primo ministro, in maniera da poter continuare a controllare il paese e potersi poi ricandidare a presidente trascorsi quattro anni.

Fu scelto Dmitri Medvedev, che non era un ex KGB (è un avvocato) ma era comunque un ex compagno di università di Putin, e un membro del gruppo dei pietroburghesi. Vinse facilmente le elezioni del 2008, con il 70 per cento dei voti.

Putin e Medvedev nel 2008 (AP Photo/ Mikhail Metzel, pool)

All’inizio del suo mandato, Medvedev si trovò coinvolto in una rapida ma violenta guerra con la Georgia, che a posteriori è stata vista come la prima fase dell’espansionismo russo.

La Georgia, al tempo guidata dal leader filo occidentale Mikhail Saakashvili, nell’agosto del 2008 aveva invaso la repubblica separatista e filorussa dell’Ossezia del Sud, in risposta a bombardamenti da parte degli osseti. La Russia, a quel punto, accusò falsamente la Georgia di genocidio, e invase il paese in quella che definì un’operazione di «peacekeeping». Durò tutto pochi giorni: l’esercito russo arrivò nei pressi della capitale georgiana Tbilisi e costrinse Saakashvili a firmare un cessate il fuoco oneroso, che imponeva tra le altre cose il ritiro delle truppe georgiane dall’Ossezia del Sud.

La guerra fu considerata un episodio gravissimo, che danneggiò profondamente i rapporti tra Russia e Occidente, ma benché Medvedev fosse già presidente da alcuni mesi, e fosse lui a incontrare i leader stranieri che andavano a Mosca per negoziare, la responsabilità e l’esito di tutta l’operazione furono attribuiti correttamente a Vladimir Putin, che ancora gestiva il grosso del potere dalla carica di primo ministro.

Il fatto è che Medvedev al tempo non era il nazionalista rabbioso che è diventato di recente. Al contrario, aveva una personalità tutto sommato remissiva e cercò di presentarsi come un leader moderato, che parlava apertamente di diritti politici e della necessità di riforme. Aveva una passione goffa ma tutto sommato simpatica per i gadget tecnologici, con cui cercava di trasmettere un’immagine di modernità. La sua amministrazione si riempì di funzionari giovani e riformisti, in contrasto con il nazionalismo e il conservatorismo dei consiglieri di Putin. Gli Stati Uniti, dove nel frattempo era diventato presidente Barack Obama, investirono molto in Medvedev, sperando di trovare in lui un alleato dopo la rottura dei rapporti con Putin.

Soprattutto, la classe media e intellettuale di Mosca e San Pietroburgo, stanca dell’autoritarismo sempre più accentuato di Vladimir Putin, cominciò a sperare che, alle successive elezioni del 2012, Medvedev non avrebbe accettato di lasciare il posto a Putin, e si sarebbe ripresentato alle elezioni con un programma riformista e moderno. Medvedev fece alcuni timidi tentativi in questo senso, che però furono rapidamente soffocati da Putin. Nel settembre del 2011, Medvedev annunciò formalmente che non si sarebbe ricandidato, e che avrebbe sostenuto Vladimir Putin alle elezioni presidenziali dell’anno successivo.

Il regime
Alle elezioni del 2012 Putin ottenne il 63 per cento dei voti: meno di quanto avesse ottenuto lo scialbo Medvedev quattro anni prima, segno di una notevole delusione per il suo ritorno alla presidenza. Le accuse credibili di brogli elettorali furono così generalizzate che molti ritennero il voto una farsa. Fin dall’autunno dell’anno prima, la certezza che Putin sarebbe tornato presidente aveva fatto partire enormi proteste, le prime davvero consistenti contro il governo dal 1999.

Le proteste del 2011–2012 sono uno dei momenti fondamentali della carriera politica di Putin. Furono eccezionalmente partecipate, soprattutto a Mosca e nelle altre grandi città, e dimostrarono che soprattutto la classe media cittadina era ormai stanca di Putin. A Mosca e San Pietroburgo, il fiocco bianco simbolo dei manifestanti divenne in quei mesi praticamente una moda, ed era portato da tutti in strada e sui luoghi di lavoro (Putin lo paragonò a un preservativo).

Proteste contro Putin a Mosca nel dicembre del 2011 (AP Photo/Alexander Zemlianichenko)

Durante le proteste emersero nuovi leader dell’opposizione, in particolare Boris Nemtsov, che era stato vice primo ministro ai tempi di Eltsin, il campione di scacchi Garry Kasparov e soprattutto il blogger anticorruzione Alexei Navalny. L’opposizione presentò il regime di Putin come una cleptocrazia corrotta, che stava trasformando la Russia in una dittatura retrograda.

