Certi Nobel per la Pace sono invecchiati male
I nuovi vincitori sono poco controversi, ma nel passato non tutti i premiati hanno promosso la “fratellanza tra nazioni”
Il premio Nobel per la Pace del 2022 è stato assegnato all’attivista per i diritti civili bielorusso Ales Bialiatski, all’organizzazione non governativa russa Memorial e al Centro per le libertà civili ucraino. È una decisione tutto sommato poco controversa, che si concentra sull’importanza della società civile e della lotta per i diritti in tre paesi coinvolti da un grave conflitto. Non sempre tuttavia l’assegnazione dei Nobel per la Pace è stata così pacifica: in questi anni le decisioni sono state spesso imprevedibili e più di una volta si sono rivelate piuttosto controverse.
Alcuni dei vincitori del passato hanno decisamente deluso le aspettative e, dopo aver ricevuto il Nobel, sono andati anche in direzione opposta rispetto all’obiettivo di lavorare «per la fratellanza fra nazioni, per l’abolizione o riduzione degli eserciti permanenti e per la promozione o il sostegno di processi di pace», come chiese al momento dell’istituzione del premio l’industriale svedese Alfred Nobel.
Nessun premio Nobel è però mai stato ritirato e il comitato che lo assegna si è sempre rifiutato di giudicare l’operato dei premiati dopo l’assegnazione.
Il Nobel per la Pace, a differenza delle altre categorie, è assegnato a Oslo e deciso dal Comitato norvegese per il Nobel, composto da cinque membri selezionati dal parlamento norvegese. Funziona così per un’indicazione esplicita di Alfred Nobel, legata al fatto che nel 1901 la Norvegia faceva ancora parte del Regno di Svezia e Norvegia. I cinque membri di solito sono ex politici norvegesi in pensione, ricevono le candidature entro febbraio e decidono secondo un procedimento che resta segreto: tutti i documenti e le registrazioni del processo di selezione sono secretati per 50 anni.
Il comitato l’anno scorso premiò i giornalisti Maria Ressa, cofondatrice e direttrice del giornale filippino Rappler, e Dmitri Muratov, cofondatore e direttore del giornale russo Novaya Gazeta: erano profili diversi, ma entrambi di giornalisti dissidenti, che nei loro rispettivi paesi sono stati perseguitati da governi autoritari che hanno represso sistematicamente la libertà di stampa. Fu una scelta che ampliava i confini del concetto di “pace”, come peraltro già successo in passato, ma che non mostrava particolari criticità e anzi aumentava nella lista dei vincitori il numero di donne, ampiamente sottorappresentate nei 120 anni di storia del premio.
Due anni prima la scelta era stata considerata da subito più controversa, e si sarebbe poi rivelata imbarazzante. Il comitato di Oslo infatti scelse il primo ministro etiope Abiy Ahmed, in carica da poco più di un anno e premiato «per i suoi sforzi nel raggiungere la pace e la cooperazione internazionale, e in particolare per le sue iniziative decisive per risolvere i conflitti lungo il confine con l’Eritrea».
Alcuni osservatori, nonostante le grandi speranze che avevano accompagnato l’ascesa al potere democratica di Ahmed e la storica firma della pace fra Etiopia ed Eritrea, ritennero da subito l’assegnazione come prematura. Appena un anno dopo, il processo di riforme democratiche interne fu interrotto e dal novembre 2020 l’Etiopia è impegnata in una sanguinosa guerra nella regione del Tigrè, con le forze governative accusate di massacri, violenze sessuali e pulizia etnica. Il conflitto, tuttora in corso, è ripreso ad agosto dopo una tregua umanitaria di cinque mesi: le due parti nel fine settimana dovrebbero partecipare a colloqui di pace in Sudafrica.
Anche il 2019 non fu un anno semplice per il Nobel per la Pace: a dicembre l’allora leader del Myanmar Aung San Suu Kyi fu ascoltata dalla Corte internazionale di giustizia dell’Aia riguardo alle violenze sull’etnia dei rohingya. Aung San Suu Kyi era stata premiata con il Nobel per la Pace nel 1991, quando era in carcere per la sua opposizione al regime militare: liberata nel 2010, divenne leader informale del Myanmar nel 2016, a seguito di una serie di accordi con il regime militare. In quell’audizione all’Aia si rifiutò di condannare le violenze dell’esercito birmano nei confronti dei rohingya, minimizzandole e negandole apertamente. In seguito a un nuovo colpo di stato militare, nel 2021, Aung San Suu Kyi è oggi nuovamente incarcerata.
Un altro caso di difficile gestione per il Comitato norvegese è quello del vescovo Carlos Ximenes Belo, premiato nel 1996 con José Ramos Horta per la risoluzione pacifica del conflitto a Timor Est, nel suo processo di indipendenza dall’Indonesia. Belo fu celebrato in patria e all’estero per il coraggio nel denunciare le violazioni dei diritti umani da parte del governo indonesiano. Ma meno di due settimane fa il giornale olandese De Groene Amsterdammer ha rivelato che due uomini lo avevano denunciato per aver abusato di loro e di altri bambini negli anni Novanta.
Il Vaticano pochi giorni dopo ha confermato di aver aperto un procedimento disciplinare già nel 2019, con restrizioni ai suoi movimenti e alle celebrazioni, e con il divieto di contatto con bambini.
Altre volte le scelte sono state meno problematiche, ma comunque controverse: nel 1973 il segretario di Stato americano Henry Kissinger fu premiato con il rivoluzionario vietnamita Le Duc Tho per i tentativi di mettere fine alla guerra in Vietnam. Le Duc rifiutò il premio accusando Kissinger di aver ordinato dei bombardamenti durante il cessate il fuoco. La guerra finì due anni dopo con la caduta di Saigon; Kissinger si offrì di restituire il Nobel.
Il primo ministro israeliano Menachem Begin, premiato nel 1978 per gli accordi di Camp David, avviò l’invasione del Libano nel 1982. Il leader palestinese Yasser Arafat, che vinse nel 1994 con Ytzhak Rabin e Simon Peres per gli accordi di Oslo tra Israele e Autorità palestinese, nel 2000 dichiarò la Seconda Intifada, rivolta violenta contro le forze israeliane.
Anche un’altra decisione più recente è stata discussa: nel 2009 il Comitato di Oslo scelse di premiare il presidente americano Barack Obama, in carica da meno di un anno, «per gli straordinari sforzi per rendere più forte la diplomazia internazionale e la cooperazione fra popoli». Era solo il terzo presidente americano in carica a vincere il premio, dopo Theodore Roosevelt nel 1906 e Woodrow Wilson nel 1919, e lo stesso Obama, scrissero i media, fu sorpreso di una celebrazione così precoce.
Negli intenti del comitato si voleva riconoscere e indirizzare un’inversione di tendenza riguardo al militarismo rispetto al predecessore George W. Bush, che aveva iniziato le guerre in Afghanistan e in Iraq, ma in senso assoluto la presidenza di Obama non fu completamente “pacifista”: approvò un aumento delle truppe in Afghanistan, salite a 30mila soldati, sostenne l’intervento NATO in Libia nel 2011, ordinò raid con i droni in Pakistan e in Yemen. Sulla bontà e la necessità di queste operazioni ci sono ancora ampie discussioni, ma molti esperti concordano sul fatto che il Nobel a Obama fu quanto meno prematuro.