Putin rispose con estrema durezza. Nel corso di pochi mesi, tutti i principali leader dell’opposizione furono incarcerati con accuse false, come Navalny, o costretti a fuggire all’estero, come Kasparov. Boris Nemtsov, che sarebbe rimasto ancora per anni in Russia a fare opposizione, in parte protetto dalla sua passata carriera istituzionale, fu ucciso nel 2015 a Mosca, a due passi dal palazzo del Cremlino, in circostanze che non sono mai state davvero chiarite. Anche Navalny, poi, subì ben noti tentativi di assassinio.

Dopo le proteste, la retorica di Putin si fece più cupa, e la propaganda di stato più aggressiva. I pochi media indipendenti che ancora rimanevano attivi furono chiusi quasi tutti, e furono promulgate nuove leggi illiberali che riducevano il diritto di protesta e di espressione. La Russia si trasformò di fatto in una dittatura compiuta.

Approfittando in parte degli scandali creati dal gruppo delle Pussy Riot – che cantarono una “preghiera punk” in una chiesa di Mosca con il ritornello “Madonna, liberaci da Putin” – la propaganda del regime russo si avvicinò molto alla destra religiosa. L’Occidente, cominciò a sostenere Putin, non andava condannato soltanto perché minacciava il posto della Russia nel mondo, ma anche perché promuoveva uno stile di vita debosciato e corrotto, contrario alla morale tradizionale e dominato da omosessuali, stranieri e altre minoranze.

Putin si circondò di pseudo intellettuali nazionalisti che vedevano in Mosca la “terza Roma”, dopo la Roma dell’Impero romano e Costantinopoli: ultimo baluardo per la cristianità e la tradizione. Fu in questo periodo che il rapporto tra Putin e la Chiesa ortodossa russa, che era sempre stato molto stretto, divenne praticamente indissolubile.

Putin cominciò a diffondere questi presunti valori anche all’estero, sostenendo (spesso economicamente) i partiti di estrema destra ed etnonazionalisti in tutta Europa.

La Crimea, e la Russia di oggi
La storia di Putin e della Russia negli ultimi anni è più nota. Nel 2014, a seguito delle proteste filo europee in Ucraina, la Russia invase la penisola della Crimea, e poi aiutò e sostenne militarmente le milizie filorusse nel Donbass, alimentando una guerra che è infine sfociata, quest’anno, nell’invasione totale del paese.

Putin aveva già avuto a che fare con l’Ucraina nel 2004, quando la cosiddetta “Rivoluzione arancione” portò per la prima volta al potere un governo filo occidentale, guidato da Viktor Yushenko, in quella che fu una delle sue prime sconfitte in politica estera. Da allora, ai suoi occhi, l’Ucraina è diventata una specie di ossessione, e controllarla, direttamente o indirettamente, la condizione fondamentale per il suo progetto di restaurazione della grandezza russa.

Putin, inoltre, fin dal 2014 impostò il conflitto in Ucraina come uno scontro diretto con l’Occidente, e soprattutto con gli Stati Uniti, cosa che favorì la diffusione di una propaganda sempre più bellicosa ma contribuì anche all’isolamento diplomatico ed economico della Russia.

I tentativi di sovvertire e destabilizzare quell’«ordine mondiale» che aveva denunciato a Monaco nel 2007 non si sono limitati all’Ucraina, e si sono moltiplicati nel corso degli anni.

Di recente, la Russia è intervenuta attivamente in alcuni conflitti soprattutto nel mondo arabo, come quelli in Siria e in Libia. Ha anche influenzato con un certo successo le elezioni americane del 2016 a favore di Donald Trump, e ha avuto un ruolo nell’ascesa dei partiti di estrema destra in Europa.

Questa politica espansionista e revanscista ha avuto un costo. Dopo aver raggiunto il suo picco nel 2013, l’economia russa è in calo o stagnante da quasi un decennio. Al contrario di quanto Putin fece nei suoi primi anni al potere, il regime russo ha reinvestito gli enormi profitti derivati dalla vendita delle materie prime non nella crescita dell’economia, ma in progetti di espansionismo militare dal successo discutibile.

Una decina di anni fa l’economia era lanciatissima, la Russia faceva parte dei BRICS, l’esclusivo club dei paesi ad alta crescita che avrebbero dominato il mondo del futuro (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), e il governo prometteva che la Russia sarebbe diventata la quinta economia del mondo entro il 2020. Sarebbe andata così se il paese avesse mantenuto i tassi di crescita eccellenti dei primi anni di Putin, ma il presidente russo prese una strada differente: oggi la Russia è l’undicesima economia del mondo (l’Italia è nona) e rischia di scendere ancora man mano che l’effetto delle sanzioni per la guerra in Ucraina si farà sentire.

La crescita economica era stata una delle più importanti ragioni del consenso di Putin nei primi anni. Questo consenso – che rimane estremamente alto – oggi è alimentato esclusivamente dalla propaganda bellicosa e nazionalista. Ma anche la guerra sta andando sempre peggio, per il presidente russo